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Autunno

Pubblicazione 12/03/2022

II


Renesmee concluse la sua giornata lavorativa motivata a rimettersi sui libri una volta tornata a casa. Le mancava davvero poco per poter completare il Medical Residency Program.

Era un giorno d'autunno come un altro, un pomeriggio stranamente tiepido e uggioso. In sella alla sua bici, ripensava alla teatralità di Margaret nell'inscenare il piagnisteo finale, l'apice del suo spettacolo teatrale. Sfrecciava tra isolati, vie e vicoli, moderando i chilometri - che avrebbe potuto fare alla svelta - in metri. Per farlo, frenava o metteva un piede a terra. A volte la noia aveva il sopravvento e sterzava, gareggiando in velocità con i fattorini in mountain bike. Se avesse potuto utilizzare appieno la sua velocità, sarebbe stato più semplice evitare pozzanghere e acqua di guidatori troppo distratti. Sgommava, saettava, zigzagando tra fanali e clacson fastidiosi che disturbavano le note di Debussy nei suoi auricolari. Pedalare era un modo per farsi abbracciare dall'esplosione del foliage canadese, uno spettacolo rilassante e rassicurante. Passando tra i parchi fiammeggianti svettavano: aceri, frassini, querce, tigli, faggi e betulle dai colori caldi, dalle mille tonalità di rosso, arancione e giallo. Al quartetto d'archi si alzava sui pedali scaricando il peso sul manubrio, illuminata dalle luci fioche dei lampioni. Quello era il suo saluto al sole che abbracciava l'orizzonte fatto d'asfalto.

Quella piacevole passeggiata terminò quando raggiunse il suo isolato. C'era qualcuno di sospetto davanti al suo portone di casa. In ordine vide: due grandi stivali antipioggia sui gradini scalciare delle lattine vuote, seguiti da un grande giaccone nero in un uomo con il volto coperto da un cappuccio e un borsone in pelle stretto tra le mani. Indecisa se fosse un tipo alquanto discutibile, un vagabondo o un mendicante, parcheggiò la bicicletta nella rastrelliera, inserendo un lucchetto e portando quel dubbio con sè.

Si avvicinò cautamente al portone di casa ed esitante sull'affidabilità dello straniero decise di farsi coraggio. Gli si parò davanti e dall'alto verso il basso lo squadrò rimproverandolo con voce stridula: « Questa è proprietà privata, permette? » facendogli cenno di spostarsi.

Lo straniero si alzò, tolse il cappuccio. Si mise una mano tra i capelli spostando qualche goccia d'acqua qua e là e porgendole l'altra mano, si presentò « Sono Leonard. »

Era prevedibile che fosse lui: stessi riccioli biondi indisciplinati. Una benda in cuoio nascondeva un occhio, mentre quello in vista era più tendente al ceruleo rispetto a quello della sorella.

Lei gli strinse energicamente la mano ma il rossore delle sue gote la tradì: « Scusami, conciato in quel modo non ti avevo riconosciuto. »

« Non ti ricordavo così fastidiosa. Ti ricordavo più nanerottola. » le mise una mano sulla testa, valutando quanto fosse più bassa rispetto a lui. Lei affondò le mani dentro le tasche del cappotto beige e, ripensando alla figuraccia, biascicò qualcosa per invitarlo dentro.

Dopo aver quasi scassinato la serratura, forzando la chiave, i due si spazientirono a vicenda. Da un lato, Renesmee non sapeva dell'arrivo del fratello di Maggie, dall'altro lato Leonard detestava le perdite di tempo e aspettare la sorella in quella catapecchia lo era.

Varcando la porta di casa, entrò gocciolando sul pavimento, borbottando: « Vivete in un buco. Credevo che i soldi dati a Maggie fossero abbastanza. »

Poi passò alla critica della cucina moderna e del soggiorno open space, troppo angusto per i suoi canoni architettonici. L'appartamento delle ragazze era un trilocale piccolo ma confortevole: una cucina con penisola in noce, un sofà giallo canarino a due posti, uno schermo piatto, una libreria ad angolo, due camere da letto e un bagno.

« Per noi è abbastanza. Bagnare il nostro parquet è un modo per dissentire sul destino delle tue finanze? » ribatté seccamente. Lui fece una smorfia e lei gli indicò il bagno.

Aveva pochi ricordi di quel ragazzo, la maggior parte dei quali sbiaditi come vecchie fotografie. Raramente raggiungeva Forks per prendere o lasciare la sorella minore. Di solito Arthur, più empatico e meno schivo, passava di lì. Per lei, lui era sempre stato un'ombra e lo considerò come tale anche quando tolse i grossi scarponi per chiudersi la porta del bagno dietro di sè.

Anche Leonard credette di vedere un'ombra nel momento in cui si guardò allo specchio. Il suo riflesso gli apparì come una sagoma con indosso una maschera di cera. Credeva che quel corpo malconcio non lo rappresentasse più come un tempo - e che quel tempo beffardo non fosse più suo amico.

Il viso aveva dei lineamenti duri. Mascella ben definita e squadrata, linea e angolo mandibolare enfatizzati lo rendevano più virile, mentre il colorito spento e le occhiaie gli conferivano un'aria minacciosa. La benda celava un occhio diverso dal suo gemello, indice della sua duplice natura. Sfiorò gli zigomi e vedendoli aguzzi li premette con forza, provando a smussarne i bordi. Tastò le labbra screpolate, le inumidì per ammorbidirle ma niente da fare. Non riuscendo a compiere una metamorfosi tanto sperata, fece quello che sapeva fare meglio: andare lontano. Da esperto viaggiatore sapeva come - e soprattuto dove - camuffare anima e corpo. Si allontanò dalla sua figura, ricacciandola nel continente dell'angoscia. Lo fece tirando giù i riccioli e schiacciandoli uno a uno sulla fronte. Ma quelli non volevano proprio saperne: più li tirava giù, più se ne stavano su. Era disgustato dal suo sguardo animalesco, che direzionò prima sui suoi occhi poi sul suo petto, incarnazione e presagio di morte, e infine verso la t-shirt nera. Se la tolse, gettando via un'altra maschera: una garza che celava un lungo solco da cui fuoriusciva una sostanza nera e viscida. Fino a qualche settimana prima l'andamento della ferita era obliquo, estendendosi lungo il pettorale sinistro. Mentre adesso aveva cambiato percorso: si era portato verso il basso, ricoprendo quasi tutto il torace.

Non ce l'avrebbe fatta, lo sapeva da tempo.

Era abituato agli addii e dire addio a sè stesso non sarebbe stato un problema. Il problema sarebbe stato mettere un po' di ordine nella sua vita prima della sua dipartita.
Finì di svestirsi, mise la maglia a mo' di tenda per occultare alla sua vista quell'orrendo mostro e spense la luce per farsi carezzare dall'acqua calda della doccia. Immaginava che l'acqua potesse purificarlo dalle sue malefatte, un'estrema unzione prima di dire addio all'eternità.

Li aveva contati gli ultimi giorni della sua vita: 173 giorni, 2 ore, 16 minuti e 3 secondi.

Aveva iniziato a contarli dalla chiamata di Carlisle. Una chiamata che era arrivata come un fulmine a ciel sereno, che lo aveva destato dal torpore della sua malattia cronica.

Da abile camaleonte aveva sempre eccelso nel passare inosservato, sottraendosi agli sguardi indiscreti di prede e predatori per poter compiere al meglio il suo lavoro di Cacciatore. Perciò, il fatto che Carlisle si fosse premurato a tal punto da rintracciarlo, poteva significare due cose: aveva ricevuto il suo stesso invito all'Iniziazione e aveva un disperato bisogno del suo aiuto.

Quel giorno, Leonard si era aggirato tra le rotaie della Old City Hall, la stazione abbandonata della metro di New York. Era stato sulle tracce di uno come tanti altri, uno di quelli che aveva avuto la geniale idea di crearsi un esercito tutto suo, fatto di vampiri neonati e potere. Era stato un gioco da ragazzi acciuffarlo. La taglia più semplice che avesse mai riscattato.

Il vampiro, non era stato molto sveglio e, preso dalla frenesia del sangue, aveva lasciato dietro di sè tanti indizi: dalle macchie di sangue alle urla delle vittime. Attaccare i turisti era un vecchio trucco - quella strategia l'avevano inventata i Volturi. Per giunta, farlo nei sotterranei peccava di fantasia: troppo banale e scontato. Tra le gallerie, i lucernari a volta e le curve aggraziate, lo aveva agguantato mentre stava consumando una donna. Al suo sguardo, il carnefice aveva perso la testa e il cuore della vittima si era fermato. Quella testa mozzata aveva saltellato da un binario all'altro, fissandolo con sguardo truce. Gli era sembrato grottescamente divertente e ne aveva riso di gusto.

Aveva preso l'accendino, dato fuoco ai resti e si era acceso una sigaretta, soddisfatto di averci impiegato così poco tempo.

Lo squillo del telefono aveva interrotto la sua routine lavorativa e, infastidito dall'eco prodotto nelle gallerie, aveva risposto grugnendo. Il dottor Cullen, lapidario al telefono, gli aveva rivolto solo una parola, « Protettorato. », e Leonard aveva capito subito cosa Carlisle gli stesse proponendo.

Il protettorato era una delle più antiche forme di protezione presenti nel mondo dei vampiri. Non era la prima volta che i Cullen ne facevano uso. Erano stati così pazzi da avviare missioni di protezione per Bella contro Victoria, James e perfino contro i Volturi. Però stavolta era diverso: Bella era un'umana che prima o poi sarebbe diventata un vampiro; Renesmee era condannata a essere una mezzosangue per l'eternità, quindi una preda per l'eternità.

Si era soliti stipulare un contratto del genere per vari motivi: avere la prerogativa su una preda umana, per mantenerla in vita in attesa della trasformazione; come forma di scambio, i vampiri maschi scambiavano le loro prede femminili, l'una in cambio dell'altra per appagare sete e sesso; per la scelta dell'appezzamento di terreno dove edificare il proprio clan o cacciare liberamente. Quell'insolita richiesta, lo aveva incuriosito a tal punto da andare di persona a Forks per capire che cosa avesse in mente quell'ex Volturo.

Carlisle, il padre di tutti i giovani Cullen, non aveva usato mezzi termini.

« Ogni rito di Iniziazione ha un costo. Non vogliamo che Renesmee diventi una vittima sacrificale. Sono sicuro che non vuoi lo stesso per Margaret. »

Leonard aveva firmato l'accordo senza pensarci troppo. Sarebbe stato eroico andarsene in quel modo ed era anche un buon modo per ottenere qualcosa in cambio: assicurarsi l'aiuto di un clan amico dopo la sua scomparsa.

In quei giorni, si era chiesto cosa fare prima di morire: cosa dire, come muoversi. Poi aveva rinunciato. Meglio far finta di niente.
Immerso nel suo tempo, portò la schiena verso le piastrelle azzurrine e scivolò fino a ritrovarsi accovacciato ad abbozzare gli ultimi momenti con Margaret e Arthur. Doveva continuare a comportarsi come aveva sempre fatto, non doveva né poteva dare nell'occhio. Per loro, sarebbe stato più semplice ritenere la sua morte come lo spontaneo sacrificio di un martire piuttosto che un comune accordo tra parti.

In attesa della sua stravagante coinquilina, Renesmee aveva sparso sul piano colazione dei manuali per sfruttare quel tempo morto. Mise il bollitore sul fornello, matita tra le mani ed era pronta a immergersi sui libri. O almeno, lo sarebbe stata.

Sarebbe andata così se un picchettio di suoni lievi e secchi non l'avesse disturbata. Controllò le finestre credendo che stessero sbattendo per il vento. D'un tratto si rese conto che era il suo udito ad aver captato quel rumore. Origliò dalla porta del bagno ed era tachicardia: era un rumore assordante, un bussare sul torace. Lo distingueva chiaramente dal croscio dell'acqua.

Interrotta dal fischio del bollitore si rimise al suo posto, spezzando la punta della matita sul pannello bianco del piano cottura. Ipotizzò quale potesse essere la causa di quel rullare di tamburi e la più plausibile le sembrò il nervosismo. In fondo anche i mezzosangue come gli umani potevano provare emozioni.

Infatti, quando se lo ritrovò alla finestra, lo ignorò finché: « Posso? » chiese lui agitando un pacco di sigarette e gliene offrì una subitamente rifiutata. Lei gli spalancò la finestra e il ragazzo si affacciò, fumando su palazzi troppo alti e disegnandovi sopra aureole, cerchi e nuvole grigie. Nell'altra mano con il suo orologio da tasca teneva traccia di quanto tempo mancasse per l'arrivo della sorella.

Però, alla ragazza non tornava quello stato d'ansia, il pallore, la benda, gli abiti scuri. Quindi, continuò a spiarlo, nascondendosi tra casi clinici sui quali non riusciva nemmeno a concentrarsi.

Leonard, accortosi di essere osservato, spostò la sua attenzione verso un nuovo calcolo, considerando quanti minuti ci volessero per smettere di essere oggetto delle sue sfacciate attenzioni. Irritato dopo qualche minuto di troppo, sbottò: « È maleducazione fissare. »

Quell'operazione di spionaggio fu bloccata sul nascere. Per non dare nell'occhio Renesmee finse naturalezza porgendogli una tazza di tè.

"Viso pallido." si lamentò lei tra sè e sè, paragonandolo a Jacob.

"Troppe lentiggini." chiarì a sè stesso tra un tiro e l'altro. Imperfezioni permanenti rispetto alla pelle di diamanti degli immortali. Lui prese la tazza e ci versò dentro della vodka da una fiaschetta argentata. Imitando lo stesso gesto di prima provò a offrirle il contenuto, da cui ne trasse un altro rifiuto.

« Voi Winslear siete degli alcolizzati. » disse stizzita.

« Meglio che astemi, come voi Cullen. »

Fortunatamente l'astio fra i due fu placato. Dopo aver rincasato Margaret era più vivace del solito: « Nessie, non hai idea! Me ne sono sbarazzata, finalmente! Stasera si festeggia, il mio stop inizia a partire da domani... »

« Sbarazzata di cosa? » chiese il fratello esaminandola dalla testa ai piedi; o per meglio dire "di chi" pensò Renesmee.

Con le mani nel sacco, acchiappò il fratello per abbracciarlo e nel frattempo gesticolò portando un indice alla bocca per sincerarsi del silenzio della sua complice.

« Solnɨshka majo. » le disse Leonard stringendola a sè e alzandola di qualche centimetro da terra. Quel semplice gesto emozionò Margaret tanto da farla piangere di gioia: lo baciava e lo abbracciava, si ritraeva per guardargli il volto e poi riprendeva ad abbracciarlo.

« Non mi piace il tuo viso, fratellone. »

Quei due non si vedevano dall'ultimo compleanno della sorella. Era trascorso quasi un anno. Un anno in cui i due non avevano mai smesso di pensarsi o cercarsi. Leonard non tornava mai a mani vuote dalla sua sorellina. Se da piccola la ricopriva di giocattoli, da grande faceva lo stesso.
« Cosa mi hai portato stavolta? »

Dal suo grande borsone prese delle tele avvolte con cura. Quando le srotolò e riconobbe dei Capricci restò a bocca aperta. Un regalo perfetto per una che era caos allo stato puro. Rimase imbambolata davanti a quell'accozzaglia di colori, informando la sua coinquilina di quanto fossero pregiati e antichi.
« Non capirò mai cosa ci trovi di così tanto straordinario nell'arte! » ribatté Renesmee annoiata.
« Una donna di scienza come te non può capire, Nessie. » la canzonò Maggie.
« Nessie? Cos'è il mostro di Loch Ness?» chiese stranito Leonard.
« È il diminutivo che le ha affibbiato quel cagnolino del suo ragazzo. » gli spiegò la sorella in una grossa risata.

La gelosia di Jacob non andava a nozze con il carattere lunatico di Margaret. Lui la considerava una lucciola con qualche rotella fuori posto da cui Renesmee doveva tenersi alla larga; lei lo considerava un invadente lupo mannaro e l'imprinting un morboso attaccamento. Eppure, i due rivali erano accomunati dall'affetto per la rossa.
« Nessie è sicuramente meglio di quel nomignolo russo. » rispose a tono alzando gli occhi al cielo.
« Solnɨshka majo vuol dire "sole mio". Molto meglio rispetto alla "leggenda degli abissi". Si unisce a noi il tuo lupacchiotto? » replicò la bionda.
« Non oggi. Ci vediamo domani per passare il fine settimana assieme. »
« Leo, devi sapere che Nessie sta con un licantropo che le sbava dietro da anni. Lui è il suo cagnolino. Lei è il suo osso. » disse Maggie gesticolando teatralmente e rivolgendosi al fratello sghignazzando.
« De gustibus! Ognuno ha diritto ad avere i suoi, per quanto strani possano sembrare ad altri. » le rispose lui con complicità, fingendo di sussurrarlo all'orecchio.
« Jacob è anche un uomo. E non so cosa sapete voi ma non è un lupo mannaro che si trasforma nelle notti di plenilunio! »

Renesmee arrossì ma poi sorrise anche lei, pensando a come quell'amica potesse essere tanto solare da sciogliere il ghiaccio anche tra quei due.

Solnɨshka majo1: sole mio.

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