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25. Nausicaa

Ciò che è riuscita a creare Andromaca in poco tempo è sbalorditivo.

Mi osservo allo specchio: i capelli sono divisi in due grosse trecce che fermano una piccola tiara di cristallo e sono raccolte a loro volta in uno chignon. La forma degli occhi è indurita da una linea scura di kohl e il vestito nero con sopra intessuta la fenice completa il tutto.

La mia espressione è ferma, seria, ma dentro di me lo stomaco è in subbuglio. Il cuore batte all'impazzata e percepisco un qualcosa che mi opprime il petto, che mi fa mancare il fiato.

Porto una mano nel punto in cui mi sento schiacciata, come se il gesto potesse in qualche modo porre fine alla sensazione di pesantezza e tento un respiro più profondo per calmarmi. Per fortuna sono tutti presi nel decidere come comportarsi, nessuno si è accorto della mia incertezza o almeno lo credo, fino a quando incrocio gli occhi azzurri di Ares nello specchio. Stringo la mascella e distolgo subito lo sguardo imbarazzata.

Non c'è più tempo. Ingollo il groppo che ho in gola, mi volto verso di loro e prego mentalmente la Domina di assistermi.

«An, tu puoi tornare a casa, grazie per esserti fermata per me.»

La mia amica mi sorride, si inchina veloce, «L'ho fatto con piacere, Altezza.»

Se ne va, ma, prima di chiudersi la porta alle spalle, senza che nessuno se ne accorga, mi fa un piccolo augurio di forza e a me si stringe il cuore, senza parlare abbasso il capo per ringraziarla.

Raccolgo tutta la determinazione in mio possesso e ordino di muoverci.

Arriviamo davanti alla stanza del Concilio in poco tempo, io per prima, affiancata da Nemesi, Tancredi subito dietro di me e a seguire Ares ed Ettore con indosso la divisa d'ordinanza.

I soldati di guardia, anche se sembrano stupiti dalla mia presenza, sono veloci a inchinarsi al mio cospetto. Da dentro possiamo sentire provenire un vociare concitato. Faccio un ultimo passo avanti e i due uomini spalancano la porta per me.

La stanza rettangolare è divisa in due lati, in ognuno di essi prendono posto i membri del concilio su grosse gradinate in legno rese comode da soffici cuscini scarlatti. Il centro è sgombro, libero di essere occupato da chi al momento deve fare un discorso. Appoggiato al muro più corto vi è il lussuoso trono dorato, imbottito di rossi cuscini, con davanti un leggio su cui poter appoggiare gli ordini del giorno. La parete di fronte a esso è un'enorme vetrata, che aiuta a rendere la stanza luminosa.

Quando entro, nello spazio tra le gradinate, trovo Parmenide Inimicos che sta tenendo un discorso concitato. L'uomo, a capo dei Radicati, non si accorge subito della mia presenza e continua a parlare infervorato. I capelli lunghi, di un biondo paglia striato di bianco, sono raccolti in un legaccio di seta color smeraldo. È elegante, slanciato, indossa una casacca verde scuro con al di sotto una camicia bianca. Non dimostrata sessant'anni, al contrario di tanti altri suoi colleghi che col l'andare dell'età e l'eccesso nei bagordi si sono lasciati andare.

Io, a testa alta, percorro lo spazio fino a raggiungere il trono. Mi sistemo seduta dritta, incrociando le mani in grembo, con Nemesi che appoggia la schiena alle mie gambe. Ha le orecchie dritte e lo sguardo inquieto. Tancredi rimane in piedi alla mia destra, nel posto che di solito occupa quando c'è mio padre. Ares ed Ettore attendono fuori come è stato loro ordinato poco prima dal comandante.

Noto Paride e Socrate, tra le fila degli innovatori, osservarmi sbalorditi. Le loro facce quasi mi fanno scordare l'agitazione e scappare un risolino.

Quando Parmenide si rende conto che qualcun altro è entrato e che nessuno lo sta più ascoltando, si gira e, furibondo, urla: «Chi osa interrompere una seduta del Concilio?»

La voce quasi si spezza quando incontra il mio sguardo, i suoi occhi castani prima si spalancano e poi si stringono. Io gli sorrido fredda, inclinando un poco la testa.

Tutti sono immobili e silenziosi. Non vola nemmeno una mosca.

Tancredi interviene con la sua voce roca e autoritaria: «Siete al cospetto della Fenice! Devo essere io a ricordarvi come si deve accogliere la presenza di Vostra Altezza!»

Un brontolio di saluti si alza, mentre le schiene si piegano in segno di rispetto. Parmenide non ha smesso un attimo di fissarmi e abbassa solo il capo.

«Buongiorno a voi, prego, esponetemi gli argomenti del giorno visto che sono così tanto importanti da non poter attendere nemmeno il ritorno del re.»

Socrate è il primo a prendere la parola. Il suo sguardo sembra fisso come quando mi racconta una storia, ma le rughe mi paiono più profonde del solito.

«Principessa, i Radicati hanno espresso la loro preoccupazione per quanto concerne l'andamento dell'economia del paese. Hanno paura che le casse del regno si stiano svuotando troppo velocemente tra l'assunzione delle nuove reclute messa in atto dal re e i costi che avranno il vostro ballo e il vicino matrimonio.» Si interrompe, beve un sorso d'acqua e poi, visto che nessun altro intende proseguire, continua, «L'esportazione dei nostri gioielli in quest'ultimo periodo è rallentata anche a causa dei numerosi Inferiori che si licenziano dalla cava alla ricerca di lavori migliori in superficie.»

Annuisco, «E il Concilio come propone di risolvere la situazione?»

Socrate fa di nuovo per parlare, ma viene interrotto da Parmenide che per tutto il tempo non si è mosso dalla postazione centrale.

«Vostra Altezza, ci vorrà scusare, ma non siamo tenuti a rendervi partecipe, le discussioni del Concilio sono riservate ai membri e al re, non alle sue figlie.»

Prendo un impercettibile respiro prima di rispondere, infilo una mano in mezzo al pelo di Neme per grattarla e rilassarmi.

«Con grande rammarico mi duole dovervi rimembrare, radicato Inimicos, che alle discussioni del concilio può partecipare anche il futuro erede.»

Stringe la mandibola, «E io sono desolato, Vostra Altezza, nel dovervi ricordare che un erede del re ancora non l'abbiamo.»

Il mio stomaco ribolle di rabbia a questo affronto. Smetto di accarezzare il leopardo che, percependo il mio nervosismo, comincia a muovere la coda con fare scattante. Il silenzio calato sulla stanza è teso. Mi alzo e, invece di dirigermi verso la porta per uscire, sorpasso Parmenide senza degnarlo di uno sguardo e passeggio con le mani incrociate dietro alla schiena. Passo davanti alle gradinate, osservando negli occhi tutti i membri. Il rumore dei miei tacchi sembra persino produrre un'eco spettrale. Sia Socrate che Paride hanno un'aria tutt'altro che rilassata.

Dopo aver passato in rassegna tutti quanti, sia da un lato che dall'altro, giro intorno a Parmenide e mi fermo davanti a lui. Grazie alle mie scarpe i nostri visi sono quasi allineati. Lui ha un'espressione di malcelata superiorità nei miei confronti. Punto gli occhi anche nei suoi, come ho fatto con gli altri, per fargli capire che si trova davanti a una donna che non abbasserà mai lo sguardo di fronte a un uomo e poi gli sorrido impertinente, solo per il gusto di irritarlo.

Smetto anche di utilizzare il "voi", «Parmenide, se non ricordo male, il titolo di Fenice spetta di fatto all'erede designato,» Mi picchietto il mento con un dito, con espressione di finta confusione, «E dimmi, nonostante il mio essere donna, chi tra noi due è ufficialmente in possesso di quel titolo?»

Stringe i pugni e fa un mezzo passo avanti in preda all'ira. Io non mi sposto di un centimetro, è Tancredi a intervenire, «Inimicus, non penso di dovervi rammentare di fronte a chi vi trovate, vi avverto solo che sarò io stesso a condurvi alle prigioni in attesa di processo per tradimento se solo osate ancora...» Lascia la frase in sospeso, rendendola più minacciosa.

L'uomo davanti a me ha il viso rosso di rabbia, ancora è fermo al suo posto, quindi decido di "dargli il colpo di grazia". Mi avvicino a lui, fino al limite, con le mani dietro alla schiena e gli occhi fissi nei suoi, «Vai a sederti al tuo posto.»

Stringe la mascella, ma, senza aggiungere altro, torna ad accomodarsi.

Ritorno al trono.

«Bene, direi che possiamo ricominciare da dove avevamo lasciato. Socrate, visto che siete stato il primo a prendere iniziativa, a voi la parola.»

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