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Primo racconto

Scrivi almeno 800 parole su una relazione che sta finendo e un libro. Utilizza tutti e cinque i sensi per le tue descrizioni.


Kay

Kay svuotò il contenuto del borsone nel cesto della biancheria sporca e si lasciò cadere sul letto, esausto.

Era giunto a casa correndo, con il cuore in gola e il petto dolorsamente gonfio d'aria. 

Abbandonò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi, inspirando profondamente il profumo dell'ammorbidente preferito di sua zia.

Per cinque minuti interi, rimase immobile, steso sulle lenzuola pulite, fingendo che il mal di testa non gli stesse martellando le tempie.

Nel miscuglio indefinito di colori stampato dietro le sue palpebre, tra fulmini verde acido e chiazze blu elettrico, fece capolino l'espressione vittoriosa di Duncan. 

Kay aprì gli occhi e si tirò a sedere di scatto.


«Quel pezzo di merda! E anche lei! Due pezzi di merda!» sputò tra i denti, non curandosi del forte riverbero del suo tono di voce sulle pareti.

Colpì il materasso con il palmo aperto della mano e in un moto di rabbia si voltò a pancia in giù, schiacciando il viso tra i cuscini e urlando insulti a più non posso.

Non solo le aveva rubato la ragazza, Duncan lo aveva stracciato anche durante l'allenamento di lacrosse. Le due cose a cui teneva di più, rovinate da quel deficiente palestrato.


«Kay! Kay, cosa stai combinando lì dentro?» sua zia Erin entrò di soppiatto nella cameretta, lasciandosi la porta aperta alle spalle.

Kay scosse furiosamente la testa tra le coperte e sventolò una mano in aria, tirando su il pollice per farle capire che era tutto okay.

In realtà nel suo mondo niente era okay, ma la zia Erin non doveva saperlo. Sarebbe entrata nel panico più totale.

«Sei sicuro che vada tutto bene? Sembri essere fuori di te» indagò la donna di mezz'età, avvicinandosi cautamente al suo lettino singolo.


Kay premette una guancia contro il cuscino e prese una profonda boccata d'aria, tenendo gli occhi fissi sul cielo aranciato fuori dalla finestra.

«Solo leggermente» le rispose in un mezzo susssurro. 

«Come? È successo qualcosa? Ne vuoi parlare con tuo zio? Facciamo la pasta stasera, possiamo parlarne a tavola con calma» propose lei, sorridendogli teneramente. 

In quel sorriso in realtà si nascondevano decine di dubbi e preoccupazioni  impossibili da dissolvere.

È già difficile crescere un adolescente, figurarsi se non è nemmeno tuo figlio.


«No, zia. Non serve, tutto apposto. Ho già risolto. È solo che ... avevo bisogno di sfogarmi un attimo» mentì Kay, stendendosi sulla schiena e incrociando le braccia dietro la nuca.

Sfoggiò il suo sorriso più ammaliante e le schiacciò un occhiolino scherzoso, certo che se la donna se la sarebbe bevuta.

«Va bene, ma chiamami se hai bisogno di qualcosa» lo informò, ma alle orecchie di Kay suonò più come un rimprovero che una proposta.

Lui annuii e impaziente, la guardò uscire dalla stanza e tornare in cucina.


Nonostante la porta fosse rimasta aperta solo per una manciata di minuti, si era diffuso già il fragrante odore della sua famosa torta di mele.

Ispirò intensamente l'odore dolciastro e si rilassò di nuovo. 

Purtroppo, il sorrisetto sornione di quel deficiente di Duncan e la risata cristallina di Camilla fecero presto irruzione tra i suoi pensieri.

«Dannazione!» Kay sbuffò, uscendo in corridoio.

Si trattenne a stento dallo sbattere la porta del bagno per la stizza, ma voleva evitare a tutti i costi che zia Erin tornasse di sopra di corsa.


Togliendosi rabbiosamente i vestiti di dosso, si infilò sotto il getto d'acqua fredda e rimase immobile.

Tra tutte le persone con cui Camilla poteva tradirlo, aveva scelto di baciare proprio la sua nemesi. E appena fuori il campo di lacrosse! Come se quel giorno non avesse preso parte agli allenamenti. Come se fosse invisibile.

Kay scosse la testa e si versò una quantità spropositata di bagnoschiuma sul palmo della mano, strofinandosi il torso con vigore. 

La sua mente non aveva mai tollerato nemmeno il suono del nome di Duncan e invece, nelle passate settimane era stato un punto fisso tra i suoi pensieri.


Impiegò meno di dieci minuti a vestirsi ed uscire di casa, lasciandosi dietro un uragano di maleodoranti vestiti sgualciti e asciugamani bagnati. 

In un impeto di rabbia afferrò la versione tascabile di Io e Marley dal mobile all'ingresso e infilò le infradito. 

La porta di casa si chiuse con un botto, che troncò nettamente il vago saluto che aveva rivolto alla zia.

Kay strofinò i polpastrelli sulla carta ruvida delle pagine e aumentò il ritmo dei suoi passi, marciando per un isolato intero senza fermarsi mai.


La casa in cui viveva la famiglia Monrose si trovava al 12 di Rowan Street, incastrata tra un piccolo negozio di alimentari gestito dalla seconda generazione di una famiglia di immigrati francesi e la casa a due piani di Mark Tapei, il migliore amico dell'incredibile Duncan Reye. 

Kay ridusse gli occhi a due fessure e si immobilizzò sul marciapiede, di fronte al cancelletto zincato. 

Per qualche secondo contemplò la possibilità di trarre un grosso respiro e iniziare ad urlare la sua indignazione ai quattro venti, aspettando che il vicinato si svegliasse dal torpore del tardo pomeriggio e accorresse in strada per assistere alla sua pazzia.

Fantasticò su quell'idea per un paio di secondi, poi tirò fuori il cellulare e compose a memoria il numero della sua, ormai, ex-ragazza.


«Pronto? Kay? Oh mio dio, stai bene? Sei corso via dal campo prima che potessi parlarti. Oh mio dio, mi dispiace così tanto». 

Kay sospirò e strinse la presa sulla loro copia di Io e Marley. Quella che lui le aveva riletto fino all'estenuazione per le prime due settimane in seguito alla morte del suo amato Golden Retriever, Bambi.

«Oh mio dio, Kay» singhiozzò con voce stridula.

La linea telefonica ronzò rumorosamente, come se Camilla si fosse allontanata momentaneamente dal ricevitore. Sembrò sfrigolare per qualche istante e poi sprofondò nel silenzio.

Aveva riattaccato.


Kay rimase inerte, con le braccia penzoloni lungo i fianchi e le guance bagnate.

Poi la serratura della porta d'ingresso scattò un paio di volte e fu investito da un turbinio di lunghi capelli biondi e braccia pallide.

Camilla se lo strinse addosso con forza inaspettata, singhiozzando tra i suoi ricci neri come se Bambi fosse morto un'altra volta.

«Lasciami» sussurrò a malapena Kay.

Il petto gli si strinse dolorosamente attorno alla cassa toracica, ma si costrinse a non singhiozzare rumorosamente, come invece stava facendo lei.

«Lasciami» ripetè, questa volta con decisione, facendo leva sulle braccia per staccarsela di dosso.


«Oh mio dio, Kay! Mi dispiace». 

Camilla aveva il viso bagnato e arrossato, macchiato di nero sotto gli occhi. La sua pelle sembrava la tela di un astrattista.

Kay dovette distogliere lo sguardo dai suoi occhi verdi per impedirsi di passarle un pollice sulle guance. Avrebbe voluto consolarla, dirle che anche se lei lo stava pensando, lui non la odiava. 

Che non l'avrebbe mai odiata. E non perché non avrebbe voluto, ma perché semplicemente non ci sarebbe mai riuscito. 

«L'hai detto già» disse invece, freddo come un blocco di marmo.

Allungò un braccio e le mollò il libro tra le mani, iniziando già ad allontanarsi.


Camilla si lasciò scappare un singhiozzo fortissimo, più simile ad un tuono che ad un singulto di dolore.

Kay la guardò interdetto mentre si portava Io e Marley davanti alla bocca per bloccare i suoni che ne fuoriuscivano.

Fu sul punto di approcciarla di nuovo, poi lei lo guardò tra le lacrime e singhiozzò il suo nome seguito dalla solita cantilena. 

«Mi dispiace tanto, Kay. Oh mio dio».

Kay strizzò gli occhi e corse via.

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