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Capitolo XIII

La canzone sussurrata nel folto delle tenebre, sembrava la stessa ninna nanna che intonava la signora Ash nel tentativo di farlo addormentare, addolcendogli la veglia.
Aveva un ritmo delicato, monotono.
Jonathan, incamminandosi tra intricati e oscuri corridoi, si ritrovò presto a correre pur di raggiungerne la fonte, quasi certo di trovare un volto familiare, sorridente ad attenderlo al traguardo.

Ma negli incubi, si sa...
Niente di buono o bello è pronto ad aspettarti.

Fu in quel preciso momento, infatti, che il sordo malessere covato in intimità sin dal suo risveglio mattutino, tornò a presentarsi dirompente, funesto.
Ed egli rallentò, preda di una fitta cocente alla testa.
Il dolore lo vinse, obbligandolo a crollare ginocchioni sul distrutto e accidentato pavimento del maniero, come un bambino dopo aver subito qualche tipo di inciampo.

Era sempre riuscito a controllare l'Arcano.
SEMPRE.
Talbot era stato irremovibile in questo, prima di farlo scendere definitivamente in campo.
Perciò...
Cosa gli stava succedendo, ora?
Questa, la domanda che si ripeteva con insistenza, mentre il suo passato si imponeva con tirannia sul presente, trascinandolo via da RockLathor Castle.
Impossibile stabilire con certezza se uno stato di oppressione altrettanto angosciante non lo stesse ricevendo al di là del varco temporale.

Bisognava soccombere a quel Potere.
Pur tuttavia...
Perchè esso desisteva dall'obbedirgli, proprio quando erano così vicini alla meta?
Buio.

"Jo... Non coricarti sull'erba umida. Ti raffredderai di nuovo, tesoro mio... Te lo ricordo quotidianamente"
"Sì, madre... Perdonatemi"
Avrebbe potuto riconoscere la sua voce tra mille.
Così le rispose, pur mantenendo ancora gli occhi serrati, nel timore recondito di scoprire che nella realtà non fosse affatto lei.
Ma il tocco alla spalla che lo raggiunse di lì a poco era davvero inconfondibile, ugualmente ai passi leggeri sul manto verde, in seguito ai quali lei si accomodò, prendendo posto a sedere di fianco a lui, sfoggiando un'innata compostezza.
In seguito, sospirò, alquanto affaticata.

Soltanto allora, Jonathan si ridestò.
Un'ombrellino bianco aperto sopra il suo capo e fronde di un secolare albero a ripararlo.
L'ultima volta che aveva visto quell'enorme faggio, piantato da uno dei nonni di suo padre, veniva divorato da alte fiamme, riducendosi in cenere.

"Come ti senti? Permettimi di controllarti la febbre"
La signora Ash si sporse verso di lui allora, scoccandogli un rapido bacio sulla fronte.
Un tempo, dinanzi a quel gesto, il ragazzo si sarebbe ritirato, arricciando il naso in una smorfia di stizza, mista a fastidio.
Non sarebbe mai diventato il cocco di mamma.
Adesso, invece, rimase immobile e in silenzio, senza mostrare alcuna resistenza.

"Sto... Bene...", articolò, mentre le sue iridi mettevano a fuoco gli ulteriori dettagli circostanti.
Sua madre, ad esempio, indossava un abito di lino leggero e gonfio, alla stregua del suo stesso ventre, peraltro.
Come aveva potuto dimenticare che poco prima della tragedia fosse incinta?

"Sarà un maschio, secondo te?", le chiese.
Lei gli accarezzò amorevolmente una guancia.
"L'importante è che nasca sano. Il resto... Non conta, Jo. Sei d'accordo?", tergiversò, arruffandogli i biondi capelli.
"Suonami qualcosa", lo invitò poi, porgendogli il violino, abbandonato tra le sterpaglie.
Egli lo strinse tra le mani, perdendosi a studiarne le corde non più tese, o i piccoli graffi sulla superficie opaca che gli donavano un senso di vissuto.
"Non mi va. Mi dispiace", biascicò.

Seguì un lungo periodo di quiete, durante il quale il crepitare della rada pioggia si sparse tra il fogliame, insieme a rumori di tuoni in lontananza, rimbombanti alla stregua di avvertimenti.
"Papà ti ha vietato di ringraziarla o portarle omaggi, non è così?"

C'era stata un'accesa discussione, in effetti.
Jonathan lo rammentava perfettamente.
Il Signor Ash, nonostante l'aiuto ricevuto da parte di Meg, mentre Jonathan era ammalato, non riponeva alcuna fiducia in lei.
Era strana.
E lo strano... Spaventa.

"Non... Importa...", minimizzò lui.
"A mio parere dovresti, invece...", continuò lei, scrutando l'aperto orizzonte.
"Al villaggio raccontano che..."
"Da quando reputi interessanti le grette, ignoranti malelingue, Jonathan caro? Nessuno nasce cattivo. Sono gli eventi della nostra esistenza, al contrario, a svilirci lo spirito. Ma nel corso delle avversità... Il calore, il conforto dato da un'amicizia sincera ti assicuro che rappresenta il dono più prezioso di tutti. E Meg sono sicura che lo apprezzerà. Perciò... Vai!"

Jonathan notò quella specie di sogno iniziare a sgretolarsi.
I cirri in cielo svanivano nel nulla e ogni contorno di ciò che lo circondava si faceva immateriale, perdendo fisica concretezza.
Stava tornando all'interno del castello.
La luce della sua adolescenza, avrebbe lasciato presto il posto all'oscurità adulta.
"Ti voglio bene...", sussurrò di fretta, scolpendosi a mente quegli ultimi attimi di lei che l'Arcano, per qualche vago motivo, aveva deciso di concedergli.
Lei abbozzò un'espressione commossa.
"Saluta Meg anche per me, se puoi", lo congedò, infine, risollevandosi da terra in un sommesso frusciare di vestiti lindi.
"Buona fortuna"
Nero.

Una statua ringhiante di Gargoyle si proiettava su di lui, dall'immenso soffitto, con una lingua biforcuta fuori dagli aguzzi canini.
Il ragazzo giaceva in una pozza di sudore.
Si rimise in piedi, pur barcollando, sfidando il sibilo muto della bestia con sguardo truce, e asciugatosi la fronte provò a concentrarsi nuovamente sull'impresa.
La calma che si era distesa intorno a lui, aiutava in questo.
Nessuno cantava più.
E serrando le palpebre, col respiro appena trattenuto, il fanciullo riuscì a localizzare il suo obiettivo, infatti.

Le sue gambe, dunque, si mossero in direzione di una porta a vetri scuri, intarsiata a fitti ghirigori.
Jonathan, accucciato sul pavimento e con l'arma già sguainata dal fodero in cuoio appeso alla cinta, vi si intrufolò dentro, spingendo appena il pesante battente.
Una stanza signorile, ma dalle sembianze dimesse, si spalancò al suo cospetto: il letto a baldacchino era ricoperto da velluto sfilacciato e dimesso, con ampie macchie di muffa e sporco a scolorirne le trame; il materasso impolverato appariva sfondato da buchi sbuffanti un amalgama amorfo di piume e insetti; le mattonelle risultavano spezzate e si sbriciolavano in tanti cocci, sotto la suola delle proprie scarpe, destabilizzando il suo incedere; la toeletta da trucco di una giovane fanciulla giaceva, infine, divelta dalla parete, come vittima di una forza sovrumana, e con lo specchio arabescato rotto in mille frantumi.

Della precedente proprietaria, egli ipotizzò, rimaneva esclusivamente un piccolo ritratto affisso al muro: un profondo taglio squartava la tela all'altezza del viso, non altrimenti riconoscibile, però.
L'efferatezza impressa nel gesto dimostrava una forma di repressa sofferenza, corrotta probabilmente da velenosa invidia, magari soffocata da strati di oculata noncuranza o peggio...
Perfidia.

Immagini di un'epoca lontana governano la tua mente, in quegli istanti, spegnendo la ragione e accecandoti la vista.
Un secondo di pura, inspiegabile follia.
Il trauma riemerge quando meno te lo aspetti e diventa pieno padrone di ogni tua pazza azione, permettendoti di sfogare qualsivoglia frustrazione.
Eppure, al ripristino della coscienza, non c'è sollievo a distenderti i nervi: al contrario, rimangono vergogna, colpa, rimorso.

Il proseguio è tutto mero risultato del caso: qualcuno ti solleva dal baratro in cui annegavi, stendendoti una mano.
Ti fidi nel Bene o... Nel Male.
Cosa altro puoi fare?
E i frammenti della tua persona vengono ricomposti da quel salvatore, come fossero pezzi dispersi di un puzzle: ciò nonostante, alcuni di essi non riescono proprio a combaciare, rifiutandosi di collaborare.
Il disegno è sghembo in certi punti, ma a distanza, per fortuna, nessuno riesce a notarlo.
Forse è per questo che tendi ad avvicinarti sempre meno alle persone: meglio non svelare ciò che nascondi, meglio fingere che tutto vada alla grande.

Un brusco movimento alle sue spalle attirò in quel frangente la sua attenzione.
Con le percezioni all'erta, Jonathan si girò immediatamente.
Una ragnatela gigantesca dondolava all'angolo opposto della stanza.
I suoi fili erano densi, compatti, ma al suo interno fremeva qualcosa.
Il ragazzo alzò subito la propria spada e la conficcò nel mezzo del bozzolo, fendendone l'intreccio.

Nel suo involucro, la sconosciuta dormiva serena, abbandonata con languore e appesa tra due spesse fibre, simile ad una contorsionista aerea.
Una gamba, sollevata da una corda, lasciava la sua gonna scivolare appena al di sopra del ginocchio, scoprendole la coscia.
I piedi nudi, dalla caviglia sottile, a sfiorarne l'intrico in seta.
Le braccia e i capelli corvini a ciondolare liberi da quella sorta di amaca, cullata debolmente da un'invisibile corrente.
Alcuni ciuffi le ricadevano sul viso, attardandosi sulle sue umide labbra schiuse, che quasi imploravano di essere lambite dalla sua morbida bocca.

Jonathan deglutì, umettandosi la gola arsa dal desiderio.
Quella fascinazione celava una crudeltà diabolica.
Il metallo stretto in pugno partì in un attimo, fiondandosi sul tenero collo di lei.

La brezza che si levò a quel brusco scatto, pur tuttavia, giocò sadicamente a suo svantaggio, scompigliando la chioma dalle tinte bluastre della ragazza.
Una coppia di iridi di colore eterogeneo e molto assonnate, quindi, si fissarono con perversione su di lui.
Dietro l'odio di cui si imbibirono, Jonathan lesse in loro speranze sopite al gusto del miele, gioie, antiche tenerezze.
E si bloccò, gettando al vento l'occasione di sferrare il colpo mortale.
Ad investirlo subentrò confusione, mentre un palmo artigliato gli afferrava il polso e lo spingeva via, fracassando il suo intero corpo contro un tavolo centrale divorato sin nel midollo dalle tarme.
Al brusco impatto, tutto crollò per terra in un sordo boato.

Un braccio dinoccolato sbucò per primo dal bozzolo, fungendo da piedistallo su cui caricare il peso, accompagnto a breve da ulteriori membra attorcigliate.
"Potrei riconoscere l'acre puzzo di voi Arcanisti ad un miglio di distanza, ormai...", proferì quella, avanzando con ferocia verso di lui.
Il ragazzo non rifletteva.
Drake gli urlava nelle orecchie di reagire, ma nulla.
Il suo sguardo spalancato scrutava esclusivamente quello di lei, cercando di discernere da esso un qualche straccio di risposta alle miriadi di questioni che gli si accavallavano disordinate nel cervello.

La donna lo agguantò per il giugulo e lo alzò dal suolo.
Egli non si sforzò di lottare.
La sua mimica riflessa nelle pupille di lei, era tranquilla.
Nessun cenno di orrore a mutargli i lineamenti, nemmeno allorquando la strega cominciò a trasformarsi.
La pelle dei suoi arti si scurì, ricoprendosi di spesse setole, nel frattempo che i suoi denti lasciavano il posto a zanne.

"Devi essere davvero sciocco", commentò lei, ugualmente perplessa dal suo comportamento alquanto arrendevole.

"JONATHAN!", si sentì urlare dalla galleria. Lilith e Maurice erano giunti in suo soccorso.
Delle spesse ragnatele ad ancorargli gli scarponi, impedirono il loro ennesimo incedere, oltre l'uscio.

"Benvenuti anche a voi. Siete arrivati in tempo per la cena!", articolò la fattucchiera con tono cantilenante.
"Sono sazio, ma vi ringrazio lo stesso per il vostro cortese invito, eh? Sarà per la prossima volta, milady...", rispose Maurice, schiacciandole, spaccone, un occhio di reciproca intesa, poco prima che un'onda d'urto lo scaraventasse all'esterno di una finestra.

Lilly, al contrario, non perse minuti preziosi in idioti convenevoli.
Aveva già stabilito un contatto con l'intelletto della loro aguzzina, in effetti, e con le orbite rivoltate, passò all'azione.
La mano di quell'orrida creatura venne storta e costretta a mollare la presa, intorno Jonathan.
La spalla le venne disarticolata e l'avambraccio spezzato.
Rumore di ossa scricchiolantesi si dipanò tra gli astanti.
Brandelli di carne scoperta.
La megera gridò, disperata.
E balzò su di lei, furiosa.
Uno schiaffo sferzante stordì Lilith, facendola svenire alla collisione con lo spigolo di una sedia.

La sconosciuta, ansimante di rabbia e afflizione, scrutò la fanciulla esanime con immane avversione, mentre cercava di ricomporre il proprio arto superiore, leccandosi il sangue che colava copioso dalle ferite come un animale, quasi a medicarle.
Infine, si rivolse di nuovo al biondo.
"Non siete altro che lurida feccia...", sputò, raccogliendo un pugnale dal nugolo di detriti che la barbara lotta aveva generato.
"Morirete... Tutti..."

"Dopo che sarete crepati all'Inferno... Lo prometto", sentenziò lui.
Lei rise.
"È un errore giudicarci tanto differenti, giovane Arcanista. Non capisci? Noi siamo frutto dello schifo, del marcio di cui è impregnato l'animo umano... Vostra diretta discendenza. Il Male che voi celate, dietro finte maschere dai tratti angelici, noi lo accettiamo facendone deliberato sfoggio. Semplice. È il grado successivo alla normale evoluzione degli eventi... Accogliere la nostra vera natura... Il caos", sghignazzò lei, con timbro bitonale.

"In quale mostro ti hanno mutato...", balbettò Jonathan, squadrandola con intensità.
Rumori dalle altre sezioni del castello, grida di panico e ruggiti in sottofondo.
L'allarme dell'avvenuta incursione si era disseminato.
"...Piccola Meg?"
L'espressione demoniaca di lei impallidì a quelle parole.
La vista offuscata acquì sfumature più tenui, annacquandosi di lacrime al di là delle sue sembianze ancora bestiali.

Uno stridore acuto si librò nell'etere, ghiacciando tutti i fluidi in circolazione di John.
Il Demone Flegias emerse da una nube di fumo, a quel lugubre, straziante richiamo, abbracciando la sua protetta tra giganti ali di pipistrello.
La fanciulla si accasciò sul suo petto, avvinghiandosi a lui, sfinita.
"Shh... Maddelyne... Shh...", ribadiva il Diavolo, sfiorandole le gote arrossate.

Era pur sempre una forma di amore quella che Jonathan osservò manifestarsi nei comportamenti di lui che la sottraeva al pericolo: tossico, malato, inquinato...

Eppure c'era, e forte.
Alla stregua della violenza con la quale, di botto, lo aggredì.

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