R - Sonno
Pubblicazione 13/04/2022
IX
Avevo sempre avuto paura del buio. Associavo la notte al freddo, ai vampiri, al sangue e a quella che credevo sempre più vicina: la morte. Facevano eccezione le notti che trascorrevo con Jake che mi sembravano chiare al suo fianco. Scottavano come il sole a mezzogiorno, facendosi luminose. Ma chiudere gli occhi mi riportava sempre verso un nero artico, una notte di ghiaccio...
Addormentarmi era facile, ma era difficile proseguire quel sonno fatto di paure e insicurezze. Mi svegliavo di soprassalto sognando Volterra, disturbata dai lineamenti aguzzi di Aro o da quelli rotondi di Marcus. L'incubo era sempre lo stesso: sfioravo Aro per raccontargli la mia vita e non appena mi avvicinavo alla sua guancia, mi raggelavo. Il ghiaccio si faceva strada dalle dita alle braccia fino ad arrivare al cuore, fino a morire assiderata. Al freddo artico, seguiva un battito e poi le tenebre.
Il calore di Jake era utile per ricondurmi alla realtà. Avevo il vizio di lasciar correre le mie dita tra il suo sterno e i pettorali per accertarmi che, immersa nella notte, non ci fosse freddo ma caldo.
Jake era il miglior scaccia-incubi che potessi avere. Lui era come una nottata torrida, una d'agosto in un paese tropicale. I suoi sospiri erano afa, scioglievano i miei orrendi e freddi incubi. Il crepuscolo al suo fianco era soleggiato e sereno, scuro come il carbone bollente. Sebbene ringraziassi Jake per quel calore sovrannaturale, il suo sangue, la sua temperatura mi metteva sete.
Mi agitai tra le coperte, assetata e insonne, rimuginando sulle nostre nature, sui miei terrori e sulle visioni di Alice.
Quella mattina mi svegliai alle prime luci dell'alba, non capii se per l'insonnia o per la sete, se per il cambio di letto o per il compagno sotto le lenzuola. Mi alzai, stanca di riflettere sulla temperatura della notte. Sudaticcia, mi scollai a fatica dal suo corpo e lo guardai assonnato abbracciare il cuscino. Gli lasciai teneramente un bacio in fronte, accarezzandolo e regalandogli un bel sogno; gli mostrai le nostre domeniche a Victoria: io, lui e le nostre risate.
La nostra convivenza alternativa aveva avuto inizio da qualche giorno e io, sebbene fossi felice di trascorrere così tanto tempo con lui, non mi ero abituata alla sua piccola stanza, a dormire nel suo letto singolo e a stare in casa con i fratelli Clearwater. Da quando Jake aveva abbandonato il branco di Sam, casa Black era diventata anche casa di Leah e Seth, la sua tribù.
Quei due erano abituati a vedermi ronzare nei dintorni, ma non ad avermi costantemente tra i piedi. Seth era amichevole e molto dolce. Non mi faceva pesare il fatto di essere loro ospite, ma la sorella aveva un atteggiamento affine a quello del fratello maggiore di Margaret. Come lui tendeva a ignorare la mia presenza - se ero fortunata - oppure preferiva deridermi quando, sfatta e in pigiama facevo colazione con Jacob. Lei era il "maschio beta" e io per essere ben accetta avrei dovuto conquistare la sua fiducia.
Era un'impresa impossibile.
Il vice di Jake covava un rancore profondo nei miei confronti che aveva origine dal mio stesso concepimento. Disprezzava la mia natura così diversa, così umana e al tempo stesso vampira. Secondo Jake, la sua diffidenza era giustificata dalla paura del diverso. "È difficile accettare ciò che non si conosce. È solo questione di abitudine." Mi ripeteva Jake per scacciare via la paranoia.
Però, non riuscivo a sentirmi a mio agio in quella specie di convivenza, soprattutto quando mi ritrovavo sola con Jake e Leah. Non riuscivo a togliermi dalla testa i loro sguardi complici, le battute e gli scherzi. Era un'altra cosa a cui non ero abituata ed era qualcosa che avevo ignorato durante la nostra relazione a distanza. C'era qualcosa che mi infastidiva, qualcosa che mi disturbava nel modo in cui Leah guardava Jake e nel modo in cui lui sorvolava sulla sua ritrosia nei miei confronti.
"Solo questione di abitudine." Ripetei a me stessa, rimboccando le coperte al mio licantropo.
Aprii le persiane facendo entrare la luce del giorno che illuminò il pulviscolo: piccoli granelli di polvere lambivano la sua pelle color miele.
Mi fermai a riflettere. Pensai a quale piano poter adottare per quel nuovo giorno a Forks. Meglio nascondermi a casa di Jake e raggiungere gli altri appena si sarebbe svegliato oppure svignarmela il prima possibile per evitare Leah?
Scelsi la seconda. Afferrai il jeans della sera prima e una t-shirt e mi vestii in fretta e furia sgattaiolando via. Saltai giù dalla finestra con lo zaino in spalla. Mi sporcai le sneakers e i polsini dei jeans di fango, dandomi dell'imbranata per aver mandato in fumo l'opportunità di passare inosservata agli occhi dei miei genitori.
Dopo aver sonoramente sbadigliato e provato a ripulirmi, trascurai il mio outfit per raggiungere i miei succhiasangue preferiti e mi incamminai verso casa di nonno Carlisle - dove sapevo che di lì a poco avrebbero cominciato l'allenamento mattutino. Proseguii la mia passeggiata accompagnata dal frinire delle cicale e dall'erba umida. Schivai qualche pozzanghera e arrivai nel giardino dei nonni.
Non trovai nessuno all'ingresso. Il retro invece mi incuriosii per i versi emessi da uno strano animale in letargo. Leonard Winslear: maschio, mezzosangue, carnivoro, altezza 1,96 m, peso 95 kg. Anni? Troppi. Vecchio bisbetico.
Animale che sfortunatamente si era appropriato di uno dei miei tanti nascondigli: la magnolia rosa. Distante dal porticato, era l'unico albero in fiore in primavera e l'unico a essere circondato da arbusti e cespugli. Quello era uno dei tanti regali che Carlisle aveva donato a Esme per festeggiare il loro anniversario di matrimonio. Avevo scelto personalmente il regalo per nonna Esme, selezionandone: la taglia, il colore dei fiori e, cosa più importante, lo avevo piantato nel giardino di casa con l'aiuto di mamma e papà.
Il russo russava sonoramente, poggiato con la schiena sul tronco con la saliva agli angoli della bocca in una posa alquanto discutibile. Sonnecchiava, anzi ronfava, con il cappuccio tirato sulla fronte, un paio di occhiali da sole scuri e un libro sulla testa a mo' di copricapo. Anche il look era bizzarro: jeans blu, felpa nera e delle scarpe in cuoio all'inglese. Era strano, buio, cupo e tenebroso: tutti aggettivi che potevano addirsi al suo aspetto tanto quanto alla sua personalità. O semplicemente uno strafottente e menefreghista mezzosangue dal respiro irregolare, tachicardico e pallido come un vampiro. Era questa l'idea che mi ero fatta del braccio destro di mio nonno.
Indecisa se entrare in casa e ignorarlo o restare lì a guardare, preferii fare quello che sapevo fare meglio: osservare. Optai per l'albero con la panoramica migliore e mi sedetti difronte a lui, sperando di non essere beccata. Da quello stupido esercizio con la sigaretta, mi ero resa conto che c'era qualcosa che non andava in lui, qualcosa di fuori dal comune. Ne avevo parlato con il nonno ma lui era convinto che fosse normale, che si trattasse di variabilità genetica. Quando di genetico non c'era nulla.
Sì aveva ragione nel dire che ognuno di noi è diverso dall'altro a causa del DNA; un po' come quando mescoli le carte, le figure estratte sono casuali così come le nostre caratteristiche corporee; così come le mie lentiggini, gli occhi azzurri di Margaret o il neo di Arthur sul labbro superiore.
Però, quella spiegazione non era plausibile. Se sua sorella non respirava come lui, non tossiva, non si grattava il petto, voleva dire che non era familiarità ma qualcos'altro.
Presi alla svelta un taccuino dallo zaino e iniziai a scrivere di getto quello che vedevo: mani grandi e dita affusolate, piccoli tagli sulle nocche, unghia chiare e piatte, le vene del collo bluastre e la pelle dello stesso colore delle nuvole. Provai a contarne i battiti, a valutarne il respiro, come se potessi ritrarlo. Quanto mi sarebbe piaciuto visitarlo, spogliarlo e sentire i rantoli dei suoi respiri, il ticchettio del suo cuore, l'affanno, guardarne l'incarnato...
Tic toc tic.
Intanto che scrivevo, persa in ipotesi e probabili diagnosi, alzai la testa e me lo ritrovai davanti. Trasalii al pensiero di essere stata scoperta e spezzai la matita che avevo tra le mani.
« Puzzi. » mi disse freddamente, togliendosi la felpa e gettandomela ai piedi.
« Buongiorno... stavo giusto andando... »
Mi alzai per andarmene. Sapevo già che si sarebbe preso gioco di me - come quando mi aveva fumato addosso.
Lui abbassò di poco gli occhiali, mostrandomi il suo occhio buono e poi ordinò: « Mettila. »
Guardandomi dall'alto verso il basso, indicò la garza che avevo sull'avambraccio imbevuta di sangue. Nella mia fuga dai licantropi, avevo riaperto la ferita e il mio sangue lo aveva infastidito fino a svegliarlo. Questo voleva dire che se gli altri non mi avevano sentito arrivare, avevano sicuramente percepito la mia scia. Presi quella felpa e la infilai alla svelta, pensando che sarebbe stato utile per occultare con cura il graffio di Jake all'attenzione millimetrica di mio padre. Sarebbe stato un problema se lo avesse visto o se ci avessi pensato in sua presenza.
Leonard non badò molto a me, mi voltò le spalle per dirigersi verso la porta d'ingresso. Il libro che aveva per copricapo gli cadde dalla tasca e questo mi spinse a stargli dietro.
« Cosa stavi leggendo? » domandai restituendoglielo.
« Grand bal du printemps di Jacques Prèvert. » rispose acciuffando il parasole e avanzando a grandi passi. Era troppo impegnato a essere poco socievole e a sbandierarmi il suo perfetto francese.
Cercai di fare amicizia con lui o almeno di dire qualcosa di carino, pensando che magari avesse qualcosa di simile alla gentilezza di Arthur dato che erano gemelli: « Lo sapevi che Stravinskij ha composto un balletto sulla primavera, si chiama... »
« Le Sacre du printemps. » replicò sbadigliando, aprendomi la porta per darmi la precedenza e procedette verso il regno di nonna Esme: la piccola cucina bianca. Sommersa dal profumo di caffè e in una nuvola di farina, nonna litigava con il suo grembiule sporco di burro e latticello, intanto che mi preparava la colazione. Almeno così credetti, ma quando Leonard prese posto sullo sgabello compresi che non era per me, ma per lui. Lei gli sorrise porgendogli dell'espresso e io mi meravigliai del fatto che mia nonna l'espresso non l'aveva mai preparato a nessuno, eccetto che a lui. Io ero l'unica a mangiare e lei sapeva benissimo che amavo il caffè americano.
« Esme, noi saremmo una coppia perfetta. Non sei stanca di stare con Carlisle? » le disse lui sorseggiando il caffè dalla minuscola tazzina a fiorellini blu, sorridendole e facendole gli occhi dolci.
« Se fumassi meno, ne potremmo riparlare. » si lamentò lei, ricambiando amabilmente e ridendo di quella sfrontata battuta. Forse quella fu la prima volta che vidi quel musone sorridere, oltre che provarci con mia nonna.
« Mi stai chiedendo troppo. Ho trovato un intruso nel tuo giardino. » lieta e per niente sorpresa, nonna Esme mi fece accomodare accanto a lui, lasciandomi un bacio sulla guancia.
« Il solito? » mi chiese, alludendo al latte macchiato, miele e cannella. Negai, non potevo né bere né mangiare qualcosa di caldo. Il calore lungo la gola e il pizzicore zuccherino sulla lingua mi avrebbe ricordato il sangue, in un momento in cui avevo da poco fatto pace con Jake. Quindi ne dovevo stare necessariamente alla larga.
« Devi mangiare. » mi ricordò lei, sfornando i suoi famosissimi buttermilk biscuits, tipici dell'Ohio. Con quel profumino nelle narici ripassai a memoria la ricetta: mezza tazza di burro congelato, farina, lievito, una tazza di latticello e due cucchiai di burro sciolto.
« Quando si raffreddano. Sai che non mi piacciono le cose troppo calde. » le suggerii tranquillizzandola.
« Buon per me. » rispose Leonard, spostando la teglia calda verso di sè e mangiando con smorfie di puro piacere quei dolcetti, mentre sfogliava il suo libro di fotografia.
Fortunatamente Emmett e Jasper si intromisero sghignazzando.
« Buongiorno! » li salutai con gioia e i miei due rumorosi zii ricambiarono calorosamente.
« Quindi, la piccola Nessie è andata via dal nido? » chiese Emmett incredulo, regolando l'altezza del mio sgabello per portarla alla sua.
« Ecco spiegato il motivo del broncio di Edward. » fece eco Jasper, ruotando il mio sgabello nella sua direzione. Ero la cocca di casa e in mia presenza non facevano altro che concentrarsi su di me.
« Papà non sembrava averla presa male. » replicai. In fin dei conti mio padre non aveva detto nulla, si era limitato ad accettare quello che già sapeva da tempo, che sarei stata con Jake per l'eternità.
« Infatti, sono io ad averla presa nel peggior modo possibile! » alle mie spalle sbucò Rosalie con due braccia aperte pronte ad accogliermi.
« Dove sono gli altri? » domandai, abbracciandola.
« Maggie sta dormendo sonoramente nella mia stanza. Arthur, Edward e Bella sono a caccia. » brontolò zio Emmett annoiato.
« Come mai boscaiolo? » chiesi a Emmett che aveva fatto il suo ingresso sfoggiando una canotta bianca e una camicia a quadri rossa.
« Ordini dell'imperatore Carlisle e del generale Leonard oppure del gusto di Alice. Per fortuna le sono sfuggito. » scherzò Jasper facendomi l'occhiolino.
« Sei riuscita a conquistare la sigaretta vincente? » disse canzonatorio e sempre più sorridente Emmett, adocchiando Leonard che ignorava tutti i presenti - Esme esclusa, ovviamente.
« Certo! Tutto merito di Jacob. Abbiamo passato tutto il pomeriggio ad allenarci. » dissi, quasi infastidita dalla poca fiducia nelle mie abilità ma quello fu dell'ottimo materiale per poter scherzare sul mio fidanzato.
« Allenarvi sotto le coperte non è un vero allenamento. » scherzò e scoppiò in una fragorosa risata. Rosalie vedendo il mio imbarazzo gli diede uno schiaffo che lo fece indietreggiare di qualche centimetro rigando il parquet. Pregai, sperai con tutta me stessa che a quell'accozzaglia di vampiri non si aggiungesse anche mio padre.
Non servì a nulla. Mio padre varcò l'uscio pulendosi le scarpe sul tappetino con un sorrisetto furbo. Aveva sentito tutto.
"È divertente." Mi rispose mentalmente con nonchalance - come se non fosse appena entrato nei miei pensieri. Odiavo quanta poca privacy potessi avere nella mia stessa mente. Era come avere una stanza con una porta chiusa a chiave a tutti tranne che a lui. Per questo motivo quando c'era mia madre le chiedevo sempre di oscurare la mia "stanza" mentale, rendendola più buia per far sì che mio padre non ci trovasse niente.
"È imbarazzante, papà."
« Avrete modo di scazzottarvi fuori di qui. » Alice sgridò Rose ed Emmett guardandoli di sottecchi.
Nel frattempo, mentre tutti rumoreggiavano su chi dovesse sfidare chi, Carlisle si avvicinò a Leonard stringendogli la spalla e gli chiese: « La porta? » lui prese un tovagliolo e una penna, dove disegnò uno schizzo, inserendo altezza e larghezza di un grande portone. Non appena accorciai la distanza tra me e lui per dare un'occhiata - scorbutico com'era - tirò il tovagliolo verso di sé schivando la mia curiosità.
« Sarà un gioco da ragazzi abbatterla. » riprese Emmett, sbirciando.
« Se non fosse per Jane e Alec. » rispose freddamente il generale, diede il tovagliolo a Jasper e si allontanò seguendo l'imperatore.
Ispirazione: parasonnie, disturbi del sonno che possono manifestarsi prima o durante il sonno oppure dopo il risveglio. Di questa categoria fanno parte movimenti inconsulti delle braccia e delle gambe, sonnambulismo o fenomeni come bruxismo, apnea o russamento. Più semplicemente anche gli incubi, i terrori notturni o i sogni sono parasonnie che possono o meno determinare variazioni della frequenza cardiaca, aumento della sudorazione o del respiro.
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