Capitolo X
E sentiamo, perché proprio io devo andare all'Homecoming? >>
<< Perché poi devi farmi il resoconto dettagliato della serata, ovviamente, >> replicò asciutta Bea dall'altro capo del telefono. Quel pomeriggio, appena suonata la campanella, il cellulare aveva iniziato a vibrare nella tasca dei miei jeans. Era Bea che voleva chiedermi scusa per come si era intromessa in una discussione che non la riguardava senza che io lo desiderassi ed io, a mia volta, le avevo chiesto scusa per come l'avevo trattata tagliandola fuori dalla mia vita. Si meritava una spiegazione - o una statua per avermi sopportata per anni e per continuare a farlo - ma purtroppo non me la sentivo di dargliela, e fortunatamente lei l'aveva capito.
Come punizione, lei doveva vincere la prossima gara di ginnastica artistica a cui avrebbe partecipato mentre io dovevo andare all'Homecoming, e che Homecoming era senza delle appropriate scarpe col tacco? Entrambe dovevamo sacrificare il nostro orgoglio, ma lei, a differenza di me, ne avrebbe tratto vantaggio, vedevo quanto amasse la ginnastica artistica, quanto le mancasse essere libera, quanto quella sensazione di libertà la rendesse un'altra persona, la rendesse se stessa. In effetti, a mente lucida, quell'accordo era una vera e propria fregatura.
Dopo la scuola avevo guidato fino al Citadel Outlets, il Paradiso in terra per gli amanti dello shopping e, su indicazione di Bea, ero entrata in uno dei tanti negozi di scarpe, cosa che non avrei mai fatto da sola se non sotto costrizione.
<< Certo, come no, >> borbottai guardandomi attorno per capire in che mondo fossi arrivata. Repressi un brivido, finché erano sneakers, io e le scarpe andavamo d'accordo. << Ho sentito Heath, ha confermato che verrà con me. >>
<< Visto? Te l'avevo detto che non saresti stata sola! >> esclamò e dovetti allontanare l'iPhone dall'orecchio, se andava avanti così sarei diventata sorda nel giro di poche settimane. Mi avvicinai ad uno scaffale sul quale erano in esposizione degli anfibi, ma quando abbassai lo sguardo sul prezzo sussultai e mi allontanai. In che negozio mi aveva mandata Bea?! << Sei dentro? >>
Ridacchiai sommessamente, sembrava fossimo in missione segreta. << Roger, capo, guidami, >> dissi fingendo professionalità. Ecco come mi piaceva Bea, quando con lei si poteva scherzare, quando niente al di fuori di noi due era importante.
<< D'accordo, allora, se non ricordo male, le scarpe da cerimonia dovrebbero essere verso il fondo del corridoio principale sulla destra, oltre gli stivali, >> spiegò ed io seguii le sue indicazioni arrivando davanti a file e file di scarpe bianco latte.
<< Trovate, >> dissi mordicchiandomi il labbro inferiore, il panico si stava già impossessando di me, il pensiero di passare un'intera serata sopra dei tacchi - peggio ancora se fossero stati tacchi a spillo - mi fece venire le vertigini. Sugli scaffali, in esposizione, scarpe da cerimonia di ogni tipo sembravano mi guardassero fameliche. << Senti, Bea, non penso sia una buona idea... >>
<< Zitta e segui le mie indicazioni, >> sbottò perentoria, << a te servono delle scarpe dorate, cercale e poi descrivimele. >>
Mi diedi una rapida occhiata attorno, e quando notai delle scarpe colorate, raggiunsi a grandi passi quell'angolo del reparto, adocchiandone qualche paio di dorate. << Aehm, ce ne sono di tutti i tipi, ma se mi fai prendere un paio di scarpe col platform ti uccido, >> sibilai arricciando il naso e allontanandomi da quell'inferno alto complessivamente venti centimetri. Da mal di testa.
<< Vediamo un po', >> la sentii sfogliare qualcosa, << ecco qua, a te servono dei tacchi a spillo di circa dieci centimetri. E devono avere la punta. Non eccessiva, mi raccomando. >>
Tacchi a spillo. Le parole risuonarono nella mia testa martellando furiosamente. Gemetti appena, perché a spillo? << Non puoi ordinarmene tu un paio? Ti prego, Bea, >> piagnucolai guardando un paio di scarpe che avevo davanti. Erano belle, bellissime anzi, ma se fosse stato per me non le avrei mai messe.
<< Assolutamente no, >> rispose indignata, << sei tu a doverle mettere e devi prima provarle. >> Faceva sul serio? A differenza dei vestiti, le sue scarpe non mi andavano bene, erano troppo grandi per i miei piedi minuti. Con un sospiro mi arresi ai suoi ordini e mi guardai attorno, vagando fra una corsia e l'altra alla ricerca delle scarpe indicate da Bea, sempre se le avessi trovate, ovviamente. Ne scartai in fretta un bel po', alcune erano troppo alte, alcune avevano la punta aperta, altre gli strass o le perle. No, assolutamente no.
<< Sei sicura di ciò che hai detto? >>
<< Lia, così mi offendi! Nulla legato alla moda sfugge ai miei occhi. Nulla. Sono sicura al centodieci per cento che quelle scarpe ti faranno fare un figurone. >>
<< Sì, e io sono sicura al centodieci per cento che te le tirerò dietro, >> sbottai prendendo in mano un paio di stiletti dorati con le borchie. Borchie? Ad una cerimonia? Sul serio? << Oh, stampe barocche, >> sussurrai con gli occhi a forma di cuore mentre il mio sguardo si posava su un paio di scarpe semplici.
<< Baroque? Perfetto! Prendile, prendile e provale! >> esclamò Bea battendo le mani. Senza farmelo ripetere due volte afferrai la scatola di scarpe con il mio numero e la portai sottobraccio fino ad un divanetto quadrato senza schienale sul quale mi sedetti. Sfilai sneakers e calzini, tirando su i jeans appena sopra la caviglia ed aprii la scatola, bloccando il telefono contro la spalla. Calzai le scarpe e mi alzai dal divanetto con una smorfia sulle labbra.
<< Allarme rosso, >> dissi facendo qualche passo, << troppo strette. >> Mi sedetti subito, già non potevo farcela un'intera serata su dei tacchi, se fossero state pure stretti non avrei retto neanche cinque minuti. Mi tolsi delicatamente le scarpe e le rimisi nella scatola con delicatezza, rovinarle anche solo minimamente avrebbe svuotato il mio conto in banca.
<< Male, male, male! Prega che ci siano di un numero più grande, io pregherò con te, >> disse con un sospiro melodrammatico mentre mi rimettevo le sneakers e riportavo le scarpe al loro posto. Dagli altoparlanti fuoriusciva la musica calma e inconfondibile di Fever. Aspettai di sentire la voce sensuale di Peggy Lee, ma a cantare non era lei, bensì Elvis. Riposi la scatola di scarpe da dove l'avevo presa e tamburellai con le dita sul bianco compensato mentre mi chinavo a cercare il numero che mi serviva.
<< Lia? Che stai facendo? Lia? >>
Non risposi a Bea, troppo impegnata a canticchiare. << You give me fever, when you kiss me, fever when you hold me tight, fever! in the morning, fever all through the night.** >> Come se non bastasse, oltre che a cantare sottovoce in un negozio, stavo anche battendo il piede a ritmo. Afferrai la scatola che mi serviva e feci una giravolta su me stessa, neanche fossi stata in camera mia nella più completa solitudine.
<< Hai una bella voce. >>
Mi girai di scatto tanto che quasi mi caddero di mano scarpe e cellulare. Davanti a me c'era una ragazza dai lunghi capelli biondi, il viso vispo, sbarazzino, con addosso un vestito azzurro al ginocchio e un paio di scarpe dal tacco vertiginoso, al collo risaltava sulla pelle bianca un girocollo nero con dei pendenti che dovevano essere fatti di onice. Con un sorriso cortese, venne in mio soccorso e prese la scatola fra le mani.
<< Lia? Lia, rispondimi. >> La voce di Bea proveniva dal cellulare che accidentalmente avevo messo in vivavoce. Mi affrettai a rimediare a quell'errore e portai l'iPhone all'orecchio.
<< D-devo andare, Bea, ti chiamo più tardi. >>
<< Le foto! >> fece in tempo ad urlarmi nell'orecchio prima che mettessi fine alla conversazione. Doveva aver capito che ero in compagnia, o non si sarebbe sognata di lasciarmi andare senza che le avessi detto altro sulle scarpe.
Alzai lo sguardo sulla ragazza davanti a me che reggeva ancora quelle che speravo sarebbero state le mie scarpe. << G-grazie, >> dissi imbarazzata infilando il cellulare nella tasca anteriore dei jeans, << per il complimento e per l'aiuto, intendo. >> Impacciata, afferrai la scatola che mi stava porgendo e sorrisi timidamente.
<< Non c'è di che, ma fidati di me, non faccio complimenti a sproposito, >> rispose strizzandomi l'occhio, e quando mi accorsi di che colore fossero le sue iridi, per poco il mio cuore non si fermò. Sbattei le palpebre un paio di volte nella speranza che fosse un'allucinazione, ma non era affatto così. I suoi occhi, per quanto potesse sembrare impossibile, erano dello stesso colore del mare in tempesta che mi aveva stregata, un mare blu tempestato di verde ed oro. In lei, però quel mare calmo, il suo sguardo era caldo, dolce, così come il suo sorriso e le fossette che le si formavano sulle guance.
Cercai di ricambiare quel sorriso nel tentativo di sembrare normale e grata, ma mi era difficile davanti a quegli occhi. Deglutii, magari non erano nemmeno conoscenti. Più cercavo di convincermi di ciò, però, più capivo che in qualche modo dovessero essere legati. Dio, perché a me?
La ragazza si avvicinò a me, la mano tesa. << Cassandra Carter, molto piacere, >> si presentò, e il mondo sembrò cadermi addosso. Carter. Merda. Con tutte le persone esistenti a questo mondo io dovevo trovare proprio una parente di Christopher?
Dovetti fare leva sulla parte razionale di me per risponderle e stringerle la mano anche solo per un breve istante. << Dahlia Beauchamp, >> sussurrai mordicchiandomi l'interno del labbro inferiore, << e il piacere è tutto mio. >> Piacere, sì, certo, sarebbe stato meglio definirla agonia, ma ero sicura che non avrebbe capito il nesso. Dovevo calmarmi, necessitavo di farlo, o sarebbe finita male.
<< Sei canadese? >> domandò aggrottando appena le sopracciglia. Era strano che qualcuno non mi chiedesse se fossi francese, anche se in effetti, era più probabile trovare una canadese a Los Angeles, in quanto i turisti francesi, oltre ad accontentarsi delle attrazioni principali, l'inglese lo parlavano con un accento strascicato e nasale.
Scossi il capo. << Mia madre è francese, >> spiegai, rendendomi conto di come sembrasse quella frase: solitamente si portava il cognome del padre, solitamente la madre dava il proprio cognome ai figli conoscendo però l'identità del padre. La mia, invece, mi aveva dato il suo perché di mio padre non ricordava nemmeno il volto. Rabbrividii a quel pensiero.
Cassandra, però, non disse nulla a proposito, e le fui immensamente grata. A differenza del fratello, sembrava che lei non fosse interessata ad immischiarsi nella vita altrui. << La Francia è bellissima, soprattutto sotto Natale, ma immagino tu lo sappia già, >> ridacchiò, le pagliuzze dorate nei suoi occhi scintillarono.
Arrossii, visibilmente a disagio. << A dire il vero, non so affatto come sia a Natale, l'ultima volta che ci sono andata avevo dieci anni, durante le vacanze di primavera. Per tutto il tempo sono rimasta segregata nello studio di mia madre a giocare con degli scheletri in miniatura. >> Pessima. Ero stata pessima. E non solo, avevo anche tentato di fare dell'ironia con una parente di Christopher, con la quale, teoricamente parlando, io non avrei mai dovuto condividere nemmeno l'aria che respiravo. Ma quelle come lei non avevano una personal shopper o qualcosa del genere?
Dopo avermi guardata con sorpresa, Cassandra sorrise. << Tu sei la figlia Audrey Beauchamp, vero? >>
Per un attimo mi sentii mancare la terra sotto i piedi. Aveva fatto anche lei delle ricerche su di me? Magari sapeva di me e suo fratello e quell'incontro non era affatto casuale? Mi diedi della stupida, perché, a pensarci bene, mia madre era conosciuta a livello internazionale. Dovevo calmarmi. Annuii con un riluttante cenno del capo, consapevole di standomi scavando la fossa con le mie stesse mani.
Il suo volto parve illuminarsi, nessuno si era mai interessato così tanto a mia madre, se non quando qualcuno mi domandava un suo autografo o un colloquio di lavoro, peccato lei stesse proprio dall'altra parte del mondo. Mia madre mi aveva lasciata a Los Angeles nell'intento di tenermi lontana dalle attenzioni della stampa, da alcuni fan sfegatati o da qualcuno che covasse del risentimento nei suoi confronti. L'aveva fatto per proteggermi, e di questo le ero grata, sapevamo entrambe che per me quella non sarebbe stata vita.
<< Nonostante sia impressionata dal lavoro di tua madre, non ho intenzione di farti sentire a disagio parlando di lei, lascio questo compito ai maleducati. >> Dio, fatele una statua! Forse era la prima persona al mondo che, sapendo chi fosse mia madre, non mi faceva domande indiscrete su di lei. A parte suo fratello, ma a lui non serviva chiedere per sapere qualcosa sul suo conto, lui cercava le risposte e basta. Cassandra allungò l'occhio sulla scatola chiusa. << Un'occasione speciale? >>
Annuii con un cenno del capo. << Homecoming, >> spiegai con un sospiro sconsolato. Sapevo che questa informazione sarebbe giunta a suo fratello, sempre ammesso che lui non lo sapesse già, ovviamente, ero quasi certa che lei gli avrebbe raccontato di me.
<< Cassandra! >>
Quella voce mi fece gelare il sangue nelle vene. Lui era qui. No. No, no, no! Non era possibile! Non feci neanche in tempo a pensare ad una scusa per andarmene che lo vidi entrare a grandi passi nel mio campo visivo. Rimasi attonita dal suo abbigliamento completamente diverso da quello cui ero abituata. Percorsi tutta la sua figura dal basso verso l'alto, dalle scarpe nere al maglioncino bluette a maniche lunghe, tirate indietro fino al gomito per mettere in mostra i forti avambracci. Ciò che mi sconvolse maggiormente, però, furono i jeans, dei semplicissimi jeans, quasi normali. O meglio, lo erano, ma non avrei mai pensato che un uomo come Christopher Carter avrebbe potuto indossare dei semplici jeans, ero quasi convinta che fin da piccolo lo avessero abituato ad indossare capi formali, una sorta di Bruce Wayne in carne ed ossa.
Nel tentativo di apparire normale, mi permisi un'occhiata al volto di Christopher. Mascella contratta. Merda. Sguardo tagliente, mare in tempesta. Ancora merda. Lassù, quale Dio aveva il coraggio di farmi questo? Io non avevo fatto nulla di male, non mi meritavo tutto ciò.
Cassandra si volse verso di lui, il sorriso non aveva lasciato le sue labbra. << Oh, eccoti qui, >> disse come se non fosse stata lei a perdersi fra gli scaffali. Ad ogni istante che passava mi sentivo morire sempre di più, perché Dio mi sottoponeva a questo supplizio?
Grazie ai tacchi, Cassandra arrivava quasi alla stessa altezza di Christopher, sotto il suo sguardo lei non sembrava affatto sentirsi inferiore. Mi torturai con i denti il labbro inferiore, incurante della possibilità che potessi morderlo con tanta forza da farlo sanguinare.
<< Ti ho cercata dappertutto, >> sbottò Christopher incrociando le braccia, i muscoli tesi sulla difensiva, mi domandai cosa stesse pensando, se stesse maledicendo la provvidenza divina o se stesse dando la colpa a me immaginando che fossi stata io ad avvicinare Cassandra e non il contrario.
<< E io ho incontrato la figlia di Audrey Beauchamp, >> si difese lei arcuando un sopracciglio. Poi, accorgendosi che io me ne stavo ancora ferma davanti a loro due, mi sorrise. << Dahlia, presumo tu abbia riconosciuto mio fratello Christopher. >>
Per non sembrare una scema fuori dal mondo, annuii con un meccanico cenno del capo. Dovevo filarmela in fretta, prima di scatenare la terza guerra mondiale. << Certamente, chi non lo conosce? >> dissi con tono nervoso, i miei denti continuavano a torturare il labbro inferiore. << Ora, se mi scusate, devo proprio andare. È stato un piacere conoscervi. >> Mi allontanai da loro senza aspettare un saluto, svoltai a destra e scomparii oltre gli alti scaffali raggiungendo a passo svelto il reparto delle scarpe da ginnastica dove Nike, Converse e Adidas facevano bella mostra di loro. Mi sedetti su uno dei divanetti quadrati con la scatola di scarpe in grembo, lo sguardo perso nel vuoto.
Per quanto volessi fuggire, non potevo certo farlo con delle scarpe fra le mani. Dovevo provarmele, dovevo resistere all'impulso di scappare, o alla fine avrei finito per aver timore di mettere piede fuori di casa, timore di poterlo incontrare nuovamente. Perciò tolsi sneakers e calzini e alzai il coperchio della scatola, alla vista di quelle scarpe il mio cuore fece una capriola. Erano bellissime, costosissime, e io a stento sapevo camminarci sopra. Però, per Bea, lo avrei fatto.
Con deferenza le tolsi dalla scatola e le posai sulla bianca moquette, soffice sotto i miei piedi che non persi tempo ad infilare nelle scarpe, il tessuto mi fasciava delicatamente, senza stringere troppo, senza essere eccessivamente largo. Mi tremarono le gambe al solo pensiero di alzarmi. Intrecciai le dita, i gomiti appoggiati sulle cosce, il mento sfiorava le mani.
<< Sono perfette per te. >>
No. Non di nuovo. Non ancora. Alzai lentamente lo sguardo sulla figura di Christopher, aveva lo sguardo più sereno, la mascella non era contratta. Sentii l'aria liberarsi dai miei polmoni, non mi ero nemmeno resa conto di aver trattenuto il respiro. Avrei voluto scappare da lui, scappare da ciò che causava in me, eppure non ci riuscivo. Abbassai nuovamente lo sguardo sul mio prossimo acquisto, che cosa voleva ancora da me?
Il mio campo visivo venne oscurato dalla sua presenza, i suoi occhi cercarono i miei nel disperato tentativo di leggermi dentro. Quando si accorse di non riuscire nel suo intento, sbuffò spazientito e mi afferrò le mani saldamente intrecciate fra loro. << Lia, non avrei mai pensato che avresti potuto... certo che avresti potuto. Sono stato uno stupido. >> Farneticava, il che mi fece quasi ridere. Quasi. Prese un profondo respiro. << Scusa mia sorella, a volte sa essere esuberante, >> sussurrò accarezzandomi le mani con i pollici. Scossi il capo, Cassandra non era stata affatto invadente, anzi, si era astenuta dal farmi il terzo grado su mia madre, Christopher doveva aver scambiato il mio sconcerto per disagio.
Improvvisamente si alzò e mi trascinò con sé, le mie gambe tremavano come non mai, con addosso quelle scarpe gli arrivavo con la fronte all'altezza delle labbra. Tenni lo sguardo basso, la moquette sembrava quasi volersi richiudere sulle scarpe come se fosse formata da artigli bianchi. Una mano di Christopher scivolò via dalla mia mentre l'altra faceva stendere il mio braccio verso l'alto. Come un automa, girai lentamente su me stessa, le nostre dita cambiavano posizione ad ogni minimo passo che facevo, intrecciandosi fra loro. Quando, infine, mi trovai nuovamente voltata verso di lui, ebbi il coraggio di alzare lo sguardo, nei suoi occhi vedevo un sentimento indefinibile, qualcosa di intenso, chiaro come il sole, ma al quale non riuscivo a dare un nome. Era forse malcelato stupore? Desiderio? No, nulla di tutto questo. E allora qual era la causa dei suoi occhi in tempesta?
<< Hai già un accompagnatore? >>
La sua voce, per quanto pacata potesse essere, rovinò drasticamente l'atmosfera. Come avevo immaginato, sua sorella gli aveva detto che stavo cercando delle scarpe per l'Homecoming, ma non volevo dargliela vinta.
<< Sì, >> mentii alzando il mento e sfidandolo. Nonostante fossi una pessima bugiarda, non era del tutto falso, Heath sarebbe comunque venuto con me, volente o nolente. Bea l'avrebbe agghindato come un damerino e lui avrebbe tentato di farmi ballare fallendo in questo suo intento. Ovviamente.
Un muscolo guizzò sotto la pelle di Christopher e la sua mascella si contrasse. Potevo leggere nei suoi occhi la furia cieca di qualcuno che si vedeva sottratto qualcosa che per lungo tempo aveva considerato suo anche se non lo era mai stato. Dopo un lungo istante, quando vide che non osavo piegarmi di fronte a lui e alla sua prepotenza, sospirò. << Divertiti, Lia, >> disse, ma sembrava volermi maledire, minacciare che se avessi osato divertirmi, qualcosa di spiacevole sarebbe accaduto. Repressi quell'insulsa sensazione di terrore e lasciai che sciogliesse la presa sulla mia mano e si allontanasse.
Capii, in quell'istante, che mi stava dando l'occasione per andarmene prima di incontrare nuovamente sua sorella, prima di combinare una catastrofe. Senza indugiare oltre, scambiai rapidamente i tacchi con le sneakers e li riposi in ordine nella scatola.
Mentre mi dirigevo alle casse, iniziai a pensare alla carta di credito che avevo nel portafoglio, quella legata ad un conto corrente di modeste dimensioni, il mio. Mia madre, invece, con il successo che aveva, nel suo portafoglio ospitava una lucente American Express nero carbone. Quando avevo capito quanto costasse la quota annuale per mantenere il servizio, mi era quasi venuto un malore. Ma, da brava ragazza, non mi ero messa in mezzo, avevo optato per tenermi fuori dalle sue decisioni - ci provavo nella maggior parte dei casi, quando però mi sembrava potesse fare una cavolata, glielo dicevo e trovavamo assieme una soluzione.
<< Sono settecentocinquantanove dollari. >>
La voce della ragazza davanti a me mi riportò alla realtà. Settecentocinquantanove dollari?! Ma in che negozio mi aveva mandata Bea? Mi sentii tremare le gambe e una folata gelida mi attraversò con prepotenza. Maledizione, avrei dovuto controllare il prezzo! Forse ero ancora in tempo per rettificare e dire che avevo sbagliato scatola! Ma quanto costava il paio di scarpe più economico qua dentro? Deglutii e sbirciai il coperchio nero sul quale la bianca scritta Oscar de la Renta spiccava come un'insegna al neon. In tutto il tempo che l'avevo avuta in mano non mi ero nemmeno degnata di guardare meglio, di leggere. No, io non leggevo abbastanza, era vero.
<< Signorina? >>
Alzai lo sguardo sulla bionda davanti a me, i suoi occhi azzurro chiaro non mi abbandonavano. Balbettando delle scuse andai alla ricerca della mia carta di credito, quella che raramente usavo, se non per prelevare una minima somma di denaro che mi serviva per fare la spesa o per altri acquisti di scarsa entità. Dolore, fu il dolore a farmi trasalire quando la ragazza la strisciò. Settecentocinquantanove dollari. Bea mi avrebbe sentita. Oh, eccome se mi avrebbe sentita, mi avrebbe sentita urlare dal parcheggio di questo stramaledetto negozio non appena ne fossi uscita.
Con un sorriso cordiale, la ragazza mi tese la busta con dentro il mio furto da settecentocinquantanove dollari e la carta di credito. << Grazie e arrivederci! >> cinguettò mostrando addirittura i denti. Arrivederci questo paio di... Lia, calmati.
Uscii a passo svelto dal negozio infilando la carta di credito nella borsa, nella speranza di perderla al suo interno e con esso lo scontrino che mi ricordava l'ammontare di quella tortura per i piedi. Rabbrividii e mi diressi verso la mia adorata macchina, un tocco di colore fra il grigio metallizzato e il bianco delle altre. Insomma, un po' di fantasia no?
Gettai senza tanta grazia le due borse sul sedile del passeggero e misi in moto, uscendo dal parcheggio affollato. Lentamente, riuscii a mettermi in strada e a proseguire ad una velocità decente. La parola che iniziava con "s" turbinava nella mia mente al che alzai la radio nel tentativo di scacciare quel pensiero. Brividi corsero lungo la mia schiena mentre della musica moderna rimbombava nell'abitacolo.
Avrei dovuto telefonare a Bea, ma se l'avessi fatto avrei causato in incidente nel centro di Los Angeles, ed era meglio evitare di finire all'ospedale accanto a lei, o l'avrei strangolata con le mie stesse mani. Sbuffai stizzita, evidentemente conosceva i prezzi del negozio e mi ci aveva mandata apposta. Sapeva che, nonostante non navigassi nell'oro, la mia vita poteva essere piuttosto alta di livello, io però avevo preferito tenere un basso profilo, anzi, bassissimo, e dopo tutte le mogli di suo padre, anche lei aveva optato per la semplicità, anche se ogni tanto si lasciava andare alle spese folli.
Non avevo parlato a nessuno del mio reddito - nessuno, ovviamente, aveva il diritto di saperlo - né tantomeno mai avevo intenzione di farlo ora, quando ero ad un passo dall'uscire da quella stramaledetta scuola dove nessuno si faceva i fatti propri. L'unico lato positivo della faccenda - l'unico, perché altri non ve n'erano - stava nel fatto che avrei fatto una bella figura all'Homecoming, quello sì. A meno che Lydia non decidesse di farmi legare per potersi prendere le mie scarpe. Ne sarebbe stata capace, in effetti.
Mentre svoltavo a destra iniziai a tamburellare con le dita sul volante mentre la chitarra elettrica lasciava il posto a quella acustica, gli altoparlanti diffusero nell'abitacolo l'intro di Wish you were here. Cercai di non pensare all'incontro indesiderato con Cassandra Carter, ma fu inevitabile, sapevo che una volta a casa avrei fatto le mie ricerche da brava studentessa quale ero. Dall'interesse che aveva nei confronti di mia madre sembrava stesse studiando medicina, ma per quanto potessi saperne, poteva anche star vivendo di rendita, a lei i soldi non mancavano di certo. Rabbrividii, e la parola settecentocinquantanove mi apparve davanti agli occhi contornata da una miriade di neon colorati. Dannata Bea.
Probabilmente l'avrei strangolata, anzi, sicuramente lo avrei fatto! Quella era la mia punizione per aver litigato con lei, e l'aveva scelta benissimo. Dio santo, come si potevano spendere settecentocinquantanove dollari per un paio di scarpe? Ma non era solo Bea quella da biasimare, io ero stata troppo presa dai miei pensieri per guardare quanto costassero, troppo presa dal panico per anche solo capire che quello non era un negozio dai prezzi bassi, avrei dovuto arrivarci quando avevo visto la sorella di Christopher lì, come se fosse normale trovare una bilionaria - perché doveva esserlo anche lei al pari di suo fratello - in un normalissimonegozio di scarpe. Sì, certo, e io ero la Regina Elisabetta.
Sbuffai sonoramente parcheggiando davanti casa, almeno la gente qui aveva la decenza di lasciarmi il posto vuoto senza che dovessi incidere sull'asfalto, a grandi lettere, di chi fosse proprietà. Spensi il motore e scesi trascinandomi dietro le due borse, sballottandone il contenuto mentre cercavo, con una mano sola, di impugnare la chiave di casa dal mazzo prevalentemente costituito da portachiavi vari. Ce n'erano di tutti i tipi, e ogni volta che me ne regalavano o ne compravo uno, lo aggiungevo senza preoccuparmi di dover cercare le vere chiavi fra i tanti ciondoli. E poi, così, le avrei trovate più facilmente nella borsa, no?
Salii i gradini di legno della veranda ed infilai la chiave nella toppa, sentivo il libro di matematica chiamarmi insistentemente da dentro la tracolla, e purtroppo avrei dovuto ascoltarlo, non potevo permettermi di non studiare, l'SAT l'avrei fatto a novembre, e dovevo prepararmi se volevo avere un buon punteggio. Oltretutto, era la matematica il mio vero problema. Avevo la costante paura di riuscire a capire le cose e di sbagliarle durante i test.
Mi chiusi la porta alle spalle e alzai le braccia sopra la testa, stiracchiandomi. Avrei voluto solo rintanarmi sotto le coperte, dormire come un ghiro e invece non potevo farlo, dovevo studiare. E presto la mia vita si sarebbe complicata ulteriormente in materia di studio se fossi entrata all'UCLA. Decisamente, ero poco furba, ma non m'importava: da anni ero decisa ad iscrivermi all'università, non avrei lasciato che la pigrizia mi abbattesse.
Andai in cucina dove appoggiai la tracolla su uno sgabello e aprii il frigo, cercando qualcosa da mettere sotto i denti. Non avendo mangiato molto a pranzo - solo delle alette di pollo con salsa messicana e patatine fritte piccanti - avevo lo stomaco che implorava di essere riempito. Inoltre, dopo aver incontrato Christopher al negozio e aver speso un patrimonio, dovevo recuperare le energie mentali, e quale modo migliore di farlo se non mangiando?
In frigo non c'era nulla di invitante, perciò mi accontentai di qualche fetta di pane cosparsa di burro d'arachidi. Con una fetta imburrata in mano salii le scale alla ricerca delle pantofole che trovai sotto il letto. Mi tolsi scarpe e calzini e infilai ai piedi le comode ciabatte imbottite, invernali a dire il vero, ma non me ne importava nulla.
Masticai lentamente l'ultimo boccone mentre salivo le scale fino al secondo piano, quasi incapace di controllare il mio corpo. Sentivo la necessità di verificare in che stato fosse la camera degli ospiti. Da quella mattina provavo la voglia sfrenata di entrarci, magari di trovarlo ancora addormentato e potergli domandare in un sussurro perché avesse scelto me, perché ancora non mi avesse lasciata in pace.
Indugiai davanti alla porta della camera, una mano ferma a mezz'aria, cedendo al mio masochismo. Aprii appena uno spiraglio, ma il suo profumo mi invase la mente come se avessi il volto affondato nel suo petto. Arrossii e, facendomi coraggio, spalancai completamente la porta ed entrai nella stanza.
Tutto era in ordine, dal letto ai soprammobili della specchiera, al cuore di vernice che avevo disegnato in un angolo dell'anta a specchio dell'armadio quando io e mia madre avevamo ridipinto le pareti. Non mi presi il disturbo di guardare negli armadi alti fino al soffitto che ricoprivano la parete di fondo, a meno che non fosse a corto di coperte e lenzuola a casa sua, lì dentro non c'era nulla da rubare.
L'intera stanza era satura del suo profumo, o forse era una mia impressione, forse volevo sentire quell'aroma di menta che sembrava seguirlo dappertutto. Feci per uscire così da cancellare quella sensazione indefinita che mi aveva stretto in un nodo la bocca dello stomaco quando il mio sguardo cadde su un pezzo di carta lasciato sul cuscino.
Cautamente, mi avvicinai al letto e mi ci sedetti sopra, le gambe tremavano e minacciavano di abbandonarmi. Allungai lentamente una mano verso il bigliettino, sulla carta spiccava il mio nome scritto in rosso con calligrafia elegante. Quando lo spostai, notai sotto di esso una scatolina in pelle nera, priva di logo, e il mio cuore iniziò a battere più velocemente, non sapevo se per l'agitazione o per la rabbia.
Nel tentativo di non farlo a pezzi, spiegai il biglietto e lessi le poche righe che conteneva:
Grazie per avermi fatto restare questa notte, senza di te
avrei finito per prendermi un bel malanno.
Non voglio che tu abbia paura, non sapevo che sarei venuto da te,
oramai giro con questa in tasca dal giorno in cui mi è stata data dall'orafo.
Ti prego, accettala, accetta solo questo regalo, voglio che l'abbia tu,
nessuno ha mai manifestato tanto affetto per un tale, semplice gioiello,
ho visto che la cercavi inconsapevolmente, senza un motivo.
Grazie ancora,
Christopher
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