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Sesto racconto

Scrivi 400 parole su un musicista, delle chiavi e un ascensore.

Sesto racconto

Jay

Il distributore dell'acqua in fondo al corridoio era mezzo vuoto. Il bottiglione rovesciato che fungeva da cisterna ribolliva di enormi bolle d'aria ogni mezzo minuto, il ché lo faceva somigliare all'interno di uno stomaco affamato e brontolante.

Jay si premette il palmo di una mano sull'addome e soffocò un lamento. Stava morendo di fame. Peccato che avesse accidentalmente dimenticato il portafogli all'interno della sala prove, insieme alle chiavi di casa, a quelle della moto e al resto dei suoi averi. Cellulare compreso.

Era seduto nel bel mezzo del secondo piano della Park&Co Entertainment da quasi due ore, in attesa che qualcuno venisse in suo soccorso. Peccato che il suo collega e chitarrista Ryan, l'unico di sua conoscenza con le chiavi, si fosse dato malato per il resto della settimana.

Sbuffando un fiotto d'aria calda dal naso gettò il capo all'indietro con espressione sofferente e accolse volentieri il sordo dolore che sentì alla nuca, quando questa venne a contatto con la parete alle sue spalle.

Contemplò di tornare alla reception e tentare di corrompere l'uomo al bancone. Gli erano rimasti pochi spiccioli nelle tasche, ma forse così sarebbe risultato abbastanza pietoso da ottenere un passe-partout. Poi immaginò gli uomini della sicurezza scortarlo cortesemente fuori dall'edificio e rinunciò. Rimase quindi a guardare l'erogatore con sguardo assente, sperando che qualcuno che vi lavorasse passasse di lì.

Quando, un quarto d'ora dopo, si accorse che attendere di essere salvato non avrebbe fruttato nulla si alzò. Si riempì tre bicchieri colmi fino all'orlo e li sorseggiò lentamente, osservando le bolle d'aria far brulicare l'acqua.

Gettò la plastica in uno dei tre cestini allineati a ridosso della parete, senza far caso alle etichette della raccolta differenziata, e con l'ascensore salì all'ultimo piano. Era chiaro che non sarebbe tornato a casa ancora per un po', quindi si disse che sarebbe stato meglio trovare un modo per impiegare quel tempo.

Jay Bulter era sempre stato curioso. Anche a venticinque anni compiuti, continuava ad esserlo nel modo in cui lo sono i bambini: rumoroso e invadente.

"Che interesse ha lei, qui?".

Fu un caso che nel momento in cui decise di aprire una porta a caso, tra le tante che si affacciavano sull'infinito corridoio del piano, la signorina Edwards stesse uscendo dalla sala conferenze accanto. Aveva un tono di voce acuto, che Jay proprio non sopportava, ed un modo di parlare risoluto quanto superbo che gli faceva rizzare i peli sulle braccia.

Non credeva potesse esserci una giovane donna più noiosa di quella. Sin dal primo momento in cui l'aveva vista al colloquio con la Park&Co Entertainment, di cui era amministratrice delegata, non le era stata un granché simpatica.

Dimostrava non più di ventisette anni. Aveva un viso a cuore, dalla pelle liscia e rosea in prossimità degli zigomi, messi in risalto da un'ombra marrone di quello che doveva essere trucco. Jay doveva ammettere che fosse bella e che il suo portamento a tratti snob non facesse altro che sottolinearne il bell'aspetto.

Però era rigida come un pezzo di legno, incartata nella stessa gonna a tubino dal lunedì mattina al venerdì sera, quando Jay la vedeva per l'ultima volta lasciando il palazzo. Sembrava che non si fosse mai divertita in vita sua. Non che non ne avesse voglia però, dava l'impressione che non avesse idea da che parte cominciare.

"In realtà, la stavo proprio cercando" mentì, abbozzando un sorriso che risultò leggermente plastificato. Se lei se ne fosse accorta, non lo diede a vedere. Si limitò ad annuire solennemente e a stringere al petto la pila di cartelle che teneva tra le mani. Jay spolverò con lo sguardo la scollatura della camicetta rosa cipria e ridusse le labbra ad una linea tesa.

"Ah, si? E per quale motivo?" ribatté lei, spostando il peso del corpo su una gamba. Indossava tacchi modestamente alti, di un tonalità leggermente più scura della camicia. Le scarpe non facevano altro che slanciare le sue gambe lunghe, facendone apparire la figura longilinea.

"Ci sono stati dei problemi ... tecnici, di sotto" balbettò, incerto su quali parole utilizzare. La stoica signorina Edwards, della quale non ricordava mai il nome di battesimo, si accigliò visibilmente e affilò lo sguardo.

I suoi occhi azzurri perforarono le iridi scure di Jay, che si sentì quasi trafiggere. Se c'era qualcosa in cui eccelleva, oltre al suo lavoro, era far sentire in soggezione le persone. Specialmente i musicisti emergenti come lui.

"Si spieghi". Il suo fu un vero e proprio ordine, dettato mentre si portava davanti agli occhi l'orologio avvinghiato al polso sottile. Jay la osservò attentamente mentre se lo scuoteva davanti sotto al naso, facendone tintinnare la cromatura argentata con un paio di braccialetti metallici che scampanellavano animatamente.

"Non mi chieda come io abbia fatto, perché non le saprò fornire una spiegazione in grado di non lasciarla perplessa, ma mi sono chiuso fuori dalla sala prove del secondo piano. Tutti i miei effetti personali si trovano al suo interno e i miei colleghi hanno timbrato l'uscita ore fa".

L'amministratrice lo guardò con uno sguardo velato di disprezzo, misto ad incredulità ed un pizzico di quello che Jay volle identificare come divertimento. Probabilmente, ragionò mentre iniziavano la discesa in ascensore, lo stava semplicemente deridendo. Però lei non proferì parola, nemmeno per rimproverarlo, e gli istruì di seguirla.

"Sono diretta verso casa, quindi posso aiutarla io" aveva detto, premendo il tasto con il numero del piano da raggiungere. Jay l'aveva ringraziata con un sussurro, tentando di non sovrastare il silenzio con la sua voce. Non era affatto imbarazzante, piuttosto piacevole. Lei non sembrava nemmeno prendere in considerazione la sua presenza e lui, dal canto suo, non aveva alcuna intenzione di scambiarci più battute del necessario.

Quando la signorina Edwards estrasse il suo "via libera" e lo fece scivolare all'interno dell'apposita apertura a scorrimento, Jay si sentì quasi felice di averla erroneamente incrociata durante la sua missione di avanscoperta dell'azienda.

"Non commetta più un errore simile. È stato fortunato ad incontrarmi dopo la fine dei turni, ma la ruota della buona sorte potrebbe non girare sempre in suo favore" gli disse con voce leggera. Se non sapesse che la direttrice mantenesse sempre un'espressione perennemente stoica, Jay avrebbe potuto pensare che gli stesse sorridendo in quel momento. Strizzò brevemente gli occhi e quando li riaprì dovette trattenere un sussulto.

La signorina Edwards, un metro e settanta di puro ghiaccio ed etica lavorativa, aveva un angolo della bocca sollevato e le sopracciglia rilassate al centro della fronte. Fu quasi strano vederla senza il solito corruccio ad incresparle la pelle in tante rughette d'espressione, ma al contrario di quanto pensava, fu gradevole.

Possedeva un fascino non indifferente a prescindere da qualunque espressione le piegasse i lineamenti morbidi del viso, ma con quel mezzo sorriso a sollevarle le guance piene Jay la trovava di una bellezza quasi disarmante.

"Certo" fu l'unica parola che riuscì a mormorare. Qualunque altro costrutto periodico, era sicuro, sarebbe stato sminuzzato e sputacchiato dalle sue labbra incerte.

"Allora buona serata" lo salutò lei, muovendo appena il capo in avanti. Aveva tutta l'aria di essere un inchino di cortesia, decisamente inusuale nell'ambiente lavorativo nella quale erano entrambi impegnati. In generale, né i musicisti né i direttori di alto rango erano propensi a mostrare gesti di gentilezza.

Mentre lei si allontanava già lungo il corridoio, a passo lento per evitare di inciampare con i tacchi nel tappeto srotolato lungo il pavimento, Jay ricordò. "C'è un ristorante giapponese qui vicino" esplose, con un tono di voce decisamente troppo alto considerata la breve distanza che li separavano.

"Mi scusi?" Lei si girò e lo squadrò con un sopracciglio alzato. Aveva recuperato di colpo tutta la freddezza che aveva precedentemente messo da parte. Jay deglutì e tentò di capire perché avesse improvvisamente una voglia matta di portarla fuori a cena.

Lei lo studiò con aria perplessa e lui sembrò improvvisamente ricordare del perché l'avesse sempre irritato tanto. Stranamente, questa volta, il fastidio provocato dal suo atteggiamento calcolatore non diminuì la voglia di stare in sua compagnia.

"So che è stata in Corea per lavoro di recente. Pensavo le sarebbe piaciuto ... mangiare qualche piatto orientale a fine turno, come è usanza lì" spiegò Jay. Aveva il suo sguardo glaciale ancora puntato addosso e il cuore gli era risalito su per la gola. Adesso pulsava sangue a tutta birra, facendogli sentire il battito fin dentro le orecchie.

L'amministratrice annuì lentamente e sollevò di nuovo un angolo della bocca per sorridergli. Gli disse che il giapponese differiva moltissimo dalla cucina coreana e si incamminò di nuovo lungo il corridoio, dandogli le spalle.

Jay rimase interdetto. Aveva i palmi delle mani sudatissimi e lo zainetto, stra-colmo della roba che aveva recuperato dalla sala prove, era un macigno che gli gravava sulla schiena. La guardò allontanarsi con gli occhi spalancati fin quando non arrivò alla fine dell'andito, in prossimità di una svolta a sinistra.

Una volta sorpassato, sarebbe sparita dietro il muro e l'avrebbe rivista chissà quando. Probabilmente non aveva importanza, perché avrebbe fatto di tutto per evitarla dopo quell'imbarazzante scambio.

Però lei si fermò e tornò a guardarlo. Questa volta aveva un vero e proprio sorriso a distenderle le labbra e un braccio leggermente sollevato in sua direzione, come per chiamarlo a sé.

"Cosa fa? Non viene?".

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