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Capitolo XVI


Padre Ferdinand pronunciò quelle parole con aria solenne sotto il sole del primo giorno di ottobre, scottante come se ci si trovasse in piena estate.

Socchiusi gli occhi nel guardare la bara in noce sospesa a mezz'aria dalle cinghie che presto l'avrebbero portata nella sua nuova casa. Deglutii, le lacrime mi pizzicavano gli occhi e la gola pulsava dolorosamente per quelle che avevo versato negli ultimi giorni.

Strinsi convulsamente la mano di Bea, in piedi accanto a me, il suo peso appoggiato quasi appoggiato del tutto a una stampella. Aveva minacciato Elias di tirare giù l'ospedale a forza di urla se non le avesse dato il permesso di venire al funerale e io non avevo dubbio che l'avrebbe fatto sul serio. Anche lui era qui, qualche fila dietro di noi, ma con gli occhi vigili, lo sapevo, sempre puntati sulla mia amica. Se le fosse successo qualcosa ne sarebbe stato lui il solo responsabile e di certo non voleva essere radiato dall'albo nonostante avessi intuito fosse solito usare metodi non proprio consoni all'ambito medico.

Su di me, invece, percepivo lo sguardo di Christopher, rigido accanto al suo amico, presente di sua iniziativa. Io non gli avevo chiesto niente, lui si limitava solo a rimanere in piedi a qualche metro da me, a essere il mio Atlante.

Heath, accanto al padre in uniforme, tremava visibilmente come una foglia. Era anche lui sull'orlo delle lacrime, la mascella contrata per impedire a queste di uscire. Con tutta probabilità si stava anche mordendo la lingua pur di fuggire il pianto.

Avanzò di un passo, in mano non aveva una rosa, ma una calla. Tutti noi ne avevamo una in ricordo di Marlene. L'appoggiò sulla superficie lucida del legno laccato, i suoi occhi esprimevano ciò che pensava, un dialogo segreto che sarebbe rimasto solo fra lui e sua madre.

Mi si strinse il cuore, e il mio pensiero andò alla mia cara e dolce madre che aveva fatto fuoco e fiamme per potersi presentare, salvo non mettere in conto un nuovo omicidio che richiedeva la sua urgente competenza in materia essendo di importanza europea. Aveva litigato pure con il capo dell'Interpol ma non v'era stato nulla da fare, era dovuta rimanere a Parigi.

Uno a uno, i miei amici lasciarono la calla sulla bara, io e Bea ci muovemmo all'unisono, lentamente, quasi non volessimo dare l'estremo saluto a una donna che, in un modo o nell'altro, ci aveva fatto da madre.

Accarezzai la bara gelida e il magone tornò ad attanagliarmi la gola, mozzandomi il respiro. Fu Bea a trascinarmi via, in un certo senso, guidandomi accanto agli altri. Ash mi affiancò e mi strinse l'altra mano, anche lui scosso dalla perdita.

Coperta di bianco come a voler celare la sua vera identità, la bara iniziò lentamente a scendere verso il basso. Anche le mie lacrime iniziarono a scendere rigandomi le guance, la mano di Ash mi cinse la vita e io affondai il volto nell'incavo della sua spalla nel tentativo di fermare i singhiozzi che mi scuotevano.

Ero stata assalita da un attacco di pianto anche quella mattina a casa, quando avevo preparato vassoi di sandwich, una terrina d'insalata e anche dei muffin alla banana, i preferiti di Marlene. Sapevo che a scuola avevano ricordato il lutto di Heath, ma in pochi si erano presentati quel pomeriggio, sebbene fossi certa avrebbero fatto piovere bigliettini di cordoglio.

Dopo attimi che mi parvero interminabili, la prima manciata di terra colpì il legno della bara come uno schiaffo attutito dai fiori, comunque tanto violento che sembrò riverberarmi nelle ossa.

Lentamente, affiancata da Bea e Ash, mi avvicinai al cumulo di terra dal quale i miei amici avevano già attinto. Afferrai un pugno di terra fredda e umida e avanzai di mezzo passo, il braccio allungato sopra il baratro. La terra scivolò via dalle mie dita e colpì i fiori come pioggia, seppellendo la loro bellezza e la loro innocenza affinché accompagnassero per sempre il viaggio di Marlene.

Ritornai accanto a Bea, anche lei aveva le lacrime agli occhi, ma non aveva pianto, sapevo che lo avrebbe fatto in privato, nel buio della sua stanza d'ospedale. Matthew si avvicinò a noi, anche lui scosso per la perdita, i capelli biondo-castani legati in una coda di cavallo gli mettevano in risalto il volto, la punta del naso dritto arrossata. Mi rivolse un mezzo sorriso mesto mentre cercava la mia mano.

Inevitabilmente, mi ricordai del funerale della madre di Bea. Ci avevo pensato ripetutamente in quegli ultimi giorni, era stato impossibile non farlo, non ricordare come ci eravamo stretti tutti attorno a Bea e Peter, incapaci di dar loro un vero e proprio conforto, anche se alla fine ci eravamo riusciti distraendoli il più possibile. Tutti noi sapevamo che era stata Bea a trovarla, ma solo io e suo fratello avevamo visto in che condizioni era davvero quella sera, avvolta nella coperta termica dell'ambulanza, lo sguardo perso nel vuoto.

In quel momento Heath era la copia di Bea, fissava la fossa rettangolare con lo sguardo assorto senza vedere davvero la tomba di sua madre.

Mentre i partecipanti si diradavano avviandosi verso le macchine posteggiate per dileguarsi del tutto, noi rimanemmo accanto a lui. Fiona era la più vicina e gli stava sussurrando quelle che dovevano essere parole di conforto nell'orecchio. Una smorfia gli si disegnò sul volto, di sicuro voleva essere un sorriso ma era stato stroncato sul nascere dal dolore che provava e che non riusciva quasi a sopportare.

Fiona era una degna discepola di mia madre, anzi, più che altro la giovane copia di ciò che era stata un tempo. Portava un foulard nero con fiori bianchi fra i capelli scuri, nulla di osceno o fuori luogo, così come non lo era il suo abito scuro la cui gonna era ornata di rose bianche in stoffa. Heath l'abbracciò a lungo, dondolandola appena, come se quel gesto servisse a confortare lei invece che lui.

Bea e io ci avvicinammo a Heath e Fiona, quest'ultima stava cercando di farlo parlare senza alcun esito soddisfacente. Gli occhi di Heath si alzarono su di noi e si incatenarono a quelli di Bea, un tempo la sua ragazza e ora sua amica e compagna nel lutto, perché fra noi, lei era quella che più di tutti poteva capirlo. Rimasero a guardarsi negli occhi per un tempo indefinito, parlandosi silenziosamente ma con un'intensità tale che io e Fiona dovemmo distogliere lo sguardo. Bea si gettò quasi a capofitto fra le sue braccia, le lacrime cristallizzate fra le ciglia scure mentre lui la stringeva a sé con forza, incurante quasi di farle del male ma, se anche gliene avesse fatto, lei non avrebbe protestato.

Abbracciai Heath con forza nel momento stesso in cui le braccia di Bea lo lasciarono, quasi temessi che sarebbe sprofondato se non avesse avuto nessuno a tenerlo a galla. Gli cinsi il collo con le braccia, sollevandomi sulle punte mentre lui ricambiava la stretta mozzandomi quasi il respiro. Non riuscivo a parlare, il groppo che mi si era formato in gola mi impediva di pronunciare qualsiasi cosa, ogni parola che sarebbe fuoriuscita dalle mie labbra non avrebbe potuto lenire la ferita insanabile che gli dilaniava il cuore. Sentii, ma forse fu solo una mia impressione, un grazie lasciare le sue labbra, e io aumentai, per quanto potevo, l'intensità dell'abbraccio.

Quando mi ebbe lasciata, Heath raggiunse suo padre e insieme ricevettero gli ossequi da parte dei partecipanti al funerale, invitandoli gentilmente a raggiungere la loro casa. Alzai lo sguardo su Bea, aveva le labbra strette in una linea sottile e alcune ciocche di capelli biondi erano sfuggite alle forcine che le avevo infilato con estrema pazienza. «Mi dispiace che tu debba rivivere tutto questo,» mormorai affinché solo lei sentisse.

Scosse la testa, la bocca le si piegò in una smorfia. «A me no,» disse risoluta, «un tempo sarebbe stato un incubo anche solo l'idea di venire qui, ma per Heath farei questo e altro, così come lo farei per ognuno di voi.»

«Lo fai davvero solo per Heath?» Avrei voluto mordermi la lingua fino a sanguinare. Dio, quanto ero stupida.

Bea però sorrise, cogliendomi di sorpresa. «Ho sempre pensato che tu fossi capace di leggere nel pensiero,» commentò, al che la guardai storto. «Non vengo qui da un bel po', l'ultima volta mi ci ha trascinato Peter e non è stato un bello spettacolo,» spiegò stringendosi nelle spalle, «ma l'altra sera Elias mi ha chiesto se me la sentissi di venire e io gli ho risposto che ne avevo bisogno.»

Sorrisi nel sentire quelle parole e le strinsi la mano che tenevo saldamente nella mia. Quelle erano le parole che mi ero aspettata da lei, parole che significavano l'inizio di un cammino verso la felicità.

«Piuttosto,» disse dopo qualche attimo chinandosi verso di me, «dovresti andare dal tuo Christopher, ha una brutta cera, e non credo sia un vampiro che sopporta abbastanza la luce del sole come Mick St. John.»

Mi voltai seguendo il suo sguardo. In effetti Christopher era rigido accanto a Elias, ascoltava ciò che il suo amico gli diceva ma teneva lo sguardo fisso su di me, il volto contratto una maschera di pura impassibilità sotto la quale era ben visibile il malessere. Aggrottai la fronte, non mi aveva detto di non sentirsi bene quella mattina. «Sarà meglio andare a vedere cos'ha. Sei sicura di...»

«Vai,» sibilò Bea, «il nostro caro Ash si prenderà egregiamente cura di me.» Povero Ash, anche impegnandosi per non sembrare tale, Bea era una dittatrice nata, avrebbe fatto sudare freddo anche il diavolo.

Evitando accuratamente di guardare la fossa, l'aggirai e mi diressi verso Christopher, il suo volto sembrò rilassarsi non appena lo raggiunsi. «Tutto bene?» chiesi cercando di abbozzare un sorriso, non ero in vena di smancerie o altro, ma volevo essere gentile con lui, anche perché sembrava davvero sul punto di svenire da un momento all'altro.

Non disse nulla per alcuni istanti, al che io alzai lo sguardo su Elias, il sopracciglio arcuato come a domandargli cosa avesse il suo amico. Lui si limitò a stringersi nelle spalle.

«Sto bene, non preoccuparti per me,» rispose infine Christopher, rilasciando il respiro che aveva trattenuto neanche il cimitero fosse stato una stanza piena di appestati. «Facciamo due passi,» disse votandosi e incamminandosi senza aspettarmi, senza chiedermi nemmeno se potessi allontanarmi da lì. Guardai un'ultima volta Elias ma lui scosse la testa, non poteva farci nulla, era chiaro, e se non poteva chi lo conosceva da tempo, come potevo fare qualcosa io?

Con un sospiro rassegnato seguii Christopher per poi affiancarlo. Aveva lo sguardo adombrato e le spalle appena incurvate, come se un peso doloroso gli gravasse addosso. Mi domandai se me ne avrebbe mai parlato.

Cercai la sua mano e la strinsi con forza. «Vuoi dirmi cosa c'è che non va?» chiesi cercando di essere gentile. Volevo che mi dicesse cosa lo turbava ma non volevo che si chiudesse sempre più a riccio.

Lui ricambiò la stretta e si fermò, voltandosi per guardarmi negli occhi. «Non credo potrò mai essere geloso dei tuoi amici,» disse criptico, il mare nei suoi occhi si era ghiacciato, rendendomi impossibile stabilire cosa stese provando.

Aggrottai le sopracciglia. «Non devi essere geloso di loro, non ne hai nessun motivo,» risposi confusa da quella sua frase. Perché stava dicendo questo?

«Hai ragione, quello che volevo dire è che sono geloso. Loro riescono a starti vicino in un modo che io non conosco. Ho visto come ti abbracciavano senza...» si fermò e guardò da un'altra parte, ma io sapevo cosa voleva dire: senza temere che mi facessero del male.

Mi morsi il labbro. «Christopher, mi hai abbracciata molte altre volte, e io ho bisogno che tu lo faccia,» ammisi disegnando cerchi invisibili sul dorso della sua mano, sentendolo sussultare. «Ma non è solo per questo, vero? Questo è solo un pretesto,» aggiunsi avvicinandomi di mezzo passo e cercando il suo sguardo.

Era vulnerabile, in quel momento, sul suo volto vidi una miriade di emozioni contrastanti che scomparirono all'improvviso sotto una maschera di impassibilità. «Loro sono alla tua altezza, sono buoni, come te. Non potrò mai essere geloso di loro perché non avranno mai ciò che ho io, ricchezza e notorietà, ma sono geloso perché loro hanno te,» continuò senza badare a ciò che avevo detto.

Scossi il capo con forza. «Ma io ho deciso di stare con te, Christopher,» risposi con enfasi, alzando la mano libera per accarezzargli una guancia. Si appoggiò al mio palmo per un istante, poi si ritrasse.

«Sei troppo innocente per stare con me, Lia, sei così buona e fragile,» mormorò quasi fra sé, al che inspirai bruscamente, irritata per quel suo comportamento.

«Senti, signor lunatico, ho deciso io di stare con te, e rimarrò con te fino a quando mi sarà possibile, ma non deciderai tu per me, hai capito?» sibilai puntandogli il dito contro il petto, lo sguardo irato per quel suo comportamento da bambino volubile.

Lui mi voleva, voleva il mio corpo, ma in quel momento lo stava rifiutando per codardia, perché aveva paura di farmi del male. Eppure con le sue ex amanti non era andata così, no? A loro andava bene, magari, eppure si faceva dei problemi per me. Sbuffai, anche se sapevo che avrei dovuto sentirmi lusingata da un comportamento del genere, dalla sua voglia di proteggermi da se stesso io non volevo che lo facesse, non volevo un trattamento di riguardo, io volevo che si appoggiasse a me e che mi raccontasse ogni cosa che lo tormentava, sindrome da crocerossina o meno, io volevo aiutarlo, perché sapevo perfettamente che tenere dentro di sé i propri demoni era una condanna a diventare tale.

«Il mio Altante,» lo sentii sussurrare prima di sorridere appena, mesto, mentre mi accarezzava il bracco con dolcezza da sopra la manica traforata.

«Esatto,» ribattei, «perciò lasciami fare il mio lavoro.»

Mi strinse brevemente a sé in un abbraccio goffo e un poco distaccato. «Non mi piace venire qui, per ora ti basti sapere solo questo,» mormorò a voce abbastanza alta affinché riuscissi a sentire quella sua ammissione. C'era un solo significato da attribuire a quella frase, ma non chiesi chi avesse perso, bensì mi limitai a stringerlo con tutta la forza che avevo in me.

«Sono comunque geloso, con loro sei così spontanea,» borbottò appoggiando il mento sulla mia testa, al che sbuffai, divincolandomi dalla sua presa.

«Te l'ho già detto, non ne hai motivo,» sbottai incrociando le braccia al petto, risentita da quella sua frase. «E poi di loro so tutto, non ho la costante paura di dire la cosa sbagliata e farli infuriare.»

Era la verità, per quanto ci intendessimo piuttosto bene, io e Christopher non ci conoscevamo al punto da scherzare su ciò che avevamo fatto o sul nostro passato. Per quanto ne sapevo io, Christopher poteva anche essere un serial killer di notte.

«A quanto pare, dovrò farmi perdonare,» disse con un sospiro prendendomi le mani fra le sue. Sapevo che ci stavano osservando, alcuni più discretamente di altri, eppure non m'importava, non in quel momento.

«Non mi serve nulla,» risposi prontamente, sapevo che un tempo avrebbe pensato che un regalo dispendioso sarebbe servito a cancellarmi la memoria, ma con me non ci sarebbe riuscito. «Ma puoi sempre raccontarmi qualcosa di te, magari davanti a una buona fetta di torta.»

Non mangiavo molto da giorni, il che aveva fatto preoccupare Christopher, sapeva perfettamente che stavo davvero male quando non mangiavo, e questo era uno di quei casi. Mi era tornato un poco di appetito nelle ultime ore, ma non avrei addentato neanche mezzo muffin alla banana, già il profumo nella mia cucina era tanto da far venire il voltastomaco. Lo vidi sorridere appena, almeno l'ultima parte della mia frase aveva centrato l'obbiettivo.

Con la coda dell'occhio vidi gli altri allontanarsi e Bea, che sembrava non stesse ascoltando affatto un logorroico Elias, mi fece segno di avvicinarmi. Alzai lo sguardo su Christopher. «Vieni anche tu?» domandai mordendomi il labbro inferiore. Non ero certa che si sarebbe sentito a suo agio, o forse avevo paura che non lo sarei stata io, ma era risaputo pure che a casa dei cari del defunto andavano solo i parenti o gli amici stretti.

Quasi mi avesse letto nel pensiero, Christopher scosse il capo. «No, Lia, verrà Elias per non perdere d'occhio Beatrice, ma io non conoscevo la madre del tuo amico, né sono un amico di famiglia.» Si fece improvvisamente più distaccato, quasi io fossi stata un serpente e avessi minacciato di morderlo. «Va' dal tuo amico e stagli accanto, ne avrà bisogno.»

Mi morsi il labbro, sembrava stesse parlando per esperienza – anzi, ne ero sicura – eppure non gli chiesi nulla, non volevo che si allontanasse ancora di più. «Per lui è stato un duro colpo, spero solo che non faccia sciocchezze,» mormorai abbassando lo sguardo.

Le dita di Christopher mi costrinsero gentili ad alzare il mento e a guardarlo negli occhi. «Finché avrà te accanto, non farà alcuna sciocchezza,» disse fiducioso, sorridendomi appena, e mi si sciolse il cuore. Improvvisamente, però, tornò ad adombrarsi. «Domani devo partire, starò qualche giorno a New York, all'inizio di ogni mese faccio un controllo ad alcune filiali. Ti chiederei di venire con me, ma è evidente che non puoi.»

Sgranai appena gli occhi, e il pensiero che se ne andasse alcuni giorni dall'altra parte del continente mi chiuse lo stomaco. Nonostante quella sensazione sgradevole, annuii. «In questo momento è impossibile, Christopher. Oltretutto cosa mai potrei fare a New York se non esserti d'intralcio? »

Sospirò, esasperato. «Non saresti un intralcio, Lia.»

«Anche le tue ex ti seguivano come cagnolini fedeli?» Non riuscii a fermarmi in tempo, ma nemmeno volevo mordermi la lingua, era una domanda che avevo dentro da molto e che non mi dava pace.

Il suo volto si fece scuro, la tempesta iniziò a infuriare violenta, sapevo benissimo che quello non era un argomento da toccare ma l'avevo fatto lo stesso, e ora ne avrei pagato le conseguenze. «Sei proprio una bambina, Dahlia.» Dette queste parole – che mi ferirono più di quanto diedi a vedere – mi voltò le spalle e se ne andò a passo svelto fra le tombe, come un fantasma che sarebbe svanito dalla mia vista da un momento all'altro.

Con i pugni stretti talmente tanto da far sbiancare le nocche e con somma fatica tornai dai miei amici, lottando contro le lacrime di dolore e indignazione che minacciavano di uscire. Raggiunsi Bea, il suo sguardo era eloquente: ero una macchina pronta a esplodere. Inspirai a fondo più volte, Elias si era interrotto e mi osservava con attenzione, probabilmente stava valutando se fosse il caso di darmi un calmante. Del cibo spazzatura e qualcosa da prendere a pugni sarebbero stati dei calmanti migliori.

«Andiamo?» sbottai digrignando i denti, stavo cercando di mantenere la calma e non esplodere come una bomba atomica, era probabile che facessi altrettanti danni tanta era la mia rabbia.

Bea annuì, lanciando un'occhiata a Elias. Quei due, lo vedevo bene, sembravano andare d'accordo, ogni volta che andavo a trovarla e lui entrava nella sua stanza lei gli rivolgeva un sorriso radioso, il suo volto si illuminava come mai le avevo visto fare. La ragazza mi nascondeva qualcosa, c'era troppa complicità nell'aria.

Lentamente ci avviammo verso l'auto di Elias, un'Audi monovolume rossa fiammante, un po' troppo grande per una persona sola senza famiglia, come avevo potuto capire, ma non avevo fatto domande, dopotutto non lo conoscevo abbastanza bene.

Sedetti al posto del passeggero, Bea invece si accomodò dietro dove avrebbe anche potuto distendere la gamba se non fosse stata troppo orgogliosa. Aveva iniziato bene la fisioterapia e c'erano anche buone possibilità che potesse tornare ad allenarsi entro la fine dell'anno, senza però sforzarsi troppo. Forse avrebbe potuto fare un paio di gare in primavera. Bea era forte, e io avevo fiducia in lei.

«Vuoi che vada a prendere il punchball di Peter?» domandò Bea tentando di ironizzare, ma l'occhiataccia che le lanciai dallo specchietto retrovisore la zittì subito. «Allora è meglio nascondere i coltelli da cucina,» borbottò a mezza voce alzando gli occhi al cielo.

«È odioso,» sibilai fra i denti, incrociando le braccia al petto e guardando fuori dal finestrino senza però vedere le persone sui marciapiedi o le case circostanti.

«Non è abituato, Dahlia,» cercò di difenderlo Elias, rischiando così di diventare il mio nuovo bersaglio per coltelli da cucina in assenza del suo amico.

Alzai gli occhi al cielo, spazientita, battendo anche il piede sul tappetino. «Non è abituato? Mi pare che con le donne gli sia andata piuttosto bene,» replicai con uno sbuffo irritato. Come poteva non essere abituato? A cosa non era abituato?

«Non è abituato alla gelosia,» rispose alla mia domanda tacita, facendomi sussultare, «le sue ex sono sempre state autodidatte, e più delle solite cose materiali che le donne vogliono non gli hanno mai chiesto nulla, né tantomeno si sono dimostrate gelose. Lui però chiedeva onestà e fedeltà, alcune hanno avuto delle storie con altri uomini e, per vendetta, le ha fatte colare a picco.»

Per quanto Elias sembrasse sbottonato in merito al suo migliore amico, sapevo che non mi avrebbe detto molto. «Non è colpa mia, Elias, io sono fatta così, e Christopher lo sapeva, se non gli comodava il mio carattere poteva lasciarmi stare quando ancora poteva.» Sembravo una leonessa affamata, mancavano solo i ringhi feroci. Inspirai a fondo per calmarmi, non dovevo infuriarmi, non con Elias almeno. Forse il punchball di Peter avrebbe potuto aiutarmi.

Elias annuì, ma l'espressione sul suo viso era mesta. «Per lui sei una sfida, talvolta la scelta di aiutarti si ritorce contro di lui, ma non oserebbe mai ritirare la propria offerta, questo lo sai bene quanto me. Devi dargli solo il tempo di smaltire la rabbia. Anche tu avrai tempo per farlo.» Annuii lentamente, sapevo che aveva ragione, in un certo senso, ma se i problemi non si affrontavano non si sarebbero mai potuti superare.

Bea era stata in silenzio per tutto il tempo, sapeva che quello non era un discorso in cui intromettersi, nemmeno per difendermi, perché non conosceva Christopher, e lei non giudicava quasi mai senza aver prima tutti i dati per poterlo fare, l'esperienza le aveva fatto capire che dietro l'espressione serena di una persona poteva celarsi anche il più tetro dei passati. Da amica fidata, però, Bea non riusciva comunque a starsene zitta. «Un uomo non può pensare che una donna faccia sempre ciò che vuole lui, non siamo nel Medioevo.»

«Bea,» sospirò Elias, spazientito, sembrava che avessero già avuto quella discussione prima, «è difficile, lo sai. Christopher è un uomo pieno di estro, purtroppo però è cresciuto in un mondo di costrizioni e ha avuto sempre quest'idea della donna.»

Mi morsi il labbro inferiore, sapevo benissimo che Christopher sembrava un adolescente alle volte, ma ogni tanto sembrava addirittura troppo vecchio per la sua giovane età. Sospirai appena, scuotendo il capo, esasperata. «Basta ora, vedrò di parlargli quando tornerà, adesso abbiamo qualcosa di più importante da fare che stare qui a parlare della mia vita privata.»

Elias parcheggiò dietro la macchina di Ash e guardò Bea dallo specchietto retrovisore. «Tutto bene, Bea?» chiese con una nota d'apprensione nella voce. Non era il medico a parlare.

Lei rimase qualche momento in silenzio, probabilmente domandandosi a cosa si riferisse, poi annuì lentamente. «Sì, ma potrebbe sempre andare meglio,» disse stringendosi nelle spalle. Scesi dalla macchina e andai ad aprirle lo sportello, aiutandola a scendere e a rimettersi in equilibrio, seppur precario.

Accompagnai Bea in casa, salire i pochi gradini della veranda di Heath fu quasi un incubo per lei, e quando finalmente riuscì a sedersi sul divano del soggiorno mi rivolse un ampio sorriso. «Vado a prenderti qualcosa da mangiare,» dissi lasciandola alle abili cure di Elias, che si sedette accanto a lei, iniziando una fitta conversazione che non rimasi ad ascoltare.

Avevo allestito, insieme a Fiona e Nine, sotto gli ordini di Bea, un piccolo buffet che era già stato preso d'assalto dagli altri invitati. Non capivo molto bene quest'usanza, ma dato che era radicata nella cultura americana probabilmente da secoli non potevo fare altro che seguirla. Presi un piatto e vi misi sopra cibarie varie che però non mi ispiravano per niente, il mio stomaco era annodato strettamente e il solo profumo di costolette arrostite mi dava la nausea.

Tornai da Bea e mi sedetti accanto a lei, porgendole il piatto. «Dovresti mangiare qualcosa,» mi rimproverò vedendo che non avevo preso niente per me né che avevo alcuna intenzione di prendere qualcosa dal suo piatto.

Scossi il capo. «Non ho molta fame, al momento, dopo aver passato la mattina a cucinare credo sia normale,» tentai di difendermi con un sorriso timido, sperando che non facesse altre domande. Non era quello il motivo per cui non mangiavo niente e Bea lo sapeva perfettamente, ma ebbe il buon senso di non dire nulla, anche perché mi bastò l'occhiataccia che mi lanciò mentre si avventava sulla pasta fredda di Nine.

Attorno a me vagavano persone che conoscevo di vista oltre ai miei amici, e quando Heath sprofondò nella poltrona davanti a me vidi che avrebbe preferito starsene da solo piuttosto che con gente di cui non ricordava nemmeno il nome. Alzò per un attimo lo sguardo su di me, un turbinio di dolore mescolato a riconoscenza. Cercai di sorridere alzando un angolo della bocca ma non dissi nulla, non sapevo cosa dirgli per farlo stare meglio, Cristo, non sapevo nemmeno se esistesse un modo per sollevargli il morale.

Improvvisamente, i miei amici si sedettero alcuni sui due divani, altri sul tappeto mentre Matt e Ash portavano dei calici da champagne e Nine una bottiglia di vino. Ben presto i bicchieri furono tutti riempiti e ce li passammo fra di noi, anche a Bea, seppure in quantità inferiore, concessole solamente dopo un'occhiataccia di Elias che aveva fatto trasalire Ash.

Heath non si mosse, stringeva il calice fra le dita e si guardava attorno confuso, troppo spossato per opporsi anche minimamente. L'unica cosa che fece fu impedire al padre di obiettare quando Matt e Ash imbracciarono le chitarre e iniziarono a suonare.

Riconobbi la canzone solamente quando Matt iniziò a cantare, e subito le lacrime mi annebbiarono la vista e il cuore pulsò dolorosamente nel mio petto. In breve si unì anche la voce di Ash, e al momento del ritornello, tutti stavamo intonando No-One But You, io compresa, nonostante la voce spezzata.

«One by one, oly the good die young, they're only flyin' too close to the sun, and life goes on, without you.»

Sul volto di Heath scendevano le lacrime, così come sul quello di suo padre e degli altri ospiti che si erano uniti alla nostra commemorazione. Strinsi la mano di Bea, le dita intrecciate alle sue mentre cantavo con voce roca il testo dei Queen.

«And so we grace another table, and raise our glasses one more time, there's a face at the window, and I ain't never, never sayin' goodbye.» Tutti alzammo i nostri calici al cielo, brindando a Marlene, al suo ricordo che in noi non si sarebbe mai spento, ma brindammo anche alla madre di Bea e Peter, perché nessuno l'aveva mai dimenticata, né l'avrebbe mai fatto.

«One by one, only the good die young, they're only flyin' too close to the sun, cryin' for nothing, cryin' for no-one, no-one but you.» Le lacrime mi rigarono le guance mentre stringevo convulsamente la mano di Bea, anche lei stava piangendo, e l'abbracciai circondandole le spalle con un braccio nel tentativo di farle capire che io c'ero, che non l'avrei mai abbandonata.

Lei ricambiò la stretta con forza, ricordandomi ancora una volta che anche lei ci sarebbe sempre stata per me, che non mi serviva che Christopher fosse il mio Atlante, perché avevo già molti amici che mi avrebbero sorretta nel momento del bisogno.

Tuttavia, egoisticamente, io volevo anche lui.

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