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Capitolo 1. Lev


Agosto 2012

Una pallida luce rossastra dipingeva il cielo di Monaco, preannunciando l'alba. Erano le sei di una mattina di fine Agosto, fredda a tal punto da costringermi ad infilare una felpa. In punta di piedi, attento a non svegliare mia madre, uscii di casa e raggiunsi in moto Porto d'Ercole. Come al solito le strade della città a quell'ora, e soprattutto nel fine settimana, erano deserte. Mi lasciai quindi la libertà di zizzagare un po', tagliando una rotonda e prendendo pure un senso unico all'incontrario per fare prima.

Parcheggiai al solito posto, lasciando il casco sotto la sella. Mi sistemai i capelli con una passata veloce delle dita, guardandomi di sfuggita nello specchietto. Stiracchiandomi, percorsi una lunga passerella alla destra della quale c'erano ormeggiate delle barche. Barche di ogni tipo, di ogni grandezza e colore. Tra di esse vidi quella di Charles. Il proprietario era già a bordo e stava preparando la vela, non accorgendosi del fatto che fossi appena arrivato. Non lo disturbai, ma anzi ne approfittai, rimanendo a guardarlo in silenzio. Era girato di spalle, con le braccia tese in alto, intento a slegare un nodo. I suoi capelli castani, che al sole tendevano al rossiccio, venivano mossi dalla brezza mattutina. Indossava anche lui una felpa con il cappuccio, un paio di pantaloni lunghi fino al ginocchio e le Adidas bianche.

Io e Charles Harrison eravamo amici praticamente da sempre. Migliori amici. E come tali, fin da bambini avevamo sempre fatto tutto insieme, programmando il nostro futuro nei minimi dettagli. Ci aspettava l'ultimo anno di liceo, poi l'università. Anche se avevamo interessi differenti, l'idea era di andare a studiare nella stessa città e dividere un appartamento in affitto. Lui avrebbe studiato Economia ed io sarei andato al Conservatorio, a perfezionare le mie abilità con il piano, che suonavo da quando ero bambino. In quel momento, sembrava tutto perfettamente realizzabile. Niente avrebbe mai potuto distruggere quello che avevamo, che per me era più di una semplice amicizia. Charles era indispensabile, non mi sarei mai sognato di poter vivere senza di lui.

«Hai intenzione di rimanere lì a guardarmi, o mi vieni a dare una mano?» mi chiese improvvisamente lui, girandosi e guardandomi mentre gli sorrisi imbarazzato, uscendo fuori dai miei pensieri. Lo raggiunsi, saltando sulla barca e affiancandolo. «Tienimi la vela mentre la fisso». Annuii, facendo esattamente quello che mi aveva chiesto. E mi ritrovai ancora a guardarlo, un po' di sottecchi, intravedendo la sua figura oltre il bordo della vela: viso ovale, pelle abbronzata, di una bella tonalità ambrata e ciglia lunghe, lunghissime, chilometriche. Quando alzò lo sguardo, i suoi occhi verdi si posarono su di me. Mi fece una smorfia ed io alzai un sopracciglio, indispettito.

«Okay, ho fatto. Possiamo partire».

Mentre Charles si mise alla guida della barca, accendendo il motore, io presi posto dall'altra parte, a prua. Dovevamo raggiungere alcune miglia di distanza dal porto per riuscire ad utilizzare la vela, perché a riva il vento era troppo debole.

Il mare aperto era uno specchio nel quale si riflettevano i colori dell'alba, virando dall'arancione al giallo, non appena il sole si fece strada nel cielo. Era una bella giornata, una delle ultime giornate calde prima dell'arrivo del freddo autunnale.

Da quando Charles aveva preso la patente nautica, dopo anni passati a fare vela, era diventata nostra abitudine, quando il tempo ce lo permetteva, uscire fuori in barca al mattino presto, ad aspettare l'alba. L'avevamo fatto per tutta l'estate, alcune volte preferendolo ad una bella dormita, dopo una nottata passata in giro da qualche parte a fare festa. Era stata un'estate incredibile, all'insegna del divertimento, ma al tempo stesso mi ero anche preso dei momenti per stare un po' da solo con me stesso, cercando di mettere ordine nella mia testa. Ero quasi certo di aver capito perché alcune volte uno strano senso di inadeguatezza mi travolgeva, facendomi sentire come se il mio corpo non fosse mio, ma che reagisse a quello che gli succedeva attorno, da solo. Incontrollato.

Volevo parlarne con Charles prima che con chiunque altro, ma avevo paura che non potesse capirmi, anche se l'aveva sempre fatto fino a quel momento, facendo apparire i miei problemi piccoli se eravamo in due ad affrontarli. Mi serviva il momento giusto, mi servivano le parole giuste, mi serviva il coraggio necessario. Continuai a pensare se magari potesse essere quello il momento, mentre eravamo al largo. Charles si accorse che ero distratto e mi lanciò occhiate curiose per tutto il tempo, come ad incitarmi a parlare.

Quando raggiungemmo il largo, ci sdraiammo uno vicino all'altro e ci godemmo il silenzio del mare, il leggero ondeggiare della barca e il calore del sole. Solitamente, in momenti come quelli riuscivo anche ad appisolarmi, ma non quel giorno. Intorpidito e svogliato, aprii lentamente gli occhi, tendendo il braccio e alzando una mano davanti al viso, per cercare di pararmi dai raggi del sole, senza però riuscirci. La luce mi scivolò tra le dita, costringendomi a cambiare posizione; mi misi a sedere, sporgendomi leggermente su Charles e facendo così aprire gli occhi anche a lui.

«Avanti, dimmi che ti prende». Quello era decisamente il momento giusto, ma quando aprii bocca, le parole che mi uscirono furono ben diverse da quelle che avrei voluto pronunciare.

«Merda, devo ancora finire i compiti di matematica e scienze», dissi, grattandomi la base del collo. Charles aggrottò la fronte, scoppiando a ridere mentre mi afferrò il polso e mi tirò verso di sé. Mi passò una mano tra i capelli, scompigliandomeli giocosamente mentre io continuai a lamentarmi. Quando finalmente smise, prese ad accarezzarmi lentamente, giocherellando con alcuni dei miei ciuffi ribelli. Non era strana quella vicinanza tra di noi e quindi abbassai d'istinto le palpebre, appoggiando l'orecchio destro contro il suo cuore, che batteva regolare, scandendo il passare dei secondi.

«Ti aiuto io a finirli», disse. «Mancano due settimane all'inizio della scuola, cerca di calmarti! Abbiamo ancora un sacco di tempo», mi rassicurò ed io annuii con un mugolio. «Oh, ho un'idea pazzesca!» aggiunse, tirandosi a sedere e facendo così alzare anche me. Lo guardai controluce, aggrottando leggermente la fronte, in attesa. «Possiamo andare alla casa dei miei nonni a Nizza. Niente internet, niente TV, niente distrazioni! Io devo finire di leggere i libri di francese e filosofia, tu mi aiuti con le analisi del testo, io con gli studi di funzione e le redox».

«Sembra...terribile», sussurrai, sospirando. Charles si incurvò nelle spalle, con fare ovvio, perché quando mai i compiti estivi non sono una cosa terribile.

«Tu li hai letti tutti i libri assegnati?» mi chiese poi.

«La maggior parte li avevo già letti. Ho dovuto recuperare solo alcuni di Flaubert». Charles sospirò, passandosi una mano tra i capelli e poi sul viso, strofinandosi gli occhi.

«Non riesco proprio a concentrarmi», mi confessò. «Mi metto a leggere e finisce che mi addormento, ogni volta! Ma come fai tu a leggere tanto?»

«A me piace leggere», gli ricordai. «E poi...metterti a leggere il giorno dopo aver fatto serata non è proprio il massimo», azzardai, ridendo.

«Oh...» fece con fare ovvio. «Abbiamo fatto serata molto spesso quest'estate e...a proposito», aggiunse poi, tirando fuori il telefono dalla tasca dei pantaloni per riuscire a mostrarmi qualcosa. Mi sporsi in avanti, coprendo lo schermo con la mia ombra, così da riuscire a vedere. Mi ritrovai davanti una chat e controllai con chi fosse: Sandy. Lei e Charles avevano flirtato un sacco durante l'estate ed erano anche finiti a limonare qualche volta, ma non avevano mai concluso. Il fatto che continuassero a sentirsi mi faceva intuire che Charles non aveva mollato la presa, e ne ebbi la conferma.

«San mi ha detto che stasera la sua amica Luna farà una festa di fine estate a casa sua e mi ha fatto sapere che le piacerebbe concludere con me...l'estate», disse Charles, ammiccandomi. Mi lasciai sfuggire una risata nervosa, leggendo io stesso il loro scambio di battute, contornato da alcune emoji che lasciavano ben poco spazio all'immaginazione.

«Figo!» dissi semplicemente.

«Ha detto di portare anche te», fece sapere dandomi un pugnetto contro il braccio ed io annuii. Considerando che mancava poco al nostro rientro a scuola e mi aspettavano i compiti da finire, mi meritavo un'ultima colossale sbronza, quindi accettai.

Passammo l'ora successiva a prendere il sole. Invece di stenderci vicini, io presi posto dall'altra parte, facendo testa - coda. Ritornai ad immergermi nei miei pensieri, ma di questo Charles non si accorse, o se lo fece, non insistette ancora per sapere di cosa si trattava. Sapeva che prima o poi, quando mi sarei sentito pronto, mi sarei aperto. E sapeva anche tirarmi su di morale, gli bastava fare qualche battuta scema. Ridevamo sempre tanto quando eravamo insieme. Con nessuno era come con lui.

Verso le otto e mezza ritornammo al porto. Dopo aver ormeggiato la barca ci avvicinammo insieme al mio motorino, camminando uno affianco all'altro, con le mani in tasca e le spalle così vicine da toccarsi.

«Mi dai un passaggio al lavoro?» chiese Charles.

«Ho decisamente bisogno di un caffè», dissi.

«Certo Lev, ti offrirò un caffè!» Sorrisi, guardandolo con la coda dell'occhio ma concentrandomi poi sull'apertura del bauletto, così da riuscire a prendere i caschi. Mi infilai il mio, porgendo l'altro a Charles, che si diede un'occhiata veloce allo specchietto, mentre io montai in sella e accesi il motore. Un secondo dopo si appoggiò alle mie spalle e saltò su, reggendosi ai sostegni laterali.

Ci dirigemmo verso il bar dove Charles lavorava. Il proprietario era un amico di famiglia e quando Charles, all'inizio dell'estate aveva cercato un lavoretto, lui gli aveva offerto un posto come cameriere. Io invece avevo trovato un posto come commesso in una libreria in centro, gestita da una ex collega di università di mia madre, Nadine. Lei era una traduttrice e lavorava per una rinomata casa editrice monegasca. Da brava poliglotta mi aveva insegnato l'inglese, il russo e un po' di spagnolo, oltre al francese. Mi aveva anche trasmesso l'amore per i libri e credeva che nessuno meglio di me avrebbe potuto lavorare in una libreria. E in effetti mi piaceva parecchio lavorare lì! Mi piaceva l'odore dei libri nuovi, ma anche quello dei libri vecchi, densi di storie. Mi piaceva poter consigliare i clienti, convincerli che acquistare un determinato libro fosse la scelta giusta. Sicuramente il lavoro in libreria mi sarebbe mancato tantissimo quando sarebbe iniziata la scuola e non avrei più potuto andarci, per potermi concentrare sullo studio e l'esame di maturità.

Parcheggiai davanti al Monet, attirando l'attenzione di Eliott, il figlio del proprietario ed effettivamente colui che si occupava della gestione del bar. Aveva la stessa età del fratello maggiore di Charles, Lorenzo, ed erano molto legati, però era anche un nostro amico, nonostante i tanti anni di differenza. Io e Charles da piccoli gli rompevamo sempre le palle per farci portare a girare sui kart. Le macchine erano una sua grande passione; nel tempo libero gli piaceva anche sporcarsi le mani nel garage dei suoi genitori, mettendo a posto vecchi cimeli. Nel tempo, entrambi ci eravamo molto affezionati a lui e lo trovavamo sempre disponibile ad aiutarci e consigliarci.

Era un bel ragazzo, dai capelli castani sempre un po' in disordine, gli occhi chiari e le spalle larghe. Inutile dire che valanghe di ragazze gli corressero appresso, ma lui era un romanticone, innamorato perso fin dai tempi del liceo di Camille, con la quale sapevo che prima o poi si sarebbe sposato. Erano una bella coppia, solida e ben assortita. Mia madre diceva sempre che avrebbero avuto dei bambini bellissimi. "I più belli!" le facevo eco io.

«Doppi guai in vista», disse con un finto sospiro, recuperando una tazzina sporca da uno dei tavolini esterni, per poi entrare dentro. Io e Charles ci scambiammo uno sguardo, sorridendoci e seguendolo all'interno. Mentre il mio amico andò a cambiarsi, ritornando con addosso la divisa, che comprendeva una maglietta bianca e un grembiule blu scuro, io mi sedetti al solito tavolo e aspettai che arrivasse con il mio caffè americano. Me lo portò in una tazza grande e prima che potessi chiedere, mi buttò sotto al naso due bustine di zucchero di canna.

«Perché ti ostini a chiamare quella brodaglia "caffè"?» chiese, alzando gli occhi al cielo e incrociando le braccia al petto. Lo guardai fintamente offeso, aggiungendo lo zucchero e mescolando. Presi un lungo sorso, guardando Charles da sopra il bordo della tazza. Lui scosse la testa e andò via spazientito, quando vide la mia espressione soddisfatta.

«Ti voglio bene!» gli urlai.

«Devo seriamente smetterla di offrirti il caffè!» ribatté lui ed Eliott lo sentì, alzando lo sguardo dal suo cellulare e guardando prima Charles e poi me. Gli sorrisi, facendo un cenno con la testa a mo' di scuse, sperando che potesse bastare. Non so se fu quello o il fatto che il mio migliore amico continuò a dirgli che il caffè americano non era un vero caffè e quindi era inutile arrabbiarsi, però alla fine decise di lasciar perdere.

Finito il caffè rimasi lì, considerando che non avrei iniziato il turno in libreria prima dell'una. Andai a recuperare un libro dal bauletto del mio motorino e lessi per tutta la mattinata, scambiandomi di tanto in tanto qualche occhiata con Charles.

«Che leggi?» mi chiese, avvicinandosi improvvisamente e facendo finta di pulire il tavolo. Guardai la sua mano sullo straccio, poi guardai lui, sorridendogli. Gli mostrai la copertina e lui inclinò la testa. «I dolori del giovane Werther», sussurrò mentre io infilai dietro all'orecchio la matita che stavo usando per sottolineare. «Questo però non è sulla lista dei libri da leggere per le vacanze», notò subito dopo, facendomi ridere.

«No, tranquillo, non è sulla lista», lo rassicurai. «Però è un bel libro, te lo consiglio».

«Sembra deprimente!» esclamò Charles, smettendo di muovere la mano sul tavolo. «Andiamo Levie, non puoi startene qui a leggere libri tristi. Sei troppo bello per questo, credimi». Risi ancora, scuotendo la testa.

«Non sono triste», risposi. «Mi piace riflettere e questo libro mi sta facendo riflettere parecchio. Questo fa di me una persona triste?» chiesi. Charles sospirò e a me il respiro si mozzò di colpo quando lui allungò il braccio in avanti, verso di me, sistemandomi i capelli. Lo rimasi a guardare da sotto le ciglia, incerto e contrariato al tempo stesso per quanto il mio cuore battesse forte.

«Lo sento che qualcosa non va, ma non voglio obbligarti a parlarne con me. Se non lo stai facendo probabilmente è perché non ti senti pronto. Però quando vuoi, Lev...lo sai, sono qui». Mi limitai ad annuire, un po' frastornato, e lo fece anche lui, indietreggiando verso il bancone.

Continuai a pensare alle sue parole per tutto il giorno. Pensai a quanto fossi un libro aperto per il mio migliore amico, al quale non era sfuggito il mio stato d'animo. Quindi...perché non confidarmi con lui? Quando ormai era ora di tornare a casa per cena, io ero ormai sicuro che gli avrei parlato quella sera stessa. Ci incontrammo in centro e prima di andare a casa dell'amica di Sandy, passammo da Eliott a cercare di convincerlo a darci qualche alcolico. Uscimmo dal Monet con una bottiglia di tequila e una vodka alla pesca, oltre che la solita raccomandazione sullo stare attenti a non fare cazzate.

Charles quella sera era parecchio su di giri, totalmente assorbito da quello che sarebbe successo alla festa e quindi lasciai perdere l'idea di parlargli. Arrivati a casa di Luna, venimmo accolti da Sandy e le sue amiche, che ci salutarono baciandoci le guance e presentandoci agli altri. Non conoscevo nessuno, ma siccome Charles sparì insieme a Sandy praticamente subito, io mi buttai nella mischia, accettando di bere qualsiasi cosa mi venisse offerto, intraprendendo conversazioni che finirono sempre nell'assurdo e ballando totalmente fuori tempo su vecchie canzoni anni '90.

A metà festa ero consapevole di non essere più in pieno delle mie facoltà mentali, mi sentivo leggero e trovai che giocare al gioco della bottiglia fosse un'ottima idea! Svuotai io stesso la bottiglia di vodka alla pesca che ci aveva dato Eliott, porgendola poi a Amélie, una delle amiche di Sandy, tutta ricci biondi e fossette. Le passai un braccio attorno al collo e insieme andammo in sala, cercando di reclutare il maggior numero possibile di persone per poter giocare.

«Andiamo Charlie, questa è la tua serata fortunata», urlò Luna, ammiccando in direzione di Sandy, che le diede della stupida ma ridacchiò. Il mio migliore amico rise a sua volta divertito, e accettò di giocare, sedendosi a terra. Io, che ero dall'altra parte della stanza, presi posto proprio di fronte a lui, appoggiando il gomito contro la coscia nuda di Amélie, che si era seduta alla mia destra. Lei prese ad accarezzarmi i capelli e si avvicinò al mio orecchio, sussurrandomi qualcosa.

«Spero che quando girerò io la bottiglia si fermi su di te». Quando si fece un po' indietro, ci scambiammo uno sguardo e le sorrisi.

«Come se ci fosse davvero bisogno della bottiglia», le dissi e inclinai la testa, rubandole un bacio veloce, che riuscì a farla ridacchiare.

«Ehi, voi due, prima bisogna essere scelti dalla bottiglia, poi ci si bacia!» Ci rimproverò la padrona di casa e altre ragazze le diedero man forte. Con la coda dell'occhio vidi Charles fare una smorfia, ma mi dissi che fosse per qualcosa che gli aveva detto Sandy, che per tutta la sera l'aveva letteralmente monopolizzato.

Quando il gioco iniziò, un susseguirsi di persone presero a scambiarsi baci, alcuni più passionali, altri meno. Quando toccò ad Amélie, la bottiglia si fermò sul ragazzo seduto vicino a me e lei ci rimase malissimo, ma solo finché non scattò il bacio, che fu intenso e durò un sacco. Si misero tutti a fischiare e sbattere le mani sul pavimento, io compreso. Non provai gelosia. Non per quel bacio.

Il gioco continuò e girò la bottiglia Sandy. Che stronzetta fortunata! Il collo della bottiglia puntò dritto su Charles, che inarcò un sopracciglio e si diede una sistemata al suo ciuffo ribelle prima di voltarsi verso di lei. Le prese il viso nella mano destra e la baciò, facendo diventare il bacio sempre più intenso man mano che il baccano attorno a loro aumentava. Amélie mi prese per le spalle, scuotendomi mentre urlava: «Ma che stai cercando, Charles? Le sue tonsille per caso?!» Lui in tutta risposta alzò il dito medio, senza però staccarsi. Sorrisi, ma in maniera automatica. Provai uno strano fastidio allo stomaco e mi dissi che fosse perché avevo bevuto troppo.

Anche i baci successivi suscitarono confusione, alcuni più di altri. Finirono per baciarsi anche le ragazze tra di loro, dando spettacolo. E quando toccò ai ragazzi, alcuni lo fecero a stampo, altri più seriamente, ridendoci sopra subito dopo.

Mancavo solo io a dover girare la bottiglia. Io, che fino a quel momento, chissà per quale strano meccanismo, non avevo ancora baciato nessuno. Mi schiarii la voce e ruotai la bottiglia, che fece almeno cinque giri su se stessa prima di fermarsi su...

«CHARLES!» urlò qualcuno, passandogli un braccio attorno al collo e scuotendolo. Anch'io ricevetti lo stesso trattamento, venendo in qualche modo incoraggiato ad avvicinarmi al mio migliore amico. Quello strano fastidio che avevo sentito prima, ritornò. Per quanto possibile, ancora più intensamente.

«Dai no, io e Charles ci conosciamo da una vita, siamo come fratelli. Non possiamo!» mi lamentai, scuotendo la testa. Qualcuno rise sentendo le mie parole, altri si lamentarono.

«L'abbiamo fatto tutti! Non potete tirarvi indietro!»

Alzando lo sguardo vidi Charles nella sua camicia azzurra, aperta di diversi bottoni sul davanti, mettersi carponi e farsi sempre più vicino a me. I capelli leggermente sudati gli ricadevano sulla fronte mentre un mezzo sorriso gli comparve sulle labbra. Ma che cazzo?! Inghiottii a vuoto, stringendo entrambe le mani a pugno. Avevo le braccia tese all'indietro, i muscoli più duri di una statua di marmo...anche quello su cui non avevo alcun controllo.

«Non dare di matto», disse. «Fidati di me». Ed io di Charles mi fidavo eccome, quindi chiusi gli occhi e aspettai di essere baciato.

Non successe.

Le mie labbra andarono a sbattere contro qualcosa di umido e vagamente salato, come se fosse impregnato di sudore. Sollevando le palpebre mi resi conto che tra me e Charles c'era la sua mano destra, la parte del palmo rivolta verso di me. Sentii delle lamentele attorno a noi quando ormai Charles era slittato vicino a me, spingendo via Amélie per riuscire a passarmi un braccio attorno al collo.

«L'avete sentito o no, Lev? Siamo fratelli, non avrete più di così, non siamo mica ne Il trono di Spade!» fece sapere il mio migliore amico, tirandomi a sé, mentre io mi sforzai di sorridere. Mi lasciò un bacio contro la tempia e la sua vicinanza ebbe uno strano effetto su ogni parte del mio corpo. Mi sentii pervadere da brividi e pensai di dover vomitare da un momento all'altro.

Qualcuno propose un secondo giro, ma in tanti rifiutarono, tra cui io. Mi alzai da terra, sotto lo sguardo attento di Charles, che aggrottò la fronte.

«Tutto bene, amico? Sei un po' pallido», disse.

«Sì, vado solo a fumarmi una sigaretta», risposi io, frugando nella tasca e tirando fuori il pacchetto. «Torno subito», aggiunsi e lui annuì. Gli diedi le spalle, sentendomi il suo sguardo addosso finché non uscii in giardino. C'erano alcuni ragazzi in piscina, ma io andai da tutt'altra parte, sedendomi su una vecchia altalena per bambini.

Sollevai lo sguardo sul cielo pieno zeppo di stelle, sperando di trovare compassione in loro, almeno in quelle che secondo la Mitologia, per arrivare ad essere stelle, avevano sofferto. Stavo soffrendo anch'io, perché mi era chiaro che non potevo continuare a fingere. Se prima di quella sera avevo pensato che prima o poi le ragazze mi sarebbero potute cominciare a piacere in quel senso (forse per miracolo, forse per magia), dopo quel bacio – non bacio con il mio migliore amico, ero sicuro che non sarebbe mai successo, perché quel bacio io me lo sarei preso se solo Charles me l'avesse dato. Toccandomi le labbra con la punta delle dita mi chiesi come sarebbe stato. Spostai velocemente le dita, facendo invece un altro tiro dalla sigaretta e lasciando che il gusto amaro della nicotina mi invadesse la bocca, come se potesse anestetizzarmela.

Anche se prima di arrivare alla festa ero convinto di voler parlare con Charles di come mi sentivo, dei dubbi che avevo e delle paure che mi invadevano la testa, in quel momento (e dopo quello che era appena successo) volevo solo mettere in stand-by il cervello e mi dissi che bere potesse essere la soluzione migliore. Finii la sigaretta e tornai dagli altri. La mia attenzione venne immediatamente catturata da Amélie, che mi sventolò davanti una bottiglia di vino e mi sorrise.

«Mi fai compagnia? Ti va se andiamo in un posto un po' più tranquillo?» chiese. Annuii e mi feci prendere la mano, facendomi trascinare su per le scale al piano di sopra. Percorremmo un corridoio che mi sembrò lunghissimo. La porta di quella che doveva essere una camera da letto era leggermente socchiusa e vidi Charles e Sandy insieme. Fu solo un istante, ma capii cosa stava succedendo e distolsi subito lo sguardo.

Amélie scelse di andare su un balcone che si affacciava sul giardino, abbastanza grande da ospitare due poltroncine in vimini e un tavolino basso. Prendemmo posto e mentre io aprii la bottiglia, lei si tolse le scarpe e si accoccolò contro lo schienale. Le passai il vino dopo aver fatto un sorso: era dolce e frizzante, eppure sentii un sapore acido sulla lingua. La feci schioccare contro il palato ma la situazione non migliorò affatto. Dopo un lungo sorso, Amélie appoggiò la bottiglia sul tavolino e restammo semplicemente in silenzio, probabilmente anche lei aveva bevuto troppo e aveva bisogno di riprendersi un po'.

«Lev», sussurrò improvvisamente. «Che nome strano che hai», ammise. «Intendo dire...strano bello!» si affrettò ad aggiungere, ridendo. Io mi piegai in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Mi presi il viso tra le mani, mentre il mio sguardo rimase fisso su un punto indistinto davanti a me.

«Lev Tolstoj», dissi soltanto.

«Uh?»

«Mia madre mi ha chiamato così per via di Lev Tolstoj. Durante l'università ha studiato lingue: spagnolo, inglese e russo. Ha scritto la tesi di laurea su Anna Karenina. Sai quante edizioni ha di Anna Karenina? Dodici!» feci sapere.

«Carino», disse lei, ed io mi voltai nella sua direzione e la guardai inclinando la testa di lato. Rendendosi conto di essere osservata, si prese un ricciolo tra le dita e prese a giocarci.

«Che cosa? Il libro?» chiesi, prendendo un sorso di vino dalla bottiglia. Prima di ricevere una risposta ripresi a parlare. «Quel libro è un tripudio di corna: inizia parlando di corna, prosegue parlando di corna e finisce parlando di corna».

«Oh...» La ragazza sembrò delusa dalla mia risposta. «Pensavo fosse una storia d'amore».

«Una storia d'amore?» chiesi retorico. «La storia di Anna e Vrònskj è banale, un'ossessione insensata che solo due esponenti dell'alta società russa dell'800 avrebbero potuto intraprendere. Alla fine lei si butta sotto un treno e lui va in guerra a farsi ammazzare. E poi ho sempre pensato che i sentimenti che provano l'uno per l'altra siano sbilanciati. Lei lascia suo figlio, viene etichettata dalla società come un'adultera e anche se suo marito la perdona, lei decide comunque di tornare da Vrònskj. E lui che fa?» Amélie cercò di rispondere, ma ancora una volta non fece in tempo. «Te lo dico io: niente! Non fa niente. Insomma, non voglio sminuire Tolstoj, anche perché se mia madre me lo sentisse dire mi ucciderebbe, ma credo che la sua indagine per quanto accurata e profonda, forse tra le migliori del realismo russo, non ha niente a che vedere con Dostoevskij. Però, d'altra parte dico, merda, meno male che mia madre era presa bene con Tolstoj, perché sai come si chiamava Dost-». Venni zittito improvvisamente, quando Amélie si allungò verso di me e appoggiò le labbra sulle mie, muovendole piano.

«Scusami», sussurrò staccandosi, ormai rossa in faccia. «Solo che...che non me ne frega niente del realismo russo».

«Avresti potuto semplicemente dirmelo che ti stavo annoiando», protestai, alzando un sopracciglio.

«Perché, ti dispiace che ti abbia baciato?» Risi, scuotendo la testa. Ci riprovai, magari quella volta sarebbe stato diverso. Appoggiai una mano contro la sua guancia, accarezzandogliela piano con le dita. Ero sicuro che il modo in cui mi stessi sentendo non fosse quello..."giusto". L'unica cosa che riuscivo a pensare era quanto dovesse durare.

Mi staccai appena sentii dei passi provenire da dentro. Amélie abbassò la testa con un sorriso sulle labbra, mentre io guardai da sopra la spalla chi fosse. Trovai Charles appoggiato alla porta-finestra, con le braccia incrociate al petto e un ghigno sul viso. Gli chiesi con un semplice sguardo cosa volesse e lui in tutta risposta fece un segno con la testa, come a dirmi di andare.

«Devo andare», sussurrai allora ad Amélie, dandole un bacio veloce sulla spalla nuda. La bionda sollevò lo sguardo su di me quando mi alzai dalla poltroncina e mi prese la mano, impedendomi di allontanarmi. Le bastò tirarmi leggermente per farmi sporgere verso di lei.

«Non mi chiedi il numero?» Cercai alla cieca il mio cellulare, prendendolo dalla tasca posteriore dei jeans e allungandoglielo. Fu velocissima ad aggiungersi nella mia rubrica e altrettanto velocemente mi diede un ultimo bacio sulle labbra. «Buonanotte», sussurrò.

«'Notte», risposi e raggiunsi Charles, che prima di andare salutò Amélie con un cenno.

Erano le tre quando lasciammo la festa un po' barcollanti, Charles con un braccio attorno al mio collo e tutto il suo peso addosso a me. Per sorreggerlo lo afferrai in vita, sentendo sotto i polpastrelli la sua pelle calda laddove la camicia si era un po' sollevata.

«Cazzo Levie, che serata!» urlò, passandosi una mano tra i capelli. Ci guardammo, trovandoci pericolosamente vicini. Charles aveva il fiato caldo e sapeva di vodka. Un brivido mi percorse tutta la colonna vertebrale, raggiungendo il mio basso ventre. Merda! «Io e Sandy l'abbiamo fatto», mi confessò. Serrai la mascella, deglutendo a vuoto. Sapevo di dover dire qualcosa, ma non sapevo cosa. Nella mia testa c'era il vuoto. Per fortuna ci pensò Charles. «E quindi...tu e Amélie?» Scossi la testa, risollevandola quando lui appoggiò il palmo della mano contro il mio collo, in una stretta salda e dolce al tempo stesso. «Lei ti piace?» chiese. La risposta a quella domanda era semplice, ma non era semplice spiegare il perché e non era nemmeno il momento giusto per farlo. Tutta quella giornata era stata un susseguirsi di momenti sbagliati, proprio quando avevo più bisogno di confidarmi con il mio migliore amico.

«Io- io non lo so, Charles», mentii.

«Ma l'hai baciata», precisò allora lui. «E poi vi ho visti stasera, siete stati appiccicati per tutto il tempo».

«Lei ha baciato me, ma solo perché ha pensato che fosse un buon modo per farmi stare zitto, visto che stavo parlando di Anna Karenina e del realismo russo e-».

«Oh, quindi basta così poco per farti smettere di parlare di Tolstoj?» Le parole di Charles mi fecero ridere, perché suonarono terribilmente ambigue. Nel mentre che stavamo parlando eravamo quasi arrivati a casa mia, mancavano poco più di duecento metri.

«Comunque, sì, dopo che lei ha baciato me per zittirmi, io ho baciato lei», ammisi.

«Oh beh...finalmente!» esclamò, annuendo con la testa.

«Finalmente cosa?» chiesi, aggrottando la fronte.

«Finalmente hai trovato una ragazza. Amélie è carina, non parlare più di realismo russo e stronzate del genere, altrimenti la farai scappare!»

«Io però credo di essere quel tipo di persona che ha bisogno di qualcuno che lo sappia ascoltare e se lei ha pensato che parlo troppo, forse non fa per me», sussurrai.

«Lev, con le ragazze ci devi fare altro, non parlare! Se vuoi qualcuno che ti stia ad ascoltare, ci sono io. Ti sono sempre stato ad ascoltare e posso continuare a farlo». E questo mi sarebbe bastato. Avere Charles, pronto ad ascoltarmi sempre, anche quando farneticavo e discutevo di cose che lui nemmeno capiva. Lo pensai ma non glielo dissi perché ormai eravamo arrivati sotto casa mia.

«Muoio di sonno», sussurrò lui, chiudendo gli occhi e appoggiando la testa contro il muro, mentre io cercavo le chiavi. Lo trascinai dentro casa, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare mia madre. Non appena lo lasciai cadere sul letto, lui si addormentò e me ne accorsi dal suo leggero russare. Gli tolsi le scarpe e lo spinsi contro un cuscino, sdraiandomi a mia volta sul letto non appena spensi la luce.

Mentre prendevo sonno, Charles si rigirò su se stesso e mi abbracciò da dietro, intrappolandomi tra il suo petto e il materasso. Ed era esattamente così che mi sentivo: intrappolato. Una trappola feroce ma anche dolce, dalla quale non sapevo quando sarei riuscito a liberarmi. 

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