19. Che casino
«Non mi sento la testa» bofonchio tirando fuori dal frigo la bottiglia del latte.
«Benvenuta nel club». Giovanni si batte una mano sulla fronte, tentando di riprendere a far lavorare il cervello. Grace, accanto a lui, ha la guancia affondata nel palmo della mano, mentre cerca di mangiare un biscotto.
Dico cerca perché non sembra riuscirci.
«Il post-sbronza è una faccenda per esperti, siete dei novellini» Edoardo mi allunga un piatto con due fette di pane tostato, sorridendomi.
«Parla per te» sbadiglio rumorosamente, afferrando una fetta di pane, che mi cade successivamente nella zuccheriera.
«Lascia stare, faccio io» mi aiuta zuccherando il mio caffellatte. Io mi passo le mani sul viso, stringendo i denti.
Mi sento uno schifo.
Un sacchetto della spazzatura.
Un sacchetto dell'umido anzi, ancora peggio. Ok, credo di aver reso l'idea.
«Ma perché siamo andati in discoteca di lunedì? Cos'abbiamo che non va?» si lamenta Grace, accasciandosi sul bancone.
«Tutto» sbotto scuotendo la testa.
Ieri sera la situazione è leggermente degenerata dopo You drive me (crazy), quando io e Grace ci siamo allungate al quarto mojito e Anita ha iniziato a ballare su un cubo. Io ho perso di vista Adrien, e poi ho reputato bere la scelta più ovvia per evitare di pensare a lui e alla sua aria da dio greco sceso in terra.
Mi dà un terribile fastidio trovare personalmente adorabile il modo in cui distorce leggermente alcune parole, tipo sac a poche, a cui dona una cadenza francese irresistibile, e tantomeno sopporto il fatto che sia comunque rimasto nei miei pensieri, nonostante l'alcol e le canzoni di Britney Spears.
Mi irrita anche il fatto che io continui a comparare i suoi occhi con tutti quelli che incrocio, perdendomi a pensare alle loro sfumature.
In poche parole: mi sono presa un brutta cotta.
E questo l'ho capito dopo una notte insonne e tre visite al bagno per tenere i capelli a Grace mentre vomitava pure l'anima. E da quando, mentre mi lavavo le mani, ho pensato che forse Adrien Leroy mi piace, ho continuato a chiedermi: ma perché?
Voglio dire, perché lui?
Tra tutti i ragazzi del mondo dovevo andare a scegliermi quello dispotico, irritante, bipolare e sexy? Evidentemente.
«Amà svegliati, sei in ritardo» Edoardo mi schiocca due dita davanti al viso, incitandomi a finire le fette di pane imburrate che ho davanti.
«Non puoi prenderti un giorno di pausa?» mi chiede Grace, consapevole che avrei dormito almeno tre ore in più se lei non mi avesse svegliato dicendo di vedere unicorni sul soffitto.
«Ho una...hic...consegna importante» singhiozzo scendendo dallo sgabello. Barcollo per qualche secondo, destabilizzata, prima di addentare la fetta di pane e lasciare la stanza con un'altro singhiozzo.
Dopo la doccia mi vesto lentamente, infilando un paio di jeans con la stessa voglia di vivere di un criceto morto e osservando la mia faccia sbattuta allo specchio a lungo.
Ma sono sempre stata così pallida?
Infilo un maglioncino verde smeraldo, truccandomi poi il minimo sindacale per sembrare viva. Passo più mascara del solito, per evidenziare i miei occhi verdi, prima di decidere di lasciare i miei capelli sciolti e recuperare il mio chiodo di pelle dall'armadio.
In fondo ottobre esiste apposta per le giacche di pelle.
Ecco, ci risiamo: Adrien indossa solo giacche di pelle, e addosso a lui stanno meravigliosamente bene.
Amanda, basta. Non hai quindici anni.
Esco dalla mia stanza, quindi mi dirigo in cucina per ingurgitare un'aspirina e recuperare degli occhiali da sole.
Schiocco un bacio sulla guancia a Grace e mio fratello, salutando poi Giovanni con un sorriso, prima di uscire di casa con la borsa al braccio insieme a tanta ansia. Ripeto, sto diventando pazza.
In macchina non posso fare a meno di riascoltare One more time, sorridendo mentre parcheggio sopra piazza del Popolo. Percorro via Capolecase e via del Tritone con le cuffiette nelle orecchie e il cuore a duemila. A piazza Fontana di Trevi mi mordo il labbro nervosamente, scorgendo propio l'oggetto dei miei pensieri materializzarsi davanti alla pasticceria, con il cellulare accostato all'orecchio e l'espressione più incazzata di questo mondo sul viso.
Rimane comunque bello da morire però. Che palle.
Mi avvicino prendendo profondi respiri, mentre scrollo le spalle nel tentativo di rilassarmi. Faccio in tempo a sentire uno scorcio della sua conversazione, prima di varcare la soglia della pasticceria, salutandolo con un cenno.
«Mi hai preso per un fottuto finocchio? Io non voglio più farle quelle pagliacciate. Chiedi a Alexis. No, non me ne fotte una minchia se c'è Vogue, può venire pure il Papa, non me ne faccio niente delle tue suppliche. Mi avete rotto i coglioni» sbraita rivolgendomi un cenno di saluto. «Salutami quel finocchio di Lucky» conclude infilando il cellulare in tasca con un gesto secco. Io entro in pasticceria riprendendo a respirare, prima di togliermi la giacca negli spogliatoi e infilarmi la divisa, raggiungendo il nulla in laboratorio.
Esatto, il nulla.
«Ma cosa...?» passo in rassegna la stanza ordinata con gli occhi, dove non c'è neanche l'ombra dei miei colleghi.
A saperlo me ne stavo a casa.
Recupero il mio cellulare dalla tasca, chiamando Chiara.
La mia collega mi dice di stare poco bene, prendendosi un giorno di malattia senza preavviso. Stessa storia con Giovanna.
Chiamo anche Tommaso, per scrupolo, che sembra piuttosto preoccupato all'idea di lasciarmi sola a lavorare con Adrien. Poi però la tosse lo costringe a chiudere la chiamata, e io rimango sola a imprecare con la planetaria.
«Ma vaffanculo» bofonchio tirando fuori delle bastardelle dai cassetti.
Io mi accorgo di avere una cotta per Adrien e voi vi ammalate nel giro di un giorno. Va bene che Chiara già ieri aveva la febbre, ma poteva venire per sostegno morale. Non chiedo tanto.
«Dove sono gli altri?» come se il post-sbronza e la mancanza degli altri non fosse abbastanza, Adrien incazzato nero entra in laboratorio, chiudendosi la camicia divisa. Distolgo lo sguardo, concentrandomi sulla ricerca di una leccarda. «A casa» replico frugando nei cassetti.
«Che vuol dire a casa?» sbraita lui, appoggiandosi al bancone.
«Vuol dire che sono al loro domicilio, sai, dove vivono quando non sono qui» spiego ironicamente, con una strana ansia addosso.
«Hai preso degli acidi stamattina Amà?». No, ho solo preso un'enorme cotta per te, testa di cazzo.
«Uhm, no» rispondo invece, evitando il suo sguardo in tutti i modi.
«Ma che hai?» insiste inclinando il volto. Io scrollo le spalle, cercando di non pensare a quanto mi sembri bello con quell'espressione tra l'incazzato e il preoccupato.
«Nulla»
«Nulla» ripete come se ci stesse pensando su. «Vous savez quoi? Vous femmes est fou, fou! Elle qui me demande d'être une putain de poupée, vous qui changez d'humeur quand le temps change à Paris, et puis je suis bipolaire, bien sûr» sbotta poi, accingendosi a recuperare delle uova dal frigorifero.
Sbraita in francese per un paio di minuti buoni, mentre io nascondo innumerevoli sorrisi, evitando i suoi occhi come la peste.
Le ore trascorrono con lentezza incredibile, mentre lavoriamo in silenzio a una torta da anniversario. La tensione è palpabile, e ogni volta che respiro ho paura di scatenare un'altra marea di frasi incomprensibili.
Mi dedico alla farce della torta e poi alle rose di pasta di zucchero con precisione maniacale, resistendo più volte alla tentazione di incantarmi a guardarlo.
Lui monta i piani uno sopra l'altro, mantenendo un silenzio religioso. Solo dopo il quarto piano, si decide a rilasciare uno sbuffo infastidito, e ha incollare i suoi occhi su di me.
«Amanda, ti senti bene?» si avvicina a me, cercando il mio sguardo con una tenera preoccupazione. È un po' bipolare però, eh. Va detto.
Annuisco distrattamente, consapevole che se incrocerò i suoi occhi finirà male.
«Certo» replico con voce strozzata. Tossicchio leggermente, mentre mi accingo a rifinire l'ennesima rosa.
«Quanto hai bevuto ieri sera?» mi chiede con l'accento di una risata.
«Troppo» bofonchio continuando imperterrita il mio lavoro. Lui ride, contagiandomi con la sua risata cristallina.
«E dài» mi incita sfilandomi il taglierino dalle mani. «Potevi restare a casa, eh» continua tenendomi un polso. Io alzo gli occhi, incontrando il suo sguardo indecifrabile.
«Poi ti saresti dovuto sbrigare una torta a quattro piani da solo» gli ricordo con un sorriso. Lui scrolla le spalle, inumidendosi le labbra.
«Ci sono abituato» mi dice con noncuranza. «Nella mia famiglia sono quello che corre a destra e a manca ad aggiustare i casini degli altri, non so se hai presente» accenna un sorriso amaro, passando delicatamente il suo pollice su e giù sulla mia pelle.
«Come no» soffio inclinando il viso, piacevolmente rilassata al nostro contatto. «E tutta la vita che vado dietro ai guai di mio fratello» lo rassicuro tirando gli angoli della bocca.
I suoi occhi si scuriscono, mentre contrae la mascella.
«Tuo fratello» sussurra lui, perso nei suoi pensieri. «Che casino» mormora avvilito. Ed ecco che mi riprende quell'angoscia che avvolge Edoardo e quella sera a San Basilio.
«Adrien» lo richiamo incontrando ancora il suo sguardo. «Ho bisogno di sapere» mi avvicino al suo viso, inspirando il suo profumo dolce, sotto i suoi occhi azzurri come il cielo, sfumati come il mare d'estate.
«Quando capirai tutto» mi dice invece, deglutendo. «Ricordati che certe cose ti fanno male prima che tu te ne accorga. Non giudicare, Amanda, ti prego.» il suo respiro si infrange sulla mia pelle, mentre i brividi mi attraversano la schiena.
«Perché non me ne parli?» lo imploro a un soffio dal suo viso. Lui scuote la testa impercettibilmente, mordendosi il labbro. Il suo profumo mi dà alla testa, mentre combatto per ottenere più informazioni.
«Non posso. Lo faccio per te» resiste ostinatamente, mentre i suoi occhi mi rapiscono. Rimango incantata a guardare l'oceano in tempesta finché lui non mi accarezza dolcemente la guancia, infondendomi uno strano senso di calma. «Scusami» mi dice prima di abbandonare il mio polso, allontanandosi. Riprende con un sospiro a lavorare, mormorando qualcosa in francese. Io mi mordo la lingua, ritornando alla realtà. Riprendo a decorare la scritta da porre in cima alla torta, con una strana malinconia addosso.
Perché lui? È come innamorarsi di un'angelo caduto all'inferno.
Un quarto d'ora più tardi, con una corona di rose su un piatto, mi avvicino a lui, osservando la glassa bianca che sta decorando con della crema al burro rossa.
Con delicatezza prendo in mano le prime rose, mettendomi in punta di piedi per raggiungere l'ultimo piano.
«Faccio io?» mi chiede lui, divertito dai miei fallimentari tentativi.
«No, grazie» soffio sforzandomi di allungare le braccia.
«Ti aiuto, allora» replica sicuro, e prima che io possa protestare circonda le mie cosce con le braccia, tirandomi in braccio senza il minimo sforzo.
Io poso la mano libera sulla sua spalla, destabilizzata, prima di sorridere.
Fa caldo no? Questa cosa del riscaldamento globale andrebbe presa sul serio.
«Molto meglio» commento osservando dall'alto la torta, colta da un piccolo capogiro. Sistemo con calma le rose sulla superficie bianca, ridacchiando quando lui si abbassa per farmi prendere il resto delle decorazioni. Mi passa la glassa rossa facendomi sedere sulla sua spalla, evitandomi una brutta caduta, mentre io mi mordo furiosamente il labbro nel tentativo di non sorridere come una ragazzina alla prima cotta.
«Quanti anni erano?» gli chiedo aprendo la sac à poche con delicatezza.
«Cinquanta» mi suggerisce con una punta di divertimento nella voce.
«Cinquanta» ripeto a bassa voce, scrivendo il numero al centro della corona di rose. «Sono tanti anni» penso ad alta voce, non riuscendo neanche ad immaginare come sia vivere con la stessa persona per cinquant'anni.
«Davvero tanti» conferma lui, tenendo fermamente le sue mani sulle mie gambe, garantendomi la stabilità che mi permette di scrivere una dedica.
«Ma penso che, in fondo, se li passi con la persona giusta non sono poi così tanti»
«Non me lo immagino neanche. I miei genitori sono stati sposati cinque anni e poi hanno divorziato» commento con una punta di amarezza. Lui sospira, posando delicatamente la testa sul mio fianco. «Vuoi assaggiare la crema?» gli chiedo per cambiare argomento.
«Già assaggiata. Provala tu» mi dice senza dare segno di sforzo.
«Oh no» scuoto la testa, lasciando la sac a poche sul bancone. «Ci sono dentro chissà quante mandorle»
«E allora?»
«Sono allergica.» spiego scrollando le spalle. Lui allenta la presa, facendomi scivolare a terra con estrema facilità.
«Non lo sapevo» commenta quando gli poso le mani sulle spalle.
«Adesso lo sai» replico praticamente spalmata sul suo corpo. Il suo respiro si infrange ancora una volta sulla mia pelle, mentre lui accenna un sorriso dolce come il miele.
Ad interrompere il momento di silenzio intimo è una voce che conosco fin troppo bene: Anita.
Non vi dico quante bestemmie sono partite nella mia testa.
Adrien si scansa immediatamente, mentre io mi volto, recuperando la sac a poche completamente a caso.
«Amanda?!» mi chiama la mia amica, bussando alla porta del laboratorio.
Ma lei il post-sbronza non ce l'ha?
Mi affretto ad aprire la porta del laboratorio, accennando un sorriso alla mia amica, fuori dalla porta.
«Mi hanno detto che potevo trovarti qui-Adrien!» si interrompe alla vista del mio collega, che ha ripreso a decorare la torta. Lui le rivolge un cenno gentile, voltandosi.
«Ciao, Anita»
«Come mai qui?» le chiedo io, appoggiata alla porta. Lei scruta il laboratorio vuoto, e invece di rispondermi mi scocca una brutta occhiataccia.
«Siete soli?»
«Già» replico assottigliando gli occhi, ancora aggrappata alla porta. Lei, vestita di un vestitino azzurro, mi sorride, falsa come una moneta da tre euro.
«Sono venuta a chiederti di fare un giro in centro, ma adesso che ci penso potremmo prendere un caffè tutti insieme!» trilla battendo le mani, entusiasta.
«Noi dovremmo finire di-»
«Oh non se ne parla, non vi lascio ad annoiarvi ancora» sorride ancora, manco avesse una paralisi facciale, mentre io inclino la testa di lato, valutando le possibilità che Zeus mi fulmini adesso.
Come no.
È venuta propio per me e lo shopping.
Ma dai, chi se la beve?
«Dai, Amà, un po' di riposo ci farà bene» Adrien mi mette una mano sulla schiena, strizzandomi l'occhio.
Ma che sta facendo?
Vuole farmi fare la terza incomoda?
Guardate che l'ho capito che scopate, non c'è bisogno di sottolineare.
Anita annuisce, quindi mi trascina fuori dal laboratorio, continuando a sorridere come un'ossessa. Lascio le indicazioni alla cassiera per far ritirare la torta, quindi mi tolgo la divisa e recupero la mia borsa, lasciando la giacca nell'armadietto.
Se va tutto bene mi dileguerò in tre minuti. Speriamo.
Anita trascina me e Adrien in un bar a piazza San Silvestro, aggrappandosi al braccio come se non avesse altra scelta. Continua a parlargli come se io non esistessi, sorridendogli e ammiccando in continuazione.
Sotto il sole pallido di inizio ottobre, seduta su una scomodissima sedia di vimini attorno a un tavolino minuscolo, in balia alla gelosia più acuta, bevo un caffè in silenzio, osservando Anita che ci prova in tutti i modi con il biondo di fronte a me.
La mia amica sta raccontando del suo ultimo viaggio in Francia, a me per la precisione, ammiccando ad Adrien ogni tre parole, come se avessero fatto sesso pure davanti alla torre Eiffel.
Lui in risposta, annuisce ogni tanto, completamente distratto, quasi annoiato. Affonda la guancia nel palmo della mano, assumendo un'espressione ingenua che gli dona da morire. Distolgo lo sguardo, continuando a mescolare dell'inesistente zucchero nella mia tazzina vuota.
Il mio cellulare fortunatamente comincia a squillare, quindi lo recupero dalla tasca della giacca e mi alzo.
«Scusatemi, devo rispondere» mi allontano di qualche metro, passeggiando sui sanpietrini della piazza. Il nome di Edoardo alberga sullo schermo per qualche secondo, prima che io risponda.
«Edo?» lo chiamo accostando il cellulare al mio orecchio. L'unica cosa che proviene in risposta è un singhiozzo sommesso.
«Edoardo?» ritento con una nota di panico nella voce.
«Amanda» la sua voce, incrinata, mi fa perdere un battito.
«Che succede?» gli chiedo allarmata. Mi tappo l'altro orecchio, iniziando a sudare freddo.
«Amanda» piange lui, singhiozzando ancora. «Aiutami» soffoco un urlo, con gli occhi sgranati.
«Edoardo cosa-» un suo lamento strozzato mi fa sfuggire il cellulare dalle mani, che hanno cominciato a tremare.
Mi inginocchio a terra, trattenendo le lacrime, mentre gattono recuperando il mio cellulare da terra.
«Edoardo?» un singhiozzo mi sfugge dalle labbra, mentre, ancora in ginocchio, riporto il cellulare accanto al mio orecchio con entrambe le mani.
«Dove sei?» mi chiede lui, con voce strozzata.
«S-sono a lavoro» balbetto passandomi una mano sul viso, asciugando una lacrima sfuggita al mio autocontrollo.
«Amanda tutto bene?» la voce di Adrien mi fa sfuggire l'ennesimo singhiozzo dalle labbra. Mi volto verso di lui, che mi guarda preoccupato.
«Chi è?» abbaia Edoardo al telefono.
Non capisco più niente.
«A-Adrien?» pronuncio incerta, mentre il mio collega mi affianca.
«Passamelo» urla Edoardo. «Passami Adrien, ti prego, Amanda»
Ehilà
Ansia ne abbiamo?
Che ve ne pare di questo finale? Chissà che succede adesso😂
Per comprendere meglio i tormenti di adrien dovreste ricordarvi il lavoro della madre, che tra qualche capitolo finalmente ci darà occasione di scoprire di più su di lui.
Amanda qui, ha ammesso di avere una cotta per il nostro francese rompipalle, quindi direi che posso passare la linea allo studio.
Quanto odiate Anita?
Io da morire. Cioè è un'odio propio viscerale, non so se capite.
Ma tranquillo che tra poco la facciamo fuori....no no, scherzo dai.
Chissà che casini ha combinato Edoardo stavolta😈😈
Andate in pace
Vi amo
Lily❤️❤️
Vous savez quoi? Vous femmes est fou, fou! Elle qui me demande d'être une putain de poupée, vous qui changez d'humeur quand le temps change à Paris, et puis je suis bipolaire, bien sûr= Sai cosa? Voi donne siete pazze, pazze! Lei che mi chiede di fare il fottuto manichino, tu che cambi umore come il tempo cambia a Parigi, e poi io sono bipolare, certo!
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