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15. Come no

«Non ci ha detto quanti anni compie», Adrien scrolla le spalle in risposta, posizionando l'ultima fragolina di bosco sulla torta a due piani che abbiamo appena finito di decorare.
Ma sì, ignorami un'altro po'.

Il nome Anna spicca tra roselline di frutta, in glassa rosa, su una base di crema bianca.
«Le fragole vanno sempre bene» mi risponde con nonchalance, qualche minuto più tardi.
«Non mi sento più le gambe» borbotto appoggiandomi al bancone. Lui reprime un sorriso, spingendo la torta verso di me.
«Che te ne pare?»
«È...com'è che dite voi francesi?»
«Parfait» mi suggerisce strizzandomi l'occhio.
«Parfait» ripeto osservando la torta. «Abbiamo fatto un piccolo capolavoro».

Adrien annuisce, pulendosi le mani in uno strofinaccio. Io infilo la torta in una confezione di cartone, improvvisando un bigliettino d'auguri su uno della pasticceria. Stringo il fiocco della confezione e sorrido, lasciandola al centro del bancone.
Puliamo in silenzio il laboratorio, buttando i resti del pan di Spagna e spazzando a terra. Mi fermo un secondo ad osservare la confezione della torta, rinvangando i ricordi dei miei compleanni passati.

«A che pensi?» mi chiede Adrien, abbandonando la scopa nello sgabuzzino. Osservo il suo viso, di una bellezza così perfetta da non sembrare vera. È quel tipo di ragazzo che scorgi tra una folla, in metro, o in mezzo a via dei Fori Imperiali, e ne rimani incantata. È quel tipo di bellezza che ti rapisce e poi scappa via, senza farsi vedere mai più. E tu rimani ferma, in mezzo alle persone, con il cuore a mille e il respiro mozzato.
È quel ragazzo a cui ripensi durante l'ora di matematica, chiedendoti quante probabilità ci siano che lo rivedrai. E nella tua mente si affaccia il suo viso quando meno te lo aspetti, e ti ritrovi a cercarlo tra le persone, a sperare che sia lui che ti urta mentre sali sull'autobus.

«A nulla» replico con un cenno della testa, incastrando i miei occhi nei suoi, indecifrabili. Si avvicina a me, lanciando uno sguardo alla torta.
«Amà, sei strana» mi dice incrociando le braccia al petto.
«Disse il francese bipolare» commento a bassa voce, strappandogli una risata.
«Adesso dico, mi sembri preoccupata» continua intercettando il mio sguardo.
Osservo le sue iridi, perdendomi per un'attimo nella sensazione di mistero che aleggia intorno a lui e a tutto quello che lo riguarda.
Scrollo le spalle in risposta. «Niente di che»
«Niente di che» ripete annuendo. «Okay» conclude abbandonando lo straccio che teneva sulla spalla sul bancone. Bipolare sono io, piuttosto.
La porta del laboratorio si apre, lasciando entrare il direttore della pasticceria. Ci sorride, con la giacca in mano e una camicia stropicciata addosso.
«Grazie mille, mi avete salvato» prende la torta in mano, rivolgendoci un cenno della testa in saluto. «Chiudo io, il tempo di prendere dei documenti. A domani» ci saluta con un'ultimo sorriso, mentre io mi sfilo da divisa, felice come non mai di staccare.
Seguo in silenzio Adrien negli spogliatoi, passandomi una mano sul viso. Sciolgo i miei capelli scuri, infilo un dolcevita bianco e recupero la mia borsa.
«Hai da fare?» mi chiede Adrien, appoggiandosi alla fila di armadietti.
Come si usa il cervello?
Non mi ricordo più.

«Quando?»
«Adesso, Amà» replica sicuro, intercettando il mio sguardo.
«No, perché?» aggrotto le sopracciglia, infilando la giacca.
«Vieni con me allora, uhm?» mi lancia un'occhiata, reprimendo l'ombra di un sorriso sulle sue labbra. Chiude il mio armadietto, aprendomi poi la porta degli spogliatoi.
Abbasso lo sguardo, uscendo dalla stanza. Lui cammina al mio fianco, sovrastandomi con la sua altezza.
Boh, è un sogno.
Mi sono addormentata sopra il bancone. Il vero Adrien mi starebbe tirando le fragole contro a quest'ora.

«Dove andiamo?» gli chiedo seguendolo fuori dalla pasticceria. Lui mi rivolge uno sguardo divertito, prima mi scrollare le spalle.
«Poi vedi» mi risponde soltanto, dedicandomi un sorriso.
Ecco, adesso se svengo mi prende il primo svedese che capita.

***

«PORCA PUTTANA, ADRIEN! SMETTI DI CERCARE DI UCCIDERMI» ancora una volta cerco di far ragionare l'aspirante suicida con cui ho accettato di andare a cena. Lui ride, imboccando via Labicana con una curva che mi costringe ad appiattirmi contro la sua schiena.
Ma sì, ridi pure, mentre a me viene un'infarto.
Tranquillo.
Ti denuncio per atti terroristici nei confronti della mia sanità mentale.

Il suo profumo dolce mi invade le narici, mentre il vento mi arrossa le guance. L'aria fresca di fine settembre muove i capelli del mio collega, che mi ha gentilmente ceduto il suo casco.
Non avevo valutato che dovevo prepararmi a un'altra corsa della morte.
Avrei dovuto metterlo in conto.

Frena di punto in bianco, accostando davanti a un'officina ancora aperta.
«Arrivati» annuncia abbassando il cavalletto della moto. Scendo dal sedile di pelle con il suo aiuto, lanciando un'occhiata al posto davanti al quale si è fermato. Sfilo in casco con gli occhi incollati al motore in primo piano, visibile dalla vetrina.
«È uno scherzo?» sbotto ravvivando i miei capelli. «Ah no, ho capito! Hai deciso di farti aggiustare le rotelle che hai perso nella testa. Oppure-»
«Amà, zitta un po'» mi interrompe mettendo il casco sotto il sedile. «Vedrai che ti piacerà»
«Sono appassionata di motori, guarda» commento seguendolo dentro l'officina.
Boh, si droga.
Saluta calorosamente l'uomo seduto all'ingresso, come se lo conoscesse da una marea di tempo e poi si lascia abbracciare da un'altro ragazzo, che spunta da una scala che finisce sottoterra. Osservo i motori e un paio di moto abbandonate al centro della stanza, mentre Adrien scambia un paio di battute con i due ragazzi.
Abbandona i suoi amici pochi minuti dopo e poi mi prende per mano strizzandomi l'occhio, per poi portarmi fino alla scala. E devo ammetterlo, perdo un battito.
Sarà la stanchezza, sarà che non mangio da sette ore, ma gli sguardi di Adrien stasera cominciano a farmi uno strano effetto.

Inizia a scendere i gradini, mentre della musica sparata a palla comincia a farsi sentire. Arriviamo in un seminterrato, dall'aria vintage, dove albergano un bancone e dei divani, per lo più occupati da gruppetti di persone.
Schiudo le labbra, osservando l'ambiente suggestivo.
Cioè, io abito a dieci minuti da qui, e non ho mai neanche saputo dell'esistenza di questo luogo.

Adrien si destreggia tra le persone, salutando qualcuno ogni tanto, senza mai abbandonare la mia mano.
Arriva fino a un'angolo tranquillo, si sfila la giacca e la abbandona su una poltrona vuota.
«Cosa vuoi?» mi chiede con l'ombra di un sorriso sul viso.
«Fai tu»
«Torno subito» mi strizza l'occhio, allontanandosi. E io riprendo a respirare come si deve.
Osservo le sue spalle larghe che si allontanano, prima di rispondere a un paio di messaggi di Grace, già nel panico. Sorrido quando lei mi ricorda che Mops mi aspetta sul divano e poi blocco lo schermo del cellulare, quando Adrien fa scivolare davanti a me due fette di pizza, una ciotola con delle patatine, dell'acqua e due birre.
«Sarei capace di ubriacarmi con un sorso di birra, non mangio da ieri sera»
Si siede accanto a me, rivolgendomi uno sguardo strano.
«Ti ho portato un tramezzino» gli ricordo, alzando le sopracciglia. La smorfia che fa mi costringe a scuotere la testa.
«Non è colpa mia se faceva schifo» replico fingendomi scioccata.
«I gabbiani hanno apprezzato sicuramente» ride bevendo un sorso d'acqua. Sorrido con lui, addentando la mia fetta di pizza.
«È un bel posto» commento osservando le persone attorno a noi. Lui annuisce distrattamente, incrociando i miei occhi. Si inumidisce le labbra, prima di mordere un po' di pizza.
«Perché mi hai portata qui?» gli chiedo poi, osservando la sua espressione tranquilla.
«Per pietà. Facevi pena a fissare la torta con un tic all'occhio» mi prende in giro, ridendosela. «E poi ti dovevo un favore»
«Ti riferisci a quando ti ho salvato dall'affettare anche il bancone?»
«Tagliare la frutta funziona per lo stress, dovresti provare»
«Io funziono meglio» mi vanto, prima di realizzare le mie parole.
No scusate, sono io quella che si droga qui.
Cosa diavolo mi mette Grace nel caffè?

«Amanda» ride concedendosi un sorso d'acqua. «Sei la ragazza più a doppio senso che io abbia mai conosciuto»
«Io?! Ma ti sei mai sentito parlare?» boccheggio, mentre lui scuote la testa.
«Tu mi batti, sicuro» ridacchia ancora, scrollando le spalle. Reprimo un sorriso, addentando una patatina fritta.
Affogare l'imbarazzo nella pizza è la migliore delle soluzioni.
«Sai cosa?» gli chiedo evitando i suoi occhi, dopo qualche minuto di silenzio.
«Cosa?»
«Mi sono accorta» bevo un po' di birra, in cerca delle parole giuste. «Che non so nulla di te» continuo stringendomi nelle spalle. «A parte che sei uno spogliarellista francese e bipolare, ovviamente» cerco di stemperare la tensione, concedendomi un'attenta radiografia delle sua labbra mentre sorride.
Smetti di guardarlo Amanda, smettila.
«Alors, cosa vuoi sapere?» mi chiede passandosi le mani sulle cosce.
Scrollo le spalle di nuovo, senza sapere cosa dire. «Qualcosa in generale»
«Uhm, okay» replica passandosi una mano nei capelli. «Sono nato a Parigi, per cominciare. Ho vissuto a Roma fino ai quindici anni, poi mi sono trasferito di nuovo in Francia. E ci ho vissuto fino a un anno fa circa.»
«Perché ti sei trasferito in Francia?»
«Mia madre fa la stilista, e per lei era sempre più difficile assistere alla fashion week se viveva a Roma» replica stringendosi nelle spalle.
«E tuo padre?»
«Mio padre cosa?»
«Cosa fa?»
«L'avvocato»  si morde il labbro, distogliendo lo sguardo. «Finito l'interrogatorio?»
«Uhm...no» tamburello le dita sul tavolo, prima di prendere un sorso di birra.
«Amà, non vale se parlo solo io» riporto gli occhi sul suo viso, sciogliendomi davanti a un sorriso dolce come il miele.
Oddio, ma che mi prende?

«Ti ho già detto del mio cane?» scherzo sistemandomi sulla poltroncina. Lui ridacchia ancora, insolitamente tranquillo.
Non sono abituata a vederlo così rilassato. C'è qualcosa di estremamente attraente nel vederlo così, divertito e per nulla teso. I suoi occhi, tranquilli come il mare mi attraggono come calamite. Mi sembra di poterci annegare dentro.

«Mops è parte integrante della mia vita, è inutile che ridi» lo riprendo con finto astio.
«Immagino» continua lui, passandosi una mano sul viso. «Vivi solo per il tuo cane o hai anche visto altro nella vita?» ridiamo insieme questa volta. Mi lascio coinvolgere dalla sua voce, e finisco a guardarlo con un sorriso smagliante sulle labbra.
«Che vuoi che ti dica? Non sono interessante»
«Oh ma andiamo, mi hai fatto parlare di mio padre» mi risponde con una smorfia, profondamente divertito.
«Va bene, va bene» alzo le mani, in segno di resa. «Ti dirò che, uhm... ho un-»
«Un'altro cane?» mi sta prendendo per il culo, e si diverte pure.
«Deve essere umorismo francese» commento nascondendo un sorriso.
«Dai Amà, sforza il tuo ultimo neurone» mi incita incrociando le braccia al petto. Mi mordo l'interno della guancia, pensando a qualcosa di interessante da dire.
Ma che ne so.
Cosa si può dire a un modello di Calvin Kleik per risultare interessanti?
Boh.

I miei dubbi vengono subito annullati dalla suoneria predefinita dell'iPhone di Adrien, che squilla abbandonato in mezzo al tavolino.
La stalker che è in me è riuscita a vedere il mittente.
Xanvier.
Perlomeno è un maschio.
Il suo sguardo si rabbuia, mentre legge il nome sulle schermo e il sorriso che aveva sulle labbra si spegne all'istante.
«Scusami, Amanda» mi dice prima di rispondere. Osservo il suo viso preoccupato, le labbra strette, la mascella contratta.
«Merde.» sbotta passandosi una mano sul viso. «Comment va-t-il?  c'est grave? Il se fera tuer, bite.» continua a sbraitare in francese, alzandosi in piedi di scatto. Darei oro per capire il francese in questo momento.
«Non, je suis fatigué de le pourchasser autour de Rome.  C'est un bâtarde.» lancia un'occhiata a me, ancora seduta. «Oui, j'arriverai dans un quart d'heure.  Non, je n'ai pas d'ailes. J'en ai rien à foutre. Connard», chiude la chiamata e scaraventa il cellulare sul tavolino. Si passa entrambe le mani sul viso, sospirando pesantemente.
Sono abbastanza sicura che abbia sparato una marea di parolacce, ma dette da lui, e per di più in francese, a me sembrano una poesia.

«Scusami, devo andare» recupera la sua giacca con un gesto irritato, prima di passarmi la mia. «Ti riporto a casa» continua senza neanche guardarmi.
«Adrien, stai bene?» mi alzo, seguendolo tra le persone. Schivo un paio di ragazzi, passando tra la folla con gli occhi fissi su di lui.
«Certo» replica in fretta, cominciando a salire le scale. Come no.
«Non sembra» contraggo il viso in una smorfia, sbucando con lui nell'officina.
«È successo qualcosa?»
«No»
«Davvero, se è-»
«No»
«Guarda che se hai-»
«Amà, ma i cazzi tuoi quando?» mi fulmina con un'occhiataccia, tenendomi aperta la porta del locale.
Passo sotto il suo sguardo furioso, visibilmente infastidita.
Cos'hai? Un tempo limitato in cui essere gentile?

«Non c'è bisogno di accompagnarmi a casa» sbotto mentre lui recupera il casco dal sedile della moto. Mi inchioda con i suoi occhi, scuri come il mare in tempesta, illuminati solo dalla luce dei lampioni di via Labicana.
«Invece sì» ribatte avvicinandosi a me in due falcate. Alzo il mento, incontrando il suo sguardo. Si inumidisce le labbra, contraendo la mascella. L'aria fresca della sera mi accarezza le guance, facendomi arrivare i brividi fin sulla schiena.
«Ti dico di no. Abito a pochi metri da qui» gli volto le spalle, cominciando a camminare verso l'incrocio con via Merulana. Lo sento sbuffare, mentre stringo pugni.
«Vuoi davvero rischiare di essere violentata per il tuo orgoglio da bambina di cinque anni?» alza la voce, richiamando la mia attenzione.
Mi volto, assottigliando gli occhi.
«Io sarei la bambina di cinque anni? Tu sei emotivamente instabile, allora» replico velenosa, stringendo morbosamente il manico della mia borsa. 
«Fa' come cazzo ti pare, allora» scimmiotta la mia voce, infilandosi il casco. Mette in moto e con uno scatto repentino si confonde con il traffico, scomparendo ai miei occhi.
Sei un bipolare del cazzo, ecco cosa.

***

Quando arrivo a casa, con un brutto senso d'ansia addosso, apro la porta lentamente, calcolando meticolosamente i movimenti per far scattare la serratura. Adesso sono di cattivo umore.
«Sono a-» i miei occhi incontrano quelli di Edoardo, sotto una scala. E sopra la scala c'è Grace, in piedi, attaccata al lampadario nel tentativo di cambiare una lampadina.
«Ciao» mi saluta muovendosi pericolosamente sul gradino più alto.
«Avete deciso di tentare il suicidio insieme?» chiedo chiudendo la porta alle mie spalle. Il tepore che regna in casa mi riscalda subito, mentre Edoardo sorride.
«Dove sei stata?» mi chiede passando sotto la scala
Oh cristo. Tirategli un crocifisso.

«Amanda prendi l'acqua santa!» urla Grace, balzando giù dalla scala. Mi copro gli occhi, immaginandola già con due costole incrinate a terra.
«Cosa?» ride mio fratello, facendo saettare lo sguardo da me a Grace.
«Già che c'eri potevi rompere uno specchio Edoà» si lamenta la mia amica, incredibilmente viva.
«Adesso la tua iella raggiungerà anche noi» piagnucolo togliendomi il cappotto. «Dovremmo esorcizzarti» continuo nascondendo un sorriso divertito.
Edoardo scuote la testa, passandosi una mano sul viso. «Ma che credete a 'ste cose?» allunga le braccia verso di me, sporgendo il labbro inferiore con una smorfia.
«Ho già abbastanza sfiga di mio, grazie» borbotto evitando un suo abbraccio. Lui ridacchia, chiudendo la scala.
«Sono cazzate» mi rassicura chiudendo la scala dentro lo sgabuzzino.
«Come no» replica Grace, accendendo il lampadario per testare la riuscita dell'impresa. Mi sorride, indicando la lampadina riparata.
Mops mi salta in grembo, riempiendomi di baci, e io non faccio neanche caso alla suoneria del cellulare di Edoardo. Lo sento parlare al telefono, e alzo lo sguardo solo quando ritorna in salotto, con il viso pallido.
«Io...uhm, esco» abbozza un sorriso, passandosi nervosamente una mano nei capelli. Aggrotto le sopracciglia, mentre Grace mi lancia uno sguardo indecifrabile.
«Dove vai?» mi alzo in piedi, lasciando un'ultima carezza sulla testa di Mops.
«A bere qualcosa con degli amici, a San Lorenzo»
«E quando torni?»
«Ma', sei tu?» mi prende in giro, infilandosi la giacca. Roteo gli occhi al cielo, prima di schioccargli un bacio sulla guancia.
«Torna presto» soffio quando apre la porta, strizzandomi l'occhio prima di uscire. Osservo la porta chiusa per qualche secondo, prima di voltarmi verso la mia coinquilina.
«Non vuoi seguirlo, ve'?» mi chiede alzando le sopracciglia, divertita.
«Vestiti dai, vediamo solo dove va».
Speriamo solo di non finire nei guai.




Ehilà gente
Ho scritto un capitolo lunghissimo, lo so, ma non sapevo dove fermarmi.
Secondo voi cosa combina Edoardo?
Adrien è davvero bipolare o ha delle ragioni? Ci è piaciuta la sua versione dolce? A me da morire.
Quello che ha detto è: «Merda. Come sta? È grave? Si farà ammazzare, cazzo. No, sono stanco di rincorrerlo per Roma. È un bastardo. Sì, arrivo tra un quarto d'ora. No, non ho le ali. Me ne fotto, stronzo.»
Chissà chi è questo Xanvier😈
Io spero di non avervi messo ansia.
Nel prossimo capitolo succede un casino, quindi stay tuned.
Tra l'altro vi volevo dire che il locale dove vanno Amanda e Adrien esiste per davvero, e si chiama The race club, se non sbaglio. Pensavo che ambientare una storia in Italia fosse una pessima idea, invece mi diverto un sacco a cercare posti nuovi❤️
A presto
Andate in pace
Vi amo
Lily ❤️❤️

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