Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

46. Da morirne

«Adrien», la mia voce è un'ansimo incrinato, fragile e in procinto di spezzarsi. Non ho il coraggio di distogliere il mio sguardo dal suo. Ho una tremenda paura che quando lo farò crollerà tutto il mio mondo. E io non ne posso più di crollare.
Se c'è una metà di me che mi giura che siamo stati noi due per mesi e infiniti secondi, l'altra urla di scappare. Solo scappare, e correre via da realtà. Perché adesso ho paura della realtà.
Adrien è spietatamente bello. Il freddo di novembre punge la pelle, arrossandogli leggermente labbra e naso, muovendo con una brezza gentile i capelli biondi e raschiando le gote. Lo sguardo che mi rivolge mi uccide lentamente. Mi sento nel posto sbagliato al momento sbagliato, mi sento minuscola e troppo ingombrante al tempo stesso, e ho paura di qualunque cosa.
Lui non proferisce parola; mi volta le spalle e comincia a camminare in direzione opposta. Le spalle ampie e dal taglio dritto, coperte dal chiodo di pelle si allontanano, sparendo tra la folla. Mi muovo senza neanche pensare, correndo tra le persone, arrancando con il fiato contro e il freddo che mi pizzica fino alle ossa.
«Adrien, aspetta!». Non riconosco neanche la mi voce soffocata e incrinata, tanto supplichevole da farmi tremare. Mi piazzo davanti a lui, aggrappandomi al bavero della sua giacca, respirando affannosamente, invasa dal panico.
«Ma che ti è successo? Sei sparito». Mi trema il mento mentre affondo le dita nella pelle nera, investita da un vento crudele che mi gela da capo a piedi.
Adrien mi guarda per un'attimo con occhi veri, prima di chiudersi in quella botte di ferro che è la sua indifferenza. La stessa che mi ha riservato per tanto tempo. Mi scruta per un'attimo come se non volesse fare altro che stare con me, poi si lascia sfuggire un frammento di paura e dolore, e infine mi chiude fuori. Mi taglia fuori da tutto. Non è più il mio Adrien ora.
«È finita» pronuncia con voce dura. «È tutto finito».
Mi si secca la gola mente premo le dita sul tessuto e combatto per rimanere in piedi. Mi tremano le gambe, le mani, il mento e il cuore. E fa tanto male.
Perché posso fraintendere le parole, ma non gli sguardi.
«Cos'è successo? T-tu non diresti mai così se non-»
«Non facciamola lunga, Amanda. Sei stata un bel passatempo, ma non funziona, lo sai»
Un bel passatempo.
«Adrien...»
«Non farne un dramma, non sei più una bambina. Addio». La sua voce è una lama di ghiaccio che mi taglia a metà. Non ho neanche il coraggio di ripensare alle sue parole. Mi prende i polsi con mani delicate, li stacca dalla sua giacca e mi oltrepassa, provando di nuovo a andarsene.
Io mi volto di scatto, con la pelle sferzata dalla brezza gelida e il cuore che minaccia di spezzarsi come una lastra di ghiaccio.
«Adrien!» urlo di nuovo, pregando che si fermi e mi dica che è tutto uno scherzo. Eppure, le sue spalle non si fermano, i piedi camminano e la nuca su cui ho posato tanti baci è sempre più lontana.
«Noi...eravamo felici! Io-» ti amo, con tutta me stessa, con ogni briciola e ogni insicurezza. Ti amo al punto che mi sono fidata, e ora non voglio crollare di nuovo. Io voglio solo fidarmi di te, chiudere gli occhi, dirti che ti amo e sapere che ci sei. Io voglio te.
La mi voce si incrina quando si volta a guardami di nuovo, e mi interrompe prima che possa denudarmi del tutto del mio orgoglio.
«Noi non siamo mai stati nulla! Io ti odio, ti odio! E tu, tu dovresti odiarmi nello stesso modo! Odiami, Amanda. Odiami e basta, finché ne sei in grado», e adesso è una supplica. Una supplica dolce e zuccherata, amara come il fiele dopo il primo morso, dolorosa come un veleno.
Mi implora con gli occhi di respingerlo come sta facendo lui con me, ma non ci riesco.
Sono troppo debole, e continuo a ripetermelo, sono troppo debole. O forse, è che ti amo troppo.

«Io non ne sono già più in grado» sussurro con gli occhi appannati e un groppo di saliva in gola. Pensavo non mi sentisse, eppure il suo sguardo cambia nonostante i metri che ci separano. Si fa più disperato, unicamente irato.
Mi guarda un'ultima volta, prima di voltarsi e andarsene in fretta. E io non ho più la forza di combattere. Crollo in ginocchio sui sanpietrini gelidi, coprendomi il viso con le mani per trattenere le lacrime che mi rigano le guance. Singhiozzo senza riuscire a trattenermi, con i cocci del mio cuore che scivolano via, persi senza l'unica certezza che mi sembrava di avere. Avrei voluto avere il coraggio di dirglielo. Guardarlo negli occhi e dire "ti amo" prima che se ne andasse, prima che mi lasciasse sola con le mie paure. Avrei voluto dirlo e sapere di farlo stare un po' meglio, tagliare i ponti che ci separano e prosciugare gli oceani che ci tengono lontani ora. Oceani che ha costruito lui, in un attimo breve e doloroso. E così, prima che se ne andasse per quello che mi sembra un per sempre, avrei voluto sapere se mi ha amata anche lui per un'istante.
Ora mi sento sola anche in mezzo a una folla, sanguinante e abituata ad amare senza neanche rendermene conto. Fa male, fa così male che mi sembra di essere stretta tra spine e chiodi. Io ho bisogno di lui, di potermi fidare e vederlo, di incontrare i suoi occhi dolci e sentirlo chiamarmi cheriè. Ero abituata ad essere amata da lui, tanto che ora non credo di poter vivere diversamente. Perché anche io mi ero abituata ad amarlo. Eppure lui ora non c'è a tirarmi fuori dai guai, a trascinarmi più in basso, dove nessuno ha il coraggio di arrivare senza paura, solo io e lui.
Sono in ginocchio davanti a quello che mi sembra un'enorme errore, uno sbaglio che non voglio rimpiangere. E vorrei che le braccia che mi tirano in piedi e le mani che mi stringono le spalle fossero le sue; vorrei che fosse la sua voce a chiedermi cosa succede, perché l'accento francese c'è, ma non l'intonazione dolce e il bel timbro basso.
«Amanda, ma che fai a terra? Stai bene?», Jacques mi tira in piedi, tenendomi stretta per impedirmi di cadere di nuovo a terra. Io mi aggrappo alle sue spalle, stringendo le labbra per soffocare i singhiozzi.
«A-adrien» è il mio lamento soffocato, prima che il suo sguardo si sciolga in un mare di dispiacere e mi posi una mano sulla nuca, attraendomi a sé per abbracciarmi. Mi stringo a lui, piangendo senza ritegno contro la sua giacca di jeans, singhiozzando e accartocciando tra le dita il tessuto freddo. Rimaniamo così per interminabili secondi, tra i turisti e la fontana, in piedi sotto un cielo nuvoloso. Il profumo Allure di Jacques mi avvolge, facendomi rimpiangere ancora di più quello dolce di Adrien. E Adrien nella mia testa ora, suona come un peccato. Come uno sbaglio, che però rifarei mille volte ancora. E adesso che soffro, sono quasi felice di aver avuto cinque giorni a Parigi da portarmi dietro per tutta la vita e mesi in laboratorio con lui.
Mi dispero tra le braccia di Jacques per chissà quanto tempo, riuscendo a pensare solo al mio dolore, frustrata dalle parole di conforto che mi mormora, parole che non ci dovrebbero essere e invece sono costretta ad ascoltare. Ho sempre odiato le parole così; sono il preludio di qualcosa che bisogna affrontare da soli, delle scuse per i momenti in cui gli altri non potranno esserci e per emozioni che non possono capire. Sono perfino gelosa della me del passato. Vorrei ricominciare in quel supermercato, tra pacchetti di zucchero e commessi scorbutici. E vorrei far cadere l'intero supermercato, rispondergli male e fargli il dito medio davanti all'intero quartiere. E invece piango, singhiozzo e crollo tra le braccia di Jacques. Dopo chissà quanto riesce a portarmi in un bar per farmi sciacquare il viso e farmi bere un bicchiere d'acqua. Non mi sono mai accorta di quanto possa essere gentile. Non mi chiede nulla, eppure sembra capire ogni mia lacrima. Mi porta una spremuta d'arancia e un muffin al cioccolato al tavolino davanti alla vetrata che dà sulla strada, rischiando di rovesciare tutto da un'istante all'altro.

«Stavo per essere gambizzato dal barista quando gli ho chiesto un cappuccino a quest'ora» commenta quando mi posa davanti il bicchiere di succo, strappandomi un sorriso.
Non riesco comunque a proferire parola, bevendo in silenzio, con un macigno che mi schiaccia il cuore e la testa. Sono scossa continuamente da brividi e singhiozzi, tanto che il francese mi posa la sua giacca sulle spalle e uno dei plaid dati in dotazione dal bar sulle cosce. Dopo il succo mi fa portare un tè e prova a distrarmi, variando da argomenti come le facciate dei palazzi, fino alle Gocciole che sono in sconto alla Conad. Le prova davvero tutte. Assaggia (e mi fa assaggiare) l'intero assortimento di biscotti e dolci del bar, ordina sette volte un cappuccino senza successo, mi fa guardare dei video di gatti divertenti, rischia una rissa con un ragazzo che continuava a urtare con la gamba, rompe una sedia (per sbaglio), e nel tentativo di trangugiare un tè con tre cannucce rischia di strozzarsi. Io intanto, rimango nelle mie condizioni vegetali, azzardando ogni tanto un sorriso o una mezza risata. Alla fine, quando fuori si è già fatto buio e davanti a noi albergano un'infinità di piatti, sospira e si abbandona contro la sedia.
«Adesso ti recconto una cosa, anche se non te ne frega nulla» mi dice distorcendo qualche lettera con l'accento francese marcato. «Sono un coglione, come già sai. In qualità di questa mia caratteristica, a ventun anni mi sono innamorato. Sì, sei un'idiota anche tu, se è questo che pensi. Insomma, trascorro sei mesi in agonia con questa stronza, mi innamoro follemente, e poi una mattina ricevo una chiamata. Era la vigilia di Natale, e la sera prima avevo parlato fino a tardi con lei, Josephine. Avevo trattenuto quelle due parole da coglione patentato perché mi vergognavo di dirle che l'amavo da quando mi aveva rovesciato la coca-cola in testa il primo giorno che ci eravamo visti» ridacchia un po', confortato dal mio mezzo sorriso, poi si rabbuia. «Al telefono era la polizia. Josephine è stata trovata senza vita nel suo letto, in seguito a un'infarto fulminante». Jacques distoglie lo sguardo, picchiettando le dita intorno a un bicchiere di vetro. «Questo per dirti che l'amore fa male, sempre. Fa male quando non ne hai e quando ne hai troppo. Fa male quando lo perdi e quando lo vuoi, ti distrugge, ti mortifica e ti porta a dubitare di te stesso, eppure alla fine ci cadiamo tutti. Non sono qui per dirti di dimenticare chi ami, né di continuare ad amare qualcuno che non ti vuole. Solo che è normale stare come stai tu adesso. È normale sentirsi persi e voler morire con lei, è normale desiderare di addormentarsi e non voler svegliarsi più, e soprattutto, lo è essere innamorati fino alla follia. È normale morire e rinascere, e non ci si fa mai l'abitudine. Ed è normale amare. Amare ci rende vivi, e non devi pentirti di esserti lasciata andare perché poi sei stata delusa. Vuol dire che saprai come rialzarti, non più in fretta e non meglio, ma come. E nel caso ti sentissi giù, fammi uno squillo e ti porto a vedere i film muti francesi, così ti fai quattro risate» scrolla le spalle con noncuranza e accenna un sorriso, ordinando l'ennesimo chinotto.
«Jacques» lo chiamo, invasa dalla consapevolezza di non essere poi così sola. «La amavi tanto?»
«Da morirne. Eppure sono ancora qui, purtroppo o per fortuna» sospira lui. «Ma ho imparato ad amarla da lontano, a riconoscere di poter andare avanti e a ricordarla senza tristezza. Amare non è sbagliato, neanche se si perde l'altro capo del filo. Amare è per tutti, per morti e vivi, per coraggiosi e vigliacchi. Per te, e per me, anche se siamo rimasti bruciati. Ce la faremo. È un po' come la vostra maturità, no?».

Forse sì, forse no, Jacques.
Io sono bruciata, ma non sono sicura di voler guarire da Adrien. E lo so anche quando mi ritrovo a stringere la sua felpa nera, quella che mi è rimasta dal giorno in cui ha aiutato Edoardo e abbiamo litigato. E vorrei tanto aver solo litigato con lui. Provo a chiamarlo nel cuore della notte, ma il cellulare è staccato. Idem per Edoardo. Il mattino dopo chiedo a Grace se ha sentito mio fratello, ma lei non gli parla da domenica.
Sono scomparsi, entrambi. E Adrien s'è portato via anche il mio cuore.
Mi prendo un paio di giorni di vacanza da lavoro, passandoli nel letto a piangere davanti a film comici, incapace di staccare la testa da quello che è successo. Edoardo continua a non rispondermi, e ogni volta che passo davanti a casa di Adrien una morsa mi stringe il cuore. Il parco di Colle Oppio ormai è off-limits. Insieme a Piazza Venezia, Castel Sant'Angelo, il supermercato, The Race Club, il Colosseo, e mille altri posti. Mi viene il voltastomaco ogni volta che vedo dello zucchero o del miele, e rischio seriamente di svenire quando torno in laboratorio e apprendo che Adrien si è licenziato in tronco. Inutile dire che provo a chiamarlo ancora, ma sembra essere scomparso dal mondo.

È irraggiungibile, un po' come non piangere per me per ventiquattr'ore consecutive.
È più i giorni passano, più io mi sento peggio.
Sono distrutta. Dopo una settimana ho perso cinque chili e le mie occhiaie fanno invidia ai Fori Romani. Grace, preoccupata per Edoardo tanto quanto me, vacilla tra l'idea di farlo arrestare chiamando la polizia, e andarlo a cercare di nuovo a San Basilio. Io intanto, non passo ora senza pensare a Adrien. Jacques forse aveva ragione, ma fatto sta che può essere si sia pentito di non avermi lasciata a terra, visto che le nostre telefonate non avvengono mai prima delle tre del mattino, quando lui già dorme e io sono in piena crisi. Mi sveglio nel cuore della notte dopo aver sognato di riabbracciare Adrien, di averlo vicino e inspirare il suo profumo ancora una volta. Spero di poter stare di nuovo tra le sue braccia e sentirmi l'unica donna al mondo, di baciare ancora le sue labbra e poter affondare le dita nei suoi capelli biondi.
Jacques però, risponde sempre. Lo sa come sto io ora. Mi racconta di Josephine quando glielo chiedo, si prepara il caffè mentre siamo in chiamata e io singhiozzo disperatamente. Mi piace che non faccia nulla per farmi smettere di piangere. Mi aiuta a sentirmi normale. È come se piangessi dopo un brutto voto qualsiasi. L'ho capito ormai, che lui è stato molto peggio di me. Mi ha raccontato del vuoto che lascia una persona, del modo in cui la morte riempia tutto e non lasci spazio a nient'altro. Di come si mangi tutto e lasci solo un filo tra due persone, talmente sottile da essere scosso in continuazione.
«Rimpiango di non essermi fatto dire se mi amava anche lei. Vorrei non mi fosse sembrato stupido chiederglielo quella sera, e vorrei non essermi vergognato di dirglielo» è la frase che più mi fa sentire salva. «E poi, gliel'ho detto così tante volte quando ormai era morta, che spero di aver colmato il vuoto che si è portata dietro. Non voglio che si senta sola come mi sono sentito io. Perché tanto, poi, finisce tutto, no?».

Salve gente, come va?
Mi dispiace per questo capitolo così triste, ma non si poteva fare altrimenti.
Mi astengo dal commentare l'atteggiamento da testa di cazzo di adrien, che è meglio.
Vi è piaciuto il capitolo?
Jacques, quanto lo amiamo?
Io vi dico solo che stavo piangendo mentre scrivevo.
Mi dispiace non poter scrivere un'angolo auteice più lungo, ma sto andando a cena
Scusatemi
Se vi va facciamo due chiacchiere nei commenti, mi piacerebbe sapere che ne pensate del capitolo.
Il prossimo è l'ultimo...
Andate in pace
Vi amo
Lily❤️❤️

Ps non ho revisionato sorry

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro