Mobbing
Il mio primo giorno di lavoro, e ancora devo capire esattamente il mio ruolo.
Avevo pensato che Filippo mi portasse con lui nel fare il giro tra i suoi pazienti, ma probabilmente, anche se non lo vuole ammettere, mi tiene in disparte per non far parlare di noi.
“Noi.”
Un aggettivo che potrebbe indicare un rapporto, una preferenza, un occhio di riguardo che deturperebbe quello che da qualche settimana si è creato tra me e lui, formando malgrado tutto l’idea di un noi.
Mi sto occupando di ordinare le cartelle cliniche di questa settimana. Probabilmente, ad un occhio inesperto, potrebbe apparire un lavoro semplice, ma considerando che ci sono oltre cinquemila pazienti al giorno in clinica e ognuno ha la sua bella cartella clinica di 30 e più pagine, si può facilmente capire che Filippo mi ha relegato nell’archivio probabilmente per i prossimi tre giorni.
Il mio compito è quello di scannerizzare le cartelle e riportarle nei database della clinica.
Devo dire che il programma che sto usando per catalogarle è davvero molto facile, per fortuna è lo stesso che usavamo in università.
Sono le 16:00 e il mio turno è finito già da quattro ore, ma ero così intenta a voler portare a termine il mio lavoro che non ho badato nemmeno di aver saltato il pranzo. Comunque, il risultato è raggiunto: volevo finire e ci sono riuscita.
Salvo tutto e mando un messaggio a Filippo che al momento non visualizza perché non è in linea.
Salgo da mamma.
Anche a lei avevo mandato un SMS per essere sicura che stesse bene, quindi non era preoccupata per me, sapeva benissimo che sarei salita tardi.
Avevo gli occhi un po’ arrossati per aver lavorato tante ore davanti a uno schermo, quindi dopo aver fatto un po’ di compagnia a mamma ed essermi subita il terzo grado per sapere tutto ciò che avevo fatto nel mio primo giorno di lavoro, decido di fare una doccia e riposare un po’.
Lascio il mio telefono in camera e mi chiudo in bagno.
Finita la doccia, mi appoggio sul letto, ma in quell’istante, come una furia, sento entrare Filippo.
“Che succede? Perché sei qui?”
“Ciao Enza, come stai?”
Come se io non avessi parlato, mi ignora completamente e, dopo aver ascoltato lo stato di salute di mamma, mi guarda chiedendomi di andare un attimo con lui.
È inutile fare domande tanto a lui non piace dare risposte, quindi lo seguo sperando di non aver commesso casini con il lavoro.
Mi porta nella stanza affianco a quella di mamma, che è vuota, e il suo sguardo non promette nulla di buono.
“Ragazzina, a che ora hai finito di lavorare?”
Non mi conviene dire bugie visto che ha telecamere in tutto l’ospedale e potrebbe avermi visto, quindi vado sul vago e dico: “Non lo so, quando ho finito il mio lavoro.”
“Ti rendi conto che hai catalogato 7000 cartelle con un programma che non so nemmeno io come fai a conoscere, visto che sono l’unico che lo sa usare, e di più hai saltato il tuo pasto per lavorare quattro ore in più?”
“Mi stai dicendo che ho commesso casini ed ora sei arrabbiato?”
“Sì, sono arrabbiato con te.”
“Ti prometto che rimedio.”
“Non hai commesso errori, Alessandra. Non sono arrabbiato per quello, ma perché non devi dimostrarmi nulla, e non hai bisogno di distruggerti per fare il tuo lavoro.
Quelle cartelle richiedevano almeno tre giorni di lavoro, ma tu hai voluto fare tutto e subito, saltando anche il pasto tra l’altro e senza chiedere aiuto.”
“Scusami, Filippo, mi sono fatta prendere la mano.
Purtroppo non riesco a fare le cose a metà: quando inizio qualcosa lo devo portare a termine.
E poi a Milano usavamo questo programma e, sapendolo gestire, non ho pensato di chiamarti.
Ma ti prometto che non capiterà più se mi dai un’altra possibilità.”
Il suo sguardo diventa più dolce e si avvicina tantissimo al mio spazio vitale. Un solo passo ancora e lo violerebbe in maniera irrecuperabile.
“Vediamo se vuoi essere perdonata: stasera ceni con me, ragazzina, altrimenti il tuo capo potrebbe decidere di ripensarci.”
“Bene, questo si chiama mobbing.”
Sorrido perché entrambi sappiamo che avrei accettato quell’invito.
Siccome deve avere sempre l’ultima parola, mi chiede: “Sai da dove viene la parola mobbing?”
“Professore, la sua alunna ascolta. Mi dica pure,” lo prendo in giro.
“Anche se ha preso il significato che gli hai appena attribuito, in origine, in etologia, significava l’insieme dei comportamenti aggressivi adottati da certe specie di uccelli per difendersi da un predatore. Quindi, signorina, se tu continui a voler fare il predatore, io continuerò a minacciarti per prendermi cura di te e di conseguenza di me.”
Il sorriso che ha accompagnato questa conversazione si spegne sul mio viso per l’imbarazzo.
Mi ha appena detto che il suo bene dipende dal mio.
Se l’italiano, che è la mia lingua ufficiale, non è cambiato negli ultimi dieci minuti, mi ha appena dichiarato qualcosa che non riesco nemmeno a ripetere per quanto possa essere pericoloso vista la situazione.
Alessandra è il tuo capo.
Alessandra non ha voluto dire quello che hai pensato.
Alessandra siete solo amici. Alessandra sei una stupida che vede unicorni che volano.
Il mantra funziona.
Ritrovo il mio sorriso e gli dico che devo andare a riposare.
Anche lui sorride, un sorriso caldo e avvolgente che mi mette di buon umore. Alza le sue grandi mani e mi dà un pizzicotto sulla guancia, come si farebbe con una bella bimba con le guance rotonde e le trecce.
“Dai, Filippo, non sono una bambina,” gli urlo.
“Sì che lo sei… sei la mia ragazzina.”
Meglio chiudere qui il discorso perché ora davvero avrò le guance rosse come una scolaretta, quindi lo saluto e vado via.
Essendo molto più alto di me, mi parla tranquillamente sfiorandomi l’orecchio mentre sto uscendo, ricordandomi che sarei stata a cena da lui per rimediare al mio errore.
A volte ti rendi conto esattamente che continuare a tenere acceso un accendino ti finirà per farti scottare, ma che posso farci se Filippo riscalda la mia vita dal freddo che da tanto tempo si era impossessato della mia curiosità.
Non serve dirgli che andrò da lui perché i miei occhi, il mio sorriso e il mio cuore stanno urlando un sì deciso al suo invito.
Adesso basta pensare a lui.
Devo occuparmi di mamma, non voglio farla sentire trascurata, anche se già so la sua felicità quando le dico che vado da Filippo.
Ma anche in questo devo essere molto cauta.
Non voglio dare false speranze a qualcuno che di delusioni nella vita ne ha avute fin troppe.
Merita solo certezze tangibili e l’idea che tra me e Filippo possa nascere qualcosa è pura illusione.
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