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3. Ares

"Chi può dire se siamo noi a prendere le decisioni o siano le decisioni a prendere noi."

Cit Caphheus, Sense8, Ideatori: Lana e Lilly Wachowsky, J. Michael Straczynski

Fa caldo. Troppo caldo. Arrivare a questi livelli di profondità diventa asfissiante. Non ne posso più né di questa dannata miniera né di questo maledetto piccone, che diventa sempre più pesante man mano che le ore scorrono.

Per la Domina, non ne posso più di questa dannata vita! Ogni giorno uguale a quello precedente: caldo, fatica, sudore e polvere. Per cosa poi? A malapena riesco a tirare avanti insieme a mamma.

Mi fermo e, con stizza, strappo via dal naso e dalla bocca l'ormai inutile pezzo di stoffa, completamente madido, che dovrebbe servire a proteggermi dall'inalare questa fastidiosa polvere. Appoggio l'utensile sulla roccia e mi concedo un minuto di pausa necessario a riprendere fiato.

Fisso il vuoto, l'oscurità la fa quasi da padrone, salvo che per delle piccole lucerne che ci consentono di vedere almeno dove stiamo lavorando. Ognuna di esse è collegata a una ramificazione di tunnel solari. Questi ultimi attraversano le spesse pareti, di roccia e terra, e hanno origine da alcune postazioni nella superficie di Superius. Qui un sistema di specchi incanala i raggi necessari a illuminare tutta Inferius.

Con il dorso della mano per prima cosa mi detergo la fronte, poi faccio passare il palmo fra i capelli, giusto per tentare di dar loro una scrollata dai detriti. Il ciuffo centrale è diventato decisamente troppo lungo, dovrò chiedere a mia madre di accorciarmelo e di rasarmi un po' ai lati.

Un fischio fastidioso mi riporta alla realtà.
«Ehi, *pupillus, che fai? Perdi tempo?»

Stringo i pugni e prendo un respiro, odio quando mi chiamano così -orfano- solo perché non ho un padre. Mia madre vale per due.
«Lo conosci il mio nome! Usalo!»
«Sai che m'importa, pupillus! E ora muoviti! Non ho intenzione di fare anche la tua parte!»

Rigido mi avvicino al "collega", fino ad arrivargli con il viso a un soffio dal naso. Il suo puzzo rancido mi penetra le narici, ma resisto. All'incirca avrà quarantacinque anni, almeno venti in più di me. Non ho intenzione di fargli niente di male -non sono quel genere di persona-, ma nemmeno intendo subire improperi ingiustificati in silenzio, sottomesso. Mostrarsi deboli in questo posto rende dei bersagli facili.

«Ti ho detto di finirla di chiamarmi così! Ho un nome e un cognome!»
Lui fa un passo indietro, per rimettere distanza. I suoi occhi scuri si stringono e la sua bocca si contrae in una smorfia che ne enfatizza la pelle screpolata.
«E io ti ripeto che non mi importa chi tua madre si sia o no scopata per farti venire al mondo e darti un nome! Si vede che sei cresciuto solo con una donna, non ha saputo insegnarti il rispetto per i più vecchi!»

Questo non doveva dirlo. Non tollero che qualcuno osi parlare così di mia madre. Non più ormai... è da tempo che non sono uno scricciolo di ragazzino, incapace di ribellarsi e difendersi dagli uomini come lui.

Inspiro ed espiro, con calma, per trattenermi dall'alzargli le mani addosso.
«Ti avviserò una volta sola e una soltanto: non ti azzardare, mai e poi mai, a tirare in mezzo mia madre, a meno che tu voglia passare il resto della vita a succhiare brodi invece di masticare!»
Per sottolineare il concetto mi faccio ancora più vicino, i nostri nasi si sfiorano.

Non sferrerei mai il primo colpo, i miei insegnamenti non me lo permettono, ma non sono neanche il tipo di persona che si tira indietro.

Dopotutto, ho imparato la lezione e ho capito come si sopravvive qui...

L'uomo mi squadra titubante, forse sta valutando le sue possibilità. Alla fine ingoia il boccone e fa un passo indietro.
«Va bene, ma ora torna a fare la tua parte!»

Gli sorrido minaccioso.
«Certo, proprio come tu tornerai a fare la tua.»

Mi dà le spalle, quasi ringhiando, dirigendosi però alla sua postazione. Rilasso i muscoli tesi e riprendo anche io il mio posto.

Mancherà almeno un'ora ancora prima della fine del turno. Riprendo il lavoro, ma, dopo poco, mi blocco di nuovo. Questa roccia non contiene le solite pietre preziose. Me ne rendo conto da una scheggia che si stacca nel punto in cui stavo colpendo. È larga più o meno quanto l'unghia del mio pollice e lunga un dito. Strano. Di solito non si frantuma così facilmente il "Blu della Domina". La raccolgo e la metto in tasca. Una scheggia così piccola non ha valore, è inutile, quindi nessuno la reclamerà, però io potrei provare a portarla al tempio per farla benedire, magari mi porterà un po' di fortuna.

Dopo nove ore passate qui dentro, la campana suona e noi possiamo staccare. Sono esausto, sia per colpa del lavoro, che per via della discussione. Non è il primo incontro spiacevole che faccio. Siamo tutti più o meno sulla stessa barca eppure... eppure siamo pronti a saltarci al collo per delle sciocchezze. Il caldo e la fame danno alla testa.

Non vedo l'ora di arrivare a casa per farmi un bel bagno e togliermi di dosso il puzzo di questa maledetta miniera!

Odio lavorare sotto terra, già mi tocca viverci! Almeno vorrei poter trovare qualche impiego di Sopra. Il vero problema è che non ho mai avuto il pollice verde, la capacità di lavorare come bracciante nei campi, né il carattere adatto a prostrarmi per servire i "ricconi". Di conseguenza è meglio che mi accontenti, almeno fino a quando non uscirà qualcosa di meglio, un giorno, spero. Devo tenere duro per la mamma. Lei ha già fatto tanto, ora tocca a me pensarci.

Imbocco l'uscita di questo posto dimenticato dall'Uno e mi dirigo sulla strada di casa. A piedi ci metto venti minuti, ogni tanto mi scosto a lato del sentiero per lasciare passare i fortunati possessori di un cavallo. A un occhio inesperto tutti questi incroci di tunnel e frazioni potrebbero sembrare uguali, ma chi ci vive è abituato a spostarsi nella penombra e viene quasi istintivo sapersi orientare, anche in zone non troppo conosciute.

Quando inizio a intravedere i contorni della mia abitazione, tiro un sospiro. Non è enorme, anzi, ma è casa. Incuneata fra le rocce, più alta che larga, contiene tutto ciò di cui io e mamma abbiamo bisogno per vivere decentemente. Per lo meno abbiamo le tubature che ci riforniscono di acqua fredda e anche un po' di quella calda, altri invece non sono così fortunati.

Non appena metto il piede sul primo scalino del piccolo porticato, arriva alle mie narici il profumo della calendula che mia madre coltiva alacremente nelle sue micro serre, sotto alle fioche luci delle lucerne. Inspiro lasciandomi invadere dalla sensazione di essere finalmente a casa.

«Ares?»

Una voce femminile mi distoglie dai pensieri, giusto poco prima di girare la maniglia per entrare.
«Ciao, Cass, che ci fai qui?»

La ragazza mi sorride, in quella sua maniera sempre così dolce, mentre si porta una lunga ciocca di capelli grigio-argentei dietro l'orecchio. Le sue iridi viola brillano gioiose.
«È stato papà a mandarmi, voleva che ti chiedessi se stasera ti andava di cenare con noi, ha bisogno di parlarti.»

Alzo un sopracciglio, interrogativo. Non capisco cosa possa volermi dire Leonida, ci siamo visti giusto ieri.
«Va bene, con molto piacere, ci sarà anche Ettore?»

«Ma certo, dove vuoi che vada quello!» Sbuffa prima di riprendere, «Ovviamente è invitata anche Elettra.»
«Grazie, ora glielo dico, ne sarà sicuramente felice. A che ora?»

Cassandra inizia a incamminarsi.
«Verso le sette dovrebbe essere tutto a posto.»
«Vuoi che veniamo prima per darti una mano? Tempo solo di farmi un bagno.»

La ragazza di nuovo sorride, ma scuote la testa.
«Grazie, Ae, ma ce la faccio, stai tranquillo, a dopo.»
Alzo le spalle rassegnato e la saluto.
«Va bene, come preferisci.»

Apro la porta e subito individuo la mamma, seduta sul nostro consunto canapè: è intenta a rammendare un vecchio paio di pantaloni. Le lascio un bacio sul capo e lei, senza smettere di fissare l'ago, mi accoglie.
«Bentornato, è stata dura oggi?»
«Non più del solito... ah, stasera siamo invitati a cena da Leonida.»

Dopo un verso di assenso, torna a concentrarsi per terminare un punto impegnativo.
«Andiamo in là prima per dare una mano a Cassy?»
«No, gliel'ho già chiesto, non vuole.»

Mamma aggrotta le sopracciglia pensierosa, poi inizia ad annuire a se stessa.
«Allora preparo almeno un dolce.»
«Lo sai che non ce n'è bisogno, mam-»

«E tu lo sai che non ti ho educato così! Ormai ho deciso!» Si picchietta un indice sul mento, «Oggi al mercato di Sopra, oltre alla Crema Protettiva, ho comprato delle mele. Posso fare una torta di pane con quel poco che abbiamo avanzato ieri.» Di nuovo annuisce tra sé e sé, fissando un punto imprecisato in cucina, «Sì, così almeno possono mangiarla anche domani per colazione.»

Non posso fare a meno di ridere quando la vedo ostinarsi in questa maniera.
«Mamma, con l'appetito di Ettore dubito che ne avranno ancora per domani mattina.»

Lei afferra il primo canovaccio a portata di mano e me lo lancia.
«Tu non preoccuparti, vai a lavarti, invece, che puzzi!»
Lo schivo e corro in bagno.

Dopo averla riempita, entro nella vasca ramata lentamente e... mi è andata bene! L'acqua oggi non è caldissima, però almeno è tiepida. Una goduria. Mi gratto via lo sporco incrostato sulla pelle e rinasco. Il profumo del sapone alla calendula che produce mia madre mi riempie le narici, eliminando l'odore della miniera e del sudore. Faccio scorrere via l'acqua sporca e mi preparo all'ultimo risciacquo, quello che sicuramente sarà ghiacciato. Trattengo il respiro e concludo.

Mi sento rinato.

Avvolgo intorno al corpo un asciugamano, esco e salgo le strette scale per raggiungere la mia angusta stanza. Sorpasso la branda, spalanco le ante dell'armadio sbilenco e indosso una casacca sbracciata scura e dei pantaloni comodi. Tanto per dove devo andare vanno più che bene. Da Leonida è come stare in famiglia. Scendo e vado a dare una mano.

Un'ora più tardi e siamo quasi pronti per la cena. La torta rilascia un dolce profumo che mi fa venire l'acquolina in bocca. Lo stomaco protesta, esige di essere riempito.
«Forza, ma', andiamo che ho fame!»
«Un attimo, mi cambio solo il vestito!»

Sbuffo, esasperato, sempre la stessa storia.
«Ma se vai benissimo così, andiamo!»
«Ma cosa dici! È quello da casa, pieno di toppe! Non va bene per uscire!»

Alzo gli occhi al cielo trattenendo uno sbuffo, come se dovessimo andare chissà dove!

Spazientito, dopo dieci minuti la richiamo.
«Mamma?!»
«Arrivo! Basta!»                                                                                                                          

Finalmente scende le scale. Indossa un leggero abito azzurro, il quale richiama il colore delle sue iridi che sono talmente chiare da sembrare quasi bianche. Guardarla negli occhi è come rivedersi allo specchio; ho ereditato da lei lo stesso colore, lo stesso taglio. Persino nei capelli abbiamo un'identica tonalità scura, nera. Lei li ha lunghi e ondulati e li tiene spesso -come in questo momento- intrecciati e raccolti sul capo. Io al contrario non li sopporto troppo lunghi, soprattutto ai lati me li faccio radere, anche se il più delle volte mia madre si rifiuta di tagliarmeli troppo corti, visto che a lei non piacciono.

Come se dovesse portarli lei poi...

«Eccomi, possiamo andare.» Si avvicina alla porta, ma, prima di aprirla e uscire, afferra un cesto con dentro della biancheria. «Ares, la torta, prendila tu!»
«Va bene, ma cos'hai lì dentro?»
«Vecchi vestiti, di quando ero più giovane, che non metto più. Li ho riadattati per Cass, se li vuole.»

Ci incamminiamo per uno stretto sentiero, la nostra casa rimane infatti un poco discosta rispetto alle altre della frazione Parvus, l'ultima abitazione, invece, è quella di Leonida. Il suo porticato è ampio abbastanza da ospitare un tavolino con due sedie per lato. Su di esso, posta al centro, sotto alla luce del lucernario -ormai fioca a quest'ora della sera- una pianta di calendula è in procinto di sbocciare. Credo che sia quella che io e la mamma abbiamo regalato a Cass per il compleanno passato.

Con una mano busso, mentre con l'altra reggo il dolce. Passa poco tempo che i due uomini di casa ci vengono ad accogliere. Padre e figlio sono quasi identici, entrambi hanno acuti occhi viola che non si lasciano scappare niente e capelli -un po' più radi in Leonida- dello stesso colore di quelli di Cassandra.

«Ae, finalmente!»
Ettore mi tira un'amichevole pacca sulla spalla, seguito a ruota dal padre.
«È colpa di mamma se siamo in ritardo!»

«Ares!»
Mi sono appena guadagnato da lei uno scappellotto sul collo, grazie alla mia uscita.

«Elettra! Ma-» Ettore si interrompe fissando goloso la terrina tra le mie mani, poi dirige di nuovo il suo sguardo su di lei. «É quello che penso che sia?! Un dolce?»
«Sì, 'Tore. Ho fatto la torta di pane con le mele.»
«Allora sei stra-perdonata! Avanti, entrate!»

La mamma varca la soglia e li saluta abbracciandoli, per primo il mio amico e poi suo padre, il quale si sofferma forse un po' più del dovuto.
«Elettra, sei ogni giorno più bella.»
Mia madre arrossisce, alza gli occhi al cielo e sbatte la mano come per scacciare una grossa sciocchezza.
«Vorrai dire ogni giorno più vecchia!»

«No, volevo dire proprio più bella!» rincara la dose l'uomo, scoccando poi un occhiolino allegro e malizioso, mentre io mi ritrovo ad alzare gli occhi al cielo divertito, ma nauseato.

Andiamo a mangiare, che è meglio...

*pupillus = orfano
*Uno= L'unico Dio (maschio) in cui i Superiori credono fermamente

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