Racconto
Leila
Ogni giorno si guarda le scarpe nel riflesso delle scale mobili e ammira quelle caviglie, sottili come fili, di cui va tanto fiera.
(Durante il tragitto da casa all'università).
Quando entra in classe artiglia i libri di testo con le unghie e se li preme al petto. E se non ha nulla da abbracciare, si stringe le dita nei palmi delle mani e le strofina nervosamente tra di loro, mentre scruta la distesa di banchi in cerca di un posto vuoto.
Sceglie sempre le ultime file e le panche più vicine all'uscita.
Si accomoda con studiata lentezza, calcolando ogni movimento per non creare rumori inutili. Dispone ordinatamente il quaderno e l'astuccio in una pila sul tavolo e spera intensamente che nessuno le chieda di sedersi al suo fianco, solo per non doversi infilare lo zaino pesante tra le ginocchia e fargli spazio.
(Una lezione delle tante).
Quando è in giro da sola, il che equivale a dire la maggior parte del tempo, più che passeggiare cammina a passo di marcia.
Se non è di fretta si costringe a mantenere un'andatura moderata solo per i primi dieci metri dopo il cancello di casa, poi le gambe lunghe prendono velocità da sole e le sembra quasi difficile trattenersi dal correre.
Non si cura delle persone che le gironzolano intorno, perché col tempo ha imparato ad evitare ogni tipo di ostacolo. Adesso è in grado di scivolarvi accanto come se sotto i piedi avesse lame di metallo e il marciapiede fosse coperto di ghiaccio.
La sua velocità si fa scostante solo quando al mattino il tempo è soleggiato e l'aria quasi tiepida.
Allora è raro che non si conceda qualche secondo in più per bearsi del tepore delle zolle d'asfalto illuminate dal sole, riuscendo quasi ad ignorare persino la presenza ingombrante della gente che le zoppica attorno.
(Ogni mattina, nel breve tratto a piedi fino alla fermata della metropolitana).
A mezzo isolato dal condominio in cui vive c'è un corridoio di enormi murales colorati.
Davanti vi sono affilati un paio di cassonetti straboccanti e disgustosamente maleodoranti, ma dalla parte opposta una cornetteria ha le porte d'ingresso sempre aperte.
Il profumo dei dolci giunge in strada intenso e viscoso ogni qual volta ce lo porti il vento e se è una buona giornata, riesce persino a spazzare via l'odore dolciastro e nauseabondo dell'immondizia.
A volte la fragranza delle creme è così forte da farle venire l'acquolina in bocca e le sembra quasi di sentire incastrate tra i denti le croccanti sfoglie dei cornetti, ammucchiati nei banconi d'esposizione. Altre è solo una traccia labile dispersa tra gli odori stagnanti della città, come un sogno in una notte di incubi.
Lei vi passa davanti con quel suo caratteristico passo di marcia quando il cielo inizia a tingersi di arancione all'orizzonte e le nuvole diventano dello stesso colore slavato dei cachi non ancora maturi.
A Roma il tramonto è una pennellata stracarica di colori caldi, spezzata dalle facciate scolorite dei palazzi. Ne intravede sprazzi sconnessi solo quando se li va a cercare con gli occhi, tra fili ad alta tensione e pannelli pubblicitari.
(Lati positivi di quel breve tratto a piedi fino alla fermata della metropolitana).
Di sera, almeno in periferia, il cielo si fa fumoso.
È come se lo smog di un'intera giornata di lavoro salisse su tutto insieme e creasse una cappa di vapore sopra la città.
Allora l'intero quartiere le ricorda l'interno di una pentola dove è stata messa a bollire l'acqua. I palazzi assumono una sfumatura grigiastra e diventano pareti di alluminio.
Quando accade, si sente schiacciata tra il cemento polveroso e il coperchio di nubi che le svolazza sopra la testa.
Allora, prima che il buio possa conquistare il cielo si rinchiude dentro casa e lascia le tapparelle aperte, tirate tutte su.
Dal suo lettino singolo, imbacuccata nella coperta di sua sorella, resta a guardare le persiane scrostate del palazzo di fronte.
Ha notato che rimangono sempre aperte quando il cielo è limpido, anche durante la notte, e che si richiudono non appena iniziano a cadere le prime gocce di pioggia, come fanno alcuni fiori quando muore il sole.
(I tramonti in città sono tutta un'altra storia).
Il giorno in cui fatica ad aprire la porta di servizio dell'ascensore, cigolante e arrugginita come tutte le altre del fabbricato, un signore di mezza età le offre il suo aiuto con un sorriso semplice e poche parole di cortesia.
L'uomo la congeda dopo averla vista premere il tasto del piano terra tra gli altri sette disponibili e sparisce dietro la porta dell'appartamento davanti al suo.
Ella lo rivede casualmente per tutta la settimana successiva e ogni incontro, seppur fugace, le lascia una piacevole sensazione nel fondo dello stomaco.
Non appena mette piede fuori di casa rivede l'espressione pacata e socievole di lui, e in qualche modo si sente meno sola. La sua diventa una presenza famigliare, che le da quel tipo di sicurezza che solo un adulto riesce a conferire.
Un giorno di metà Novembre lo vede trascinare a fatica fuori dall'ascensore difettoso tre buste piene di alimentari. Le viene istintivo chiudersi la porta di casa alle spalle ed affrettarsi ad offrirgli il suo aiuto.
"Non ti preoccupare" le ripete svariate volte, anche mentre lei gli sorride e si fa già strada oltre la soglia di casa.
L'interno dell'appartamento è una fotocopia del suo, così le risulta facile orientarsi all'interno di quella dimora sconosciuta.
"Puoi lasciarli vicino al divano, grazie mille" istruisce lui, posando altre due buste accanto alla sua.
La ringrazia qualche altra volta e le offre un bicchiere d'acqua, che si allontana immediatamente a recuperare.
L'appartamento ha gli stessi muri giallo crema della sua stanza e le stesse identiche persiane di legno intaccate dal tempo e dalle intemperie. Però, al contrario della sua, quella ha l'atmosfera che una casa vera dovrebbe avere.
Ha un odore straniero di famiglia, di vissuto e di abitudine che le fa salire le lacrime agli occhi.
Quando l'uomo torna dalla cucina, lei gli sorride e nasconde il viso umido dietro il vetro del bicchiere.
"Vuoi altro?" le chiede mentre glielo riconsegna. Lei scuote la testa e fa qualche passo verso la porta.
"No, adesso vado. Arrivederci" gli dice mentre lo osserva caricarsi la spesa sugli avambracci.
L'inquilino non protesta e la lascia andare con qualche altra parola di gratitudine e di congedo.
La guarda uscire finché nell'aria non risuona lo schiocco del chiavistello, poi svuota il contenuto delle buste sul tavolo della cucina e inizia a riordinare.
(La solitudine non rende scorbutici).
Ad un certo punto inizia a credere di poter andare avanti a forza di serie televisive coreane e dei biscotti al cioccolato che una delle sue coinquiline le ha proibito categoricamente di toccare e che lei mangia ugualmente.
Pensa di non aver bisogno di nulla, se non del suo datato ma affidabilissimo laptop e di una connessione internet.
Sicuramente non sente il bisogno di parlare con nessuno che non sia sua madre, tantomeno di pensare.
La vita sembra essersi arrotolata su se stessa e le ore passano senza significato, in un battito di ciglia.
Neanche i pasti riescono a restituirle una sorta di stabilità, visto che se non è super affamata non si preoccupa neanche di fare la spesa.
Quindi il suo presente è un semplice alternarsi di lezioni dalla dubbia utilità e faticosissime commutazioni dall'ascensore al tram 19, che porta all'Università.
E le va benissimo vivere così. Forse anche troppo.
(A volte è più semplice far finta di non sentire nulla).
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