12. Nausicaa
"«Va bene» mi sono detta, «sono contenta che sia una femmina. E spero che sia scema, la cosa migliore per una femmina in questo mondo è essere una bella scemetta.»"
Cit Daisy, Il grande Gatsby, Francis Scott Fitzgerald
Qualche ora prima...
«Nausicaa, ho bisogno di parlarti.»
Esausta a causa dell'incontro di spade con Eleno e Tancredi, stavo per chiudermi in camera insieme a Nemesi con l'intenzione di cambiarmi, ma non posso ignorare la voce di papà. Gli rispondo accompagnando alle parole un lieve inchino, «Ai vostri ordini, mio Re.»
Mi faccio da parte per accoglierlo e invitarlo a entrare, ma lui scuote la testa in segno di rifiuto, scrutando al contempo le guardie di turno ai miei alloggi, «Non qui, seguimi.»
Esco e, con un gesto della mano, indico anche al mio leopardo di venirmi dietro. Senza farselo ripetere, mi raggiunge con il suo passo felpato e indolente.
Papà mi offre il braccio in segno di pace e io lo accetto, ma, proprio nel momento in cui compio l'azione, una stilettata di dolore proveniente dal fianco destro mi fa stringere gli occhi. La ignoro. Eleno oggi non si è risparmiato, con l'elsa della spada mi ha assestato un colpo doloroso che mi ha lasciata senza fiato per qualche secondo. Come se l'irritazione per aver incassato non bastasse, mi sono pure dovuta sorbire i rimproveri di Tan.
Attraversiamo il largo e colorato corridoio in silenzio. Giganteschi arazzi corrono lungo le pareti, donando vivacità all'ambiente, intervallati poi dai Rossi dell'Uno, incastonati in maniera ordinata. Essendo giorno non si può notare il bagliore che emanano, di notte sono utili a segnalare la via.
Ci fermiamo di fronte alla porta del suo studio. Le guardie che lo sorvegliano si fanno da parte, inchinandosi. Non appena entriamo, il familiare odore di legno misto a inchiostro e carta mi investe le narici.
Il suo ufficio è ammobiliato in maniera semplice, senza fronzoli inutili, rispecchia in pieno la sua aria austera. Una grande e imponente scrivania in mogano cattura immediatamente l'attenzione, lucida e senza un granello di polvere. Al di sopra il giornale di oggi è spalancato, accanto a qualche pesante tomo e a una lampada con all'interno una candela consumata. Un calamaio lavorato finemente e una penna sono abbandonati poco distante. La sua personale poltrona, alta, morbida e nera, svetta, mettendo in ombra le due sedie di fronte fornite di un umile e piccolo cuscino scuro. Un'immensa libreria ricopre per intero le tre pareti.
Una volta la mamma mi aveva raccontato che, nascosta dietro a quest'ultima, una delle pareti celasse un passaggio segreto che portava e si collegava direttamente al bosco alle nostre spalle. Quando ero più piccola, ogni occasione era buona per recarmi di nascosto qui a cercare il meccanismo che mi rivelasse la via. Fui più volte ripresa da mio padre per questa mia tendenza. Non voleva scoprirmi a gironzolare sola nella stanza dove conservava i documenti più importanti; purtroppo non sono mai riuscita a trovarlo. Papà ha sempre liquidato il tutto prendendosi gioco delle dicerie, fino a quando il mio interesse è scemato. Devo ammettere però che, ogni volta che metto piede qui dentro, continuo a non poter fare a meno di guardarmi attorno attenta a ogni dettaglio.
In questa stanza inoltre papà conserva un libro a cui sono particolarmente affezionata: "Le antiche leggende dei Dieci". Ogni volta rivederlo mi riempie il cuore di nostalgia. Lui e la mamma me lo leggevano ogni sera, poco prima di andare a dormire. Rimarrà sempre la prova tangibile di un ricordo prezioso.
Prendo posto su una delle seggiole, al mio fianco si accomoda Nemesi. Mio padre si adagia sulla poltrona, appoggiando i gomiti sul giornale sopra al bancone, producendo un fastidioso rumore di carta stropicciata. Congiunge poi le mani davanti al viso, studiandomi, «Come stai, Nausicaa?»
«Tz... come volete che mi senta, mio Re?»
Alzo il sopracciglio sprezzante e lui serra le labbra, stizzito.
«Non ti ho convocata qui per litigare, voglio veramente sapere come sta mia figlia.»
Sbuffo, «Nemmeno io voglio discutere.»
Acconsente soddisfatto, «Ricominciamo?» Mi porge un mignolo in segno di pace, nel nostro segreto segno di ammenda, io alzo gli occhi al cielo, ma non posso fare a meno di sorridere e accettarlo, per poi stringerglielo di rimando.
«Voglio che tu sappia, Nausicaa, che non è mia intenzione accettare alcuna proposta di matrimonio per quanto riguarda Penelope.»
Muovo la testa su e giù per fargli intendere che ho capito.
«Volevo solo testare le vostre reazioni al riguardo e, come al solito, ti sei lasciata offuscare dalla rabbia, figlia mia, e non va bene.»
Incrocio le braccia e mi trattengo dal ribattere, anche se il solito calore, scaturito dalla collera che comincia ad accendersi, inizia ad avvolgermi come un'aura. Nemesi, come se avesse recepito il mio cambiamento d'umore, comincia a muovere la coda impaziente, frustando l'aria.
«Non fraintendermi, adoro la tua passione nel difendere tua sorella e amo il tuo orgoglio, anche se a volte sfocia un po' troppo nell'arroganza.»
Non riesco più a restare in silenzio, sto scoppiando, «Se fossi un uomo, questi difetti, che tu mi hai così gentilmente elencato, sarebbero visti come pregi!»
«Ma non lo sei, figlia mia, e anche se io amo ogni cosa di te, non signific-»
«Non significa cosa? Che questo sia tollerabile?» Punto le mani con forza sulla scrivania, «Oppure che forse dovrei solamente abbassare gli occhi e il capo e imparare ad accettare il mio destino con arrendevolezza femminile, come l'Uno ci ha "insegnato"?!»
Ora, non solo dentro di me divampa la rabbia, ma inizia a dolermi lo stomaco a causa di un malessere che da mentale si tramuta in fisico. Piccole fitte acute al ventre che rischieranno di trasformarsi in coliche nervose.
Mio padre si stringe esausto la fronte, «Non è quello che stavo dicendo, ma questo non significa che tu non abbia delle responsabilità a cui dover assolvere.»
«Sì, certo, vuoi dire accettare il mio destino, sposando un principino e iniziando a mettere al mondo eredi, magari possibilmente maschi? È questo che vuoi dire?»
Papà scuote la testa, «Cosa c'è di male nell'avere figli? Lo sai che prima o poi arriverà il momento, dopotutto sei la mia primogenita.»
Stringo i pugni fino a farmi sbiancare le nocche, «Non ho intenzione di fare la fine della mamma...»
Il gelo si insinua tra noi. I suoi occhi nocciola si fanno lucidi, distanti e lontani, persi in un dolore mai del tutto superato. La corona, d'un tratto, sembra pesargli di più sul capo. Le spalle, di solito sempre dritte, si afflosciano su se stesse.
Ho colpito dritto al cuore e me ne pento immediatamente.
Mia madre Delphina è morta provando a mettere al mondo un erede maschio. Dopo me e Penny era rimasta incinta altre tre volte, per due delle quali aveva subito aborti spontanei. I medici avevano sconsigliato ulteriori tentativi, ma la mamma, forse a causa della pressione sociale, aveva insistito, convinta che avrebbe dato alla luce un maschio. La terza sembrava quella giusta. Mancava ancora un mese alla data presunta del parto, quando qualcosa andò storto. Incominciò il travaglio, ma il bambino non era pronto. Lei perse troppo sangue, lui nacque morto.
Ora però non voglio ricordare quel momento, quegli attimi... No.
Ingoio un improvviso groppo che mi si è formato in gola. Sbatto le ciglia per cacciare le lacrime che tentano di invadere le mie iridi. Inspiro ed espiro per combattere questo senso di soffocamento, per cacciare questi ricordi intrusivi e relegarli in un angolo della mia mente, dove non possono fare male.
Tossisco e mi schiarisco la gola, «Scusami, papà, ho esagerato, non intendevo insinuare che fosse colpa tua.»
Alza una mano per zittirmi, «No, hai ragione, è stata colpa mia. Non avrei dovuto esporla a un così grande pericolo.» Sospira, «Ora va', continueremo questo discorso dopo il ballo, ma, fino ad allora, per favore, rifletti.»
Il suo sguardo si perde di nuovo nel vuoto. Mi alzo a testa bassa, un groviglio di sentimenti inespressi continua a soffocarmi il petto. La colpa è dolorosa e pungente. Il senso di inadeguatezza, che percepisco dentro di me da una vita per essere una figlia problematica, acuisce le fitte allo stomaco.
Eppure non posso fare a meno di essere ciò che sono... ci ho già provato, fallendo miseramente.
Faccio per uscire con Neme, ma poi torno indietro. Supero la scrivania e mi abbasso, buttandogli le braccia al collo. Dapprima non ricambia la stretta, ma poco dopo mi attira a sé, stritolandomi. Il suo profumo familiare di sandalo mi avvolge, mi fa sentire protetta e a casa.
«Tu lo sai, vero, Nausi, che io ti voglio e ti vorrò sempre bene? Qualunque cosa accada? Qualsiasi decisione prenderai o azione compirai?»
Annuisco fra le sue braccia, il respiro ormai mozzato, «Anche io te ne voglio, papà.»
Lentamente ci stacchiamo e io esco dal suo ufficio con Nemesi, diretta nella mia stanza, strizzandomi il naso che ha cominciato a pizzicarmi per aver trattenuto così a lungo le lacrime.
Quando arrivo mi sento ancora demoralizzata. Andromaca però mi ha aspettata, agitata e carica per quello che ci riserverà questa sera, e il suo nervosismo riesce a distrarmi.
Il piano per uscire è semplice. Comunicherò alle guardie stazionate di fronte alla mia camera che andrò a passeggiare e che poi, probabilmente, farò tardi, rimanendo a studiare in biblioteca, ma che non si dovranno preoccupare perché terrò Nemesi vicina. Ormai tutti sanno che apprezzo la solitudine e all'interno delle mura del palazzo non corro pericoli.
An ha portato da casa uno dei suoi vestiti e una mantella scura. L'abito è blu, molto semplice, in cotone. La particolarità delle vesti inferiori è che devono essere indossate senza corsetto, riservato unicamente alle donne Superiori per mettere in risalto la figura. Levarmi questa trappola di dosso non mi dispiace, anzi, direi piuttosto il contrario, soprattutto in una giornata come questa, dove il fianco destro continua a pulsarmi a causa della botta ricevuta.
La mia amica mi aiuta piano a svestirmi, ma, nel momento in cui nota la mia vita, tentenna, «Ma che hai fatto, Nausi?»
Mi avvicino allo specchio per osservarmi meglio.
Là, proprio dove porto tatuato indelebilmente il simbolo della mia casata, oltre il colore rosso fuoco della fenice, emerge la colorazione bluastra della botta. L'uccello sembra quasi rimandarmi uno sguardo di disapprovazione, per averlo in qualche modo deturpato. Io lo odio, ma, forse, odio è una parola troppo forte, troppo definita. In realtà, i miei sentimenti verso di lui sono piuttosto ambivalenti.
Il disegno è un'opera d'arte. La fenice infatti è delineata alla perfezione, il suo sguardo è fiero e le fiamme che si innalzano dalle sue ali spalancate e dalla coda sono maestose. Non è il suo aspetto che detesto, ma il significato che porta. È vero che dovrei essere orgogliosa di portare impresso il simbolo della mia casata, come ogni figlio di reali lo è, e, per un certo verso, lo sono. Quello che mi fa indispettire è il fatto che ai ragazzi venga tatuato a diciotto anni sulla spalla, alle ragazze invece sul fianco, subito dopo l'arrivo del primo menarca; quasi alla stregua del marchio apposto su una vacca da allevamento di importazione aquilaniana. Il segno distintivo per esse serve ad attestarne l'origine e alzarne il prezzo e, per come la vedo io, vale lo stesso per noi. Le nostre vite, i nostri corpi, si riducono a un banale atto di compravendita.
È vietato in tutti i dieci Regni riprodurre sopra la propria pelle il disegno rappresentate una delle casate Reali, solo agli eredi è concesso. Il mio l'ho ottenuto a quattordici anni, Penelope quest'anno. Infine, il figlio maschio, quello designato a diventare Re, per la sua effettiva incoronazione si tatuerà nuovamente il simbolo della sua casata, con l'aggiunta però della corona sul capo e il disegno, questa volta, ricoprirà un'area più vasta, come l'intera schiena o il petto. Lo metterà in mostra di fronte agli invitati, con orgoglio, solo durante la cerimonia. Mio padre all'epoca, per l'occasione, si era fatto ricoprire l'intero addome. Ogni volta che andavamo al lago con la mamma e si concedeva una nuotata, i miei occhi non facevano che essere attratti dallo sguardo di quell'enorme fenice dalle ali spiegate. Il pensiero che un giorno non avrei potuto seguire le sue orme e ottenerla io stessa, mi faceva torcere le budella e desiderare ancora più ardentemente quel simbolo enorme che a me non sarebbe mai spettato.
Sospiro. Se continuo su questa strada dovrò bere qualche infuso per placare le fitte nervose.
«Tranquilla, An, passerà con un po' di pomata, niente di grave.» Mi aiuta a rivestirmi, fermandomi il seno con una fascia stretta e calandomi, da sopra, il vestito. Poi passa a schiarirmi la pelle del viso con della cipria, «Piuttosto, come facciamo a nascondere i miei capelli?»
Lei mi sorride dallo specchio, «Non preoccuparti, mi sono procurata una parrucca scura. Ora ti faccio una treccia bella stretta e non appena saremo fuori dalla mura te la nasconderò sotto ai capelli finti.»
Le sorrido, «Hai proprio pensato a tutto.»
«Mi auguro solo che basterà...»
«Andrà bene,» Le stringo una mano con la mia, «me lo sento.» Lei mi guarda ancora preoccupata, ma annuisce.
Terminati i preparativi, devo ancora assicurarmi di una cosa. Mi avvicino all'armadio e apro l'ultimo cassettone, con l'aiuto di lei sposto degli abiti e alzo il doppio fondo. Nascosti qui, ho una serie di pugnali, non troppo appariscenti, ma ben affilati. Afferro tre cinturini, due li fermo e li inserisco negli avambracci e uno sulla coscia destra, per poi infilare gli stiletti nella relativa custodia. Nessuno si accorgerà o si aspetterà che io sia armata.
Speriamo però di non doverli usare.
Una volta pronte, An se ne va per prima, proprio come avrebbe fatto un qualsiasi altro giorno concluso il suo turno. Io aspetto un po' a raggiungerla, poi con Nemesi mi dirigo verso il giardino. Girovago fra i sentieri, semino qualsiasi persona che incontro, fino a quando giungo in un angolo nascosto dalle fronde degli alberi. È solo il crepuscolo, l'aria rosa del tramonto è chiara, ma le foglie aiutano a proteggermi da sguardi curiosi. Scavalco la cancellata con un po' di fatica, ma fortunatamente senza essere presa dalle vertigini, non essendo molto alta, e finalmente sono fuori. Nemesi, con molta più agilità rispetto alla mia, con due piccoli balzi è a posto.
Mi calo il cappuccio in testa e ci inoltriamo nel bosco. Raggiungiamo la casupola dove mi alleno, controllo che non ci sia nessuno attorno ed entro. Essendo ormai quasi sera, lo spazio è più cupo, le finestre infatti non sono abbastanza grandi per illuminare bene l'interno e i lucernai non funzionano più. Il ring sulla sinistra è quasi inquietante nella penombra.
Andromaca, al centro della stanza, sobbalza, ma non appena si rende conto che siamo noi si riprende, «Ce ne hai messo di tempo.»
«Ho cercato di non dare nell'occhio, ma nessuno si è insospettito.»
Annuisce, «Forza, avvicinati.»
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