February. About Leila.
D a m i a n o .
[Sto cercando qualcosa, sto cercando qualcosa,
mentre dorme questa città sotto la nostra schiena nuda.
Che strana bugia è la verità. ]
Il chiaroscuro sul viso di Leila è mutevole e segue l'andirivieni del tremolio della fiammella che ha acceso con un fiammifero non appena siamo entrati nella sua stanza e mentre siamo seduti sul parquet che divide i due letti, la candela sprigiona odore di gelsomino e stelle marine, lei guarda il cielo notturno aldilà delle tende come se stesse aspettando di veder comparire qualcosa, o piuttosto qualcuno ed io vorrei chiederle di guardarmi.
Accarezzami Leila, con quell'occhio blu diluvio. Sbottonami la camicia, con quello verde prato.
"Sei il primo ragazzo che porto qui dentro, anzi no.. tu sei la prima persona." Come se mi avesse letto nel pensiero mi guarda e sebbene ciò che ha detto mi sconvolga abbastanza, tutto quel che ho in mente è tirarle quel nastrino scozzese che le tiene allacciato il colletto della camicia e lasciarle un succhiotto sopra il bordo del reggiseno.
Il mondo non s'intrometterà stanotte, non me la ruberà: non sa come si entri in questo luogo in cui l'adolescenza è un condensato di reliquie appollaiate alle mensole, fra i libri coi compiti delle vacanze rimasti incompleti, le boccette di profumo Chloe e Dolce&Gabbana, gli smalti ormai secchi ed inutilizzabili, un campionario di vecchi vinili che non ci si aspetta certo di scovare fra gli averi di due quindicenni del nuovo millennio ed un mappamondo che occhieggia luminescente come una base interstellare nello spazio.
L'adolescenza è così, un luogo lontanissimo, che nessuno sa raggiungere.
Mescoliamo tutti i colori Leila. Non so quello che faccio, ma voglio vedere che cosa succede ad usarli tutti. Diluiscili tu, nelle tue lacrime lunari.
Le sue gambe da gazzella si muovono sovrapponendosi trasversalmente alle mie e non capisco le sue intenzioni finchè non piazza sotto i miei occhi e sopra le sue ginocchia, un album di fogli A4 dall'aspetto malandato, che ha tirato fuori da sotto il materasso. Sulla copertina ci sta scritto Soleluna con la punta di una stilografica che non sembra aver mai staccato dalla superficie della carta fino ad esaurimento inchiostro, considerato il numero di volte in cui la parola si ripete, dando forma ad una sorta di lunghissimo bruco che si snoda in una contorsione senza capo nè coda.
"Luna.." Le sfioro la punta del naso con l'indice e lei sorride coprendosi le labbra con le dita, mentre abbandona la testa nell'incavo fra il mio collo e la spalla ed è come se fossimo qui dall'inizio delle nostre vite, o forse ancor prima, come due reincarnazioni.
E' banale eppure miracoloso, essere nella tua stanza, Leila. I tuoi capelli neri che restano impigliati ai bottoni di sta camicia fottuta dal baule di nonno, in quel solaio a Rione Monti, sono un groviglio scomposto dal vento che ci ha sospinti fin qui come due aquiloni allo sbaraglio. Sei bella appoggiata a me nel buio, hai l'aria di una conchiglia bianca perduta in città dopo un viaggio su un'isola che non si trova segnata sulle cartine e se ti appoggio l'orecchio addosso, mi fai sentire il mare. Sono i ricordi di tua sorella ad avere questo suono?
Posso quasi sentire lo iodio nell'aria che ristagna.
Con le dita perlustro la pagina iniziale dell'album, percependo le texture delle diverse tecniche pittoriche darsi il cambio sotto le falangi mentre gli occhi percorrono i tracciati, le geometrie ed i volumi dei soggetti rappresentati con mano dapprima inesperta e via via sempre più abile. Una pagina per volta mi rendo conto che in questa raccolta di opere estemporanee, Leila non fa che stampare sulla cellulosa un'elaborazione continua dell'immagine della sorella che cresce e muta al suo fianco. India è il suo flusso di coscenza, la voce narrante che ne scandisce i pensieri più irrintracciabili, l'occhio aperto e vigile di chi le fa strada in mezzo alle intemperie ed alle disgrazie, il sole che illumina ogni cosa, fino al giorno dell'epilogo, l'eclissi totale che porta il colore dei buchi neri dentro cui sguazzano gli incubi e l'ultima pagina è nera infatti, come una foto scattata nel buio. Le sue dita si sovrappongono alle mie, scivolandomi sui tendini, mentre fissa il foglio in attesa che ritorni bianco.
"Qui ho usato le cere.." E vorrei farle notare che l'uso del plurale in questo caso è quanto mai improprio, a meno che non si fosse munita di un'intera scatola di cere monocolore, ma non le dico nulla, non le chiedo nulla. Lei parla davvero solamente quando dipinge ed ha gli occhi bistrattati dalla cupa violenza dei suoi stessi disegni, quelli che forse aveva smesso di sfogliare, finendo con il relegarli fra le assi del letto, un posto qualunque non troppo lontano dai sogni, così che gli incubi avessero potuto raggiungerli.
"Sanguinava l'occhio del terzo disegno?" Mi dona uno sguardo che archivio subito fra quelli che non dimenticherò e mi traccia il sopracciglio destro con la punta di un dito, facendomi sentire improvvisamente e scioccamente in dovere di accudirla, mentre con la mano scivola sulla scriminatura laterale dei capelli, che mi scosta dietro un orecchio, come se stesse cercando di creare un varco attraverso cui scivolarmi dentro.
"Non avrebbe dovuto, ma ci è cascata sopra una goccia di sangue mentre era ancora soltanto uno schizzo.. e date le circostanze mi è venuta l'idea di dipingerlo così." Ripenso a quando m'importava solo di tesserle una ragnatela intorno, circoscrivendola in una traiettoria sinusoidale dal raggio sempre più piccolo, fino ad averla lì, a portata di mano, farfalla perfetta da rinchiudere sotto un bicchiere: le ali che le si stanno per scollare ed un pennello che potrebbe sfoderare e puntarmi contro come una spada, ma che si tiene posato sul cuore al pari di uno scudo.
Ripenso a te, Leila, che non sapevi come difenderti fra quelle rose.
"E quali sarebbero ste circostanze?" A quante cose ripenso in verità, mentre le domande prendono il sopravvento insieme all'angoscia di voler conoscere qualcuno in modo assoluto, come se ognuna delle canzoni che ho scritto fino ad oggi parlasse di niente o poco più. Ecco perchè ripenso pure a quando ho partorito Chosen, in treno senza più giga nel cellulare.
Vic dorme alla mia destra, la testa le è crollata sulla mia spalla e mi ha persino inumidito la maglietta della Roma di saliva, ma tanto 'n só un tipo schizzinoso. E' completamente priva di fondotinta e di tutti quegli altri truccosetti che le piace usare ultimamente per impiastricciarsi la faccia come quelle Youtuber americane che fanno i video tutorial solo per sentirsi dire che só fighe e le vorrei fa' 'na storia da mettè su Instagram giusto per non smentirmi, ma alla fine la lascio stare, pora stella: un paio di mesi fa manco sapeva che cazzo fosse un blush e mò fa tutta la sofisticata ed io non so se dirle che forse la preferivo prima, perchè mostrava la bellezza a questo popolo d'ottusi che non sa distinguere l'apparenza dalla sostanza. Lei però lo fa per sperimentare dice, perchè il modo in cui ci presentiamo sul palco è essenziale ed il guardaroba e tutti gli altri orpelli che ci ruotano attorno son la prima cosa che deve restare impressa.
Su sto Italotreno demmerda comunque non ci sta manco il Wifi, ma oltre il danno, pure la beffa. Essendo partito in ritardo dalla stazione di Faenza, rischiamo di perdere la coincidenza per tornà a casa ed è probabile che ci ritroveremo a dormire in stazione a Bologna, costretti a mimetizzarci fra i barboni con le nostre vesti da circensi, Thomas che stresserà tutta notte perchè per terra sta scomodo col culo ossuto che si ritrova ed Ethan che s'addormenterà con la faccia sulla solita pagina del solito libro sulla relatività di Einstein. Un giorno glielo nascondo solo pe' fallo impazzì, 'o giuro sur Capitano.
Ad ogni modo sto covando un sentimento anomalo, che si muove in un moto centrifugo dentro allo stomaco, mentre osservo i viaggiatori che occupano lo scomparto affianco al nostro. Un tizio sulla quarantina, accompagnato da una 24ore rigida quanto il completo che indossa, se ne sta immerso nell'ascolto di una conferenza in diretta Skype sull'Ipad di ultima generazione e mentre la noia e la frustrazione gli corrodono anche i peli del naso, non s'accorge della donna in abito rosso che gli siede di fronte, smaniosa di ricevere anche il più misero dei complimenti e che ha probabilemte abbinato il colore dell'intimo in pizzo a quello del rossetto corallo che si è spalmata sulle labbra turgide di botulino, una donna che allo sguardo di un' edonista come me, non serba più stralcio alcuno della bellezza che le è stata confiscata nel momento stesso in cui ha scelto di donarsi a chi l'ha lasciata, sola ed insoddisfatta, dentro la sua serie di tubini aderenti.
Una donna è sempre sola se non la osservi, se non assecondi le sue vanità.
Vorrei svegliare Vic solo per dirle che lei sola non lo sarà mai. Un giorno la osserveranno tutti sulle copertine di Glamour. Le ragazzine di tutta Italia vorranno il suo viso stampato sulle t-shirt. Gli uomini di mezz'età si salveranno le sue fotografie sul desktop del computer dell'ufficio, perchè in quello di casa le mogli potrebbero scoprirle e quindi scandalizzarsi. Gli ex compagni di classe rimpiangeranno di non averle fatto la corte quando avrebbero potuto, ignorando che in ogni caso non le avrebbero mai impedito d'inseguire l'impeto che l'ha trascinata fin qui, su queste rotaie, al mio fianco come è scritto nelle stelle.
Perchè noi siamo i prescelti.
Noi, Vic, siamo una canzone che si chiama Chosen.
"Era una domenica mattina quando ho conosciuto Geremia ed io avevo appena iniziato quel disegno. Stavo sulla porta di casa quando lui è arrivato con un labbro rotto e la pretesa di potersi presentare come il fidanzato di mia sorella.. che scemenza ho pensato. Poi m'ha sporcato il foglio, involontariamente certo. L'occhio che sanguina, mi son detta, è una bella immagine. Un simbolo di come si sarebbe sporcato tutto di lì a poco. Qualche giorno dopo ad India sono iniziate le mestruazioni, ci credi? Lei cresceva, inseguiva i suoi sogni, realizzava i suoi progetti, trovava l'amore. Io la guardavo impotente, lei sanguinava e correva alla velocità della luce verso la morte. Nessuno la poteva fermare."
Qui mi ci vorrebbe Freud, direi. Però fa lo stesso francesì.
Mi viene in mente pure la citazione di Eugenio Montale che ci sta scritta all'ingresso di scuola, proprio sopra al gabbiotto delle bidelle:
"E ora che ne sarà del mio viaggio?
Troppo accuratamente l'ho studiato senza saperne nulla.
Un imprevisto è la sola speranza."
Quante volte l'ho letta senza mai veramente capire che cosa significasse e non avrei mai e poi mai immaginato che l'arcano mi si svelasse così, in una sera di febbraio, con Leila fra le braccia, i suoi disegni sparsi sul pavimento e la carta da parati in stile rococò della sua stanza a circondarci sottile come un paravento contro i meteoriti.
Non avevo previsto d'incontrarti, francesina. Ma stai attraversando il mio viaggio invece, il mio sogno, la vita che ho in mente e se mi guardo i palmi delle mani adesso, le linee che ne rappresentano le sorti son tutte diverse, tutte mutate. Profumi di viole, sempre di più mentre ti guardo ed ho un dannato bisogno di spremere tutti i tubetti di colore che ho dentro e se questo avesse un senso comporrei un cazzo di Kandinskij.
"Te non sei umana, per come me fai sentì.." E quasi mi dispiace di non saperle articolare un discorso a sfondo psicologico che possa anche solo parzialmente rispondere a quanto mi ha descritto, ma mi sento emotivo.
"Lo dici solo per farmele uscì." Mi guarda seria, quasi contrariata.
"Azz, m'hai sgamato." La guardo serio anch'io, stringendo le labbra in una linea retta.
Poi non capisco come, mi precede, fa quello che avrei voluto farle io da quando stiamo qua seduti. Mi slaccia la camicia, soltanto il primo bottone, mentre mi guarda attentamente e senza parlare mi lascia ascoltare il suo respiro fremere quando con le dita passa dal mio collo fino allo sterno. Schiude le labbra come una rosa in primavera e vorrei dirle che il chiostro in cui ci siamo parlati ad ottobre è davvero il suo posto.
Non la tocco, mentre avvicino la bocca alla sua e le strappo un bacio umido quanto la saliva di Victoria sulla mia maglietta. Lei tentenna ma non si scosta e le sue labbra si lasciano leccare. Non voglio altro, stanotte. Non c'è margine per desiderare cose che non siano questo sapore zuccherato che le fa fibrillare il cuore in battiti più rapidi di quelli delle ali d'un colibrì. Le scottano le guance e accenna un sorriso febbrile ed affannato.
"Sei buona assai." Ha degli occhi da bambina timida ma impertinente che mi fan salire una spinta violenta dall'inguine al costato, soprattutto mentre con le dita mi slaccia il terzo bottone ed allontana il viso, per appoggiarsi con le mani sul pavimento dietro di sè. Incrocia i piedi nascosti dalle parigine che indossa e con le gambe ancora sopra le mie si lascia guardare arrossendo.
"Non fissarmi così che me vergogno."
Sì, forse è vero francesì. Ma quanto te piace provocà.
"Più te vergogni, più m'arrapi." Mi posa una mano sulla faccia come a volermi scacciare, ma io gliela lecco e lei la ritrae continuando a ridere, come se l'incubo fosse evaporato, come se l'avessi trasformato in sogno.
"Puoi baciarmi tutta la notte, Dam?"
Una notte soltanto, Leila?
[Per tutto l'oro del mondo, è soltanto acqua in un bicchiere,
se non ci sei tu.. ]
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