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6. Cotton Candy Kisses

A chi, nonostante il dolore,

osa cercare la luce nascosta nell'oscurità,

scoprendo in ogni bacio rubato e in ogni parola tagliente

il seme di una nuova verità.


«Che ci fai qui?» la domanda mi sorge spontanea, dal momento che lo scorgo sulla soglia del mio appartamento. Il mio tono, tagliente come una lama, mi ricorda quanto io non lo sopporti: vorrei solo che sparisse, senza spiegazioni o altro.

Sono passati sette giorni da quella mattina in cui mi ha riaccompagnata e lasciata a casa in fretta e furia, come se fossi l'ultimo scarto di questo mondo.

Quel gesto, tanto brusco da paralizzarmi, ha fatto scappare le parole e perfino le mie corde vocali sembravano essersi dileguate. Nel corso della settimana, ogni attimo, passato tra passeggiate in spiaggia con Alex, giornate frenetiche di lavoro, notti trascorse a guardare serie tv, si è trasformato in un muto scontro con quel momento. Il ricordo di quegli istanti mi ha tormentata, risvegliando dentro di me una rabbia crescente e inesauribile.

Sono incredibilmente arrabbiata. Non posso giustificare il suo comportamento: dall'atteggiamento avuto assieme ai suoi amici, fino all'atto più grave, il fatto di non mostrare nemmeno un briciolo di gratitudine per averlo aiutato a rimettere in ordine il disastro che avevano fatto. E per essere rimasta al suo fianco nonostante tutto. Tantomeno ha provato a darmi una spiegazione per diversi punti che mi hanno tartassata per tutta la settimana.

Lui.

«Non mi hai ancora ridato la giacca» dice, con un tono di voce che tradisce una calma glaciale, mentre le sue mani, infilate nelle tasche dei jeans neri, lo rendono menefreghista come al solito. Indossa una t-shirt bianca con uno scollo rotondo.

L'unica cosa a cui riesco a pensare in questo momento è che è come se lui si nutrisse dell'apatia che trasuda in ogni parola.

Quelle poche parole, pronunciate senza alcuna emozione, accendono in me una nuova fiamma di indignazione. Per un breve istante, avevo sperato che la sua presenza indicasse un tentativo di scuse, un'ombra di rimorso. Ma ora mi rendo conto: per lui le scuse sono un lusso inutile.

Senza perdere tempo, lo lascio in piedi lì, confuso sulla soglia, e mi reco nella mia stanza. La giacca, ancora immobile nel punto in cui l'avevo lasciata, mi osserva silenziosa. La prendo e, una volta tornata in soggiorno, gliela lancio con una grazia che non mi appartiene: un gesto automatico, un atto di ribellione contro la sua indifferenza. Lui la afferra, senza un'espressione di soddisfazione, mente mi allontano.

«Bene, hai la tua giacca. Ora puoi andartene» dico, mentre le mie parole si fanno secche, quasi taglienti, e io mi preparo a voltare pagina.

Ma lui non si ferma qui. «Non sono qui solo per la giacca ribatte, e per un attimo percepisco in quella frase la possibilità, forse vana, di parlare di ciò che è accaduto. Sollevo un sopracciglio, incrocio le braccia e lo fisso, invitandolo a continuare. Dobbiamo andare in un posto per incontrare una persona» conclude, come se quella fosse la spiegazione di tutto.

Le mie parole si fanno scarse, il silenzio in me è carico di amarezza e disillusione. Avevo riposto speranze, forse troppe, nell'illusione che lui potesse andare oltre ciò che appare. Ora, però, mi sento satura.

«Se credi davvero che io abbia ancora la minima intenzione di venire con te, ti sbagli di grosso!» esplodo, e la mia voce rimbalza lungo il corridoio fino a far chiudere la porta a lui, come se potessi imprigionarlo all'interno di quel breve istante. Ora siamo soli, e il silenzio pesa più del terrore. «Sei solo un ingrato, non ho intenzione di aiutarti in nulla!» continuo, puntando il dito contro di lui, come a voler segnare un limite.

«Senti... prova a dire, sfiorandosi il ponte del naso, come se le mie parole fossero un fardello insopportabile.

No, senti tu: se pensi che quanto è successo la settimana scorsa sia normale, se credi che io lo lascerò passare, ti sbagli di grosso» ribatto, e stavolta lui incrocia le braccia, quasi a creare una barriera tra di noi.

Non puoi semplicemente tenere a freno questa tua dannata mente da impicciona e lasciare stare?» dice, visibilmente irritato. Ma non gliela darò vinta. Non stavolta.

«Non ci penso nemmeno. Me lo devi.»

La sua risposta è un taglio netto nell'aria.

«Io non ti devo niente.» Ribatte lui, e questo rifiuto mi ferisce più di quanto dovrebbe.

«In tal caso, quella è la porta dico, indicando il varco. Con un gesto sprezzante mi siedo sul divano e accendo la TV, tentando invano di staccare la mente da ciò che sta accadendo. Qualche secondo dopo, uno sbuffo seguito da un improvviso scossone d'aria mi fa voltare lo sguardo: vedo il telecomando volare via, probabilmente ormai rotto, mentre Ryan si pone davanti a me, invadendo inesorabilmente il mio spazio vitale.

Se pensi che mi scuserò o ti ringrazierò, ti sbagli di grosso» inizia lui, con tono tagliente, quasi un ammonimento. «Non avevo previsto che i miei amici venissero a casa mia; altrimenti, non ti avrei portata lì.

Il suo discorso mi riporta all'amara constatazione. La sua ingratitudine penetra solo più in profondità.

Il fatto che tu non abbia nemmeno la minima intenzione di ringraziarmi ti rende un ingrato» dico, puntandogli il dito al petto. «Sono rimasta lì nonostante tutto, ho raccolto il casino che avete creato, e non sono andata via, perché mi sono preoccupata per te.

Appena le parole escono, mi rendo conto del contenuto. Che cosa ho appena detto?

Ryan mi fissa, e per qualche istante i suoi occhi sembrano cercare risposte. La sua bocca si apre appena. Poi però lo vedo accigliarsi. Io non te l'ho mai chiesto, però» mormora, con la voce meno rigida, quasi un rimprovero.

Il suo tono mi scava dentro: non mi era mai capitato di sentirmi così, di dover giustificare l'aiuto o l'affetto. Fino ad ora, il dare e il ricevere sono stati gesti naturali, spontanei, che non necessitavano di un conto da saldare.

«Non sempre c'è bisogno di chiedere aiuto. Se mi sento di aiutare una persona, lo faccio e basta dico, cercando di calmare il mio turbinio interiore. In quell'attimo, l'atmosfera si fa meno tesa, ma non per questo meno carica di silenziose domande.

In tal caso, non puoi pretendere ringraziamenti» replica lui, la voce ora più pacata ma ancora carica di quel rimprovero. Forse avrei dovuto far finta di nulla e andarmene.

D'accordo, hai ragione dico, e lui mi osserva con un'espressione confusa, come se non si aspettasse la mia resa. «Non prenderò più iniziative per aiutarti quando ne avrai bisogno.

«Io non ho bisogno di nessuno» afferma lui, e i nostri sguardi si incontrano, cercando verità nascoste da troppo tempo.

Bene, lo terrò a mente» replico. «Ma voglio comunque delle risposte.» Lui alza gli occhi al cielo, rassegnato, e poi aggiunge con un tono che tradisce una determinazione implacabile:

«Tanto non mi darai scelta, per cui prego...»

Il sottinteso nella sua voce mi fa rabbrividire.

«Fai uso di sostanze stupefacenti?» chiedo, ricordando che quella sera è stato l'unico a non prenderla, un dettaglio che ora assume un significato più profondo.

«No» risponde, con una serietà che mi sorprende.

«Perché?» insisto. Quasi ride alla mia domanda.

«Deve esserci un motivo per cui non mi drogo?» in effetti sembra lecito, se non fosse che la vende.

«Pensavo che dal momento che sembri molto propenso a venderla, fosse logico anche che ne facessi uso.»

«Chi compra droga segna il proprio destino. Io non sono come loro» afferma, e le sue parole si insinuano in me come una fredda verità.

Loro.

Lui.

Dietro quegli occhi freddi, la mia mente si riempie di domande.

«Chi è il lui di cui parlavi? Hai detto che non vuoi diventare come lui» domando con tono indagatorio, cercando di scorgere dietro queste parole un segreto.

I suoi occhi si spalancano, e per un attimo il mondo si fa più piccolo attorno a noi. La distanza si accorcia in un gesto improvviso: mi afferra il viso, portando il suo sguardo al mio livello.

«Stai facendo troppe domande» mormora, passando la lingua sulle sue labbra in un gesto stanco. «Ricorda chi hai davanti e non osare intrometterti troppo.»

Poi, avvicinandosi al mio orecchio, aggiunge con voce bassa e minacciosa:

«Non fare in modo che io debba ricordarti come stanno le cose.»

Un brivido mi pervade la schiena, e mi ritrovo a chiudere gli occhi, combattuta tra la voglia di rispondere e il timore di scavare troppo in profondità.

Forse ha ragione: mi sto perdendo in domande a cui non dovrei nemmeno pensare. L'unico legame che ci unisce è Paige, niente di più. Non mi interessa ciò che fa lui, o ciò che potrebbe fare.

Mi alzo con decisione, allontanandolo con un gesto brusco, e schiarisco la voce, dirigendomi verso la porta.

«Dove dobbiamo andare?» chiedo, la mia voce ora è ferma, mentre mi volto per guardarlo dritto negli occhi, notando per la prima volta un'espressione di compiacimento sul suo volto. Odio essere sempre io a farlo sentire una spanna sopra, ma in quel momento non ho scelta.

«Vedo che hai capito» ridacchia, e quel suono mi fa rabbrividire. Lo detesto, ma allo stesso tempo, la situazione mi trascina in un vortice dal quale non riesco a scappare.

«Allora?» sollecito, ansiosa di allontanarmi da quella atmosfera opprimente.

Te lo dico per strada. Andiamo» dice, uscendo senza darmi tempo per replicare, e chiama l'ascensore con un gesto secco. Lo seguo, il respiro ancora affannoso.

In pochi istanti raggiungiamo la sua Range Rover, parcheggiata in doppia fila proprio davanti al mio palazzo, un gesto audace che mi fa pensare a quanti trasgressori ci siano nelle strade di Los Angeles.

Mentre il traffico ci inghiotte rapidamente, lui appare stranamente tranquillo, diverso dall'uomo che poco prima mi minacciava nel mio appartamento.

«Luna Park» dice, improvvisamente, con una naturalezza disarmante.

«Cosa?» chiedo, perplessa.

«Stiamo andando al Luna Park. Al Pacific Park a Santa Monica per essere precisi.»

Una risata nervosa mi sfugge, quasi incredula.

«Mi stai prendendo in giro?» ribatto, ancora ridendo, sentendomi come se si stesse prendendo gioco di me. Ma quando il suo sguardo rimane serio, la mia risata si affievolisce. «Stai scherzando? Non metto piede in un luna park da quando ho otto anni» mi lamento, indicando il mio tailleur elegante. Sono appena uscita dall'ufficio: non posso certo presentarmi in un luogo così frivolo, vestita così.

I suoi occhi scrutano ogni dettaglio del mio outfit, stringendo il volante con una leggera esitazione che non avevo mai notato prima. Solitamente sicuro e impassibile, ora appare quasi vulnerabile.

Questo mi crea non poco imbarazzo.

«Non importa, nessuno lo noterà» dice, rompendo quell'improvvisa tensione con un tono apatico. Tossicchio, e poi il silenzio torna a regnare, finchè non raggiungiamo la nostra destinazione.

Il Pacific Park si staglia davanti a noi, un mondo di luci e colori che sfida la notte buia di Los Angeles. Da lontano, l'illuminazione sembra danzare, ma da vicino tutto è diverso: è un caleidoscopio di suoni, odori e sensazioni contrastanti. È davvero bello, ma a quest'età mi fa sentire fuori luogo, come se ogni risata e ogni gioco mi ricordassero che la mia infanzia è ormai un ricordo lontano. Ho sempre lottato per essere presa sul serio, e trovarmi qui mi fa dubitare di me stessa.

Ryan compra i biglietti per entrambi e, una volta entrati nel parco, mi ritrovo spaesata tra la folla e le luci abbaglianti.

«Qual è il piano?» chiedo, con tono freddo, cercando di ritrovare la mia sicurezza.

Lui mi osserva, poi ridacchia e, con una nota di serietà mi dice:

«Stiamo aspettando un cliente. Non appena arriverà, dovrai fare esattamente ciò che hai fatto l'altra sera.»

Il ricordo di quell'episodio, intriso di tensione e disprezzo, mi riporta a un momento che vorrei solo dimenticare.

«Ryan, se si azzarda a-» inizio a protestare, ma lui mi interrompe bruscamente.

«Se si azzarda a fare qualcosa, gli spezzo le mani. Non preoccuparti, ok?» nei suoi occhi vedo una determinazione feroce che mi costringe a tacere, sapendo che la minaccia è reale e inesorabile.

Camminiamo lungo il viale illuminato, le luci colorate creano un'atmosfera quasi irreale, quando improvvisamente vedo Ryan accostarsi a un camioncino rosso. La scritta Hot Dogs By Darren si staglia contro la notte.

«Che stai facendo?» chiedo, perplessa.

«Ho fame, ovvio. Mi prendo un hot dog» risponde con noncuranza, alzando le spalle come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Faccio una smorfia di disgusto: dal compleanno di Paige festeggiato al McDonald's, non sono più entrata in un fast food, e, per di più, non ho mai assaggiato un hot dog. L'idea di quelle persone che si sbrodolano con le salse mi repelle.

«Non fare quella faccia, ne prendo uno anche per te» insiste, e il signore panciuto dietro al camion annuisce.

«Non lo voglio» dico, ma quando Ryan si avvicina con due hot dog in mano, il suo entusiasmo contagioso inizia a sciogliere la mia riluttanza.

«Assaggialo. Ti giuro che Darren fa i migliori hot dog del mondo, non te ne pentirai.»

«No, grazie. Non ne ho mai mangiato uno. Non so neanche se mi piace» dico la verità, ma lui sembra sconvolto dalla mia rivelazione.

«Non hai mai mangiato un hot dog?» domanda. Nego con la testa, sentendomi in imbarazzo. Ryan fa un mezzo sorriso guardandomi, ma questa volta mi incuriosisce. Non è un sorriso cattivo né tantomeno di scherno. Non riesco ad interpretarlo.

Mi porge il cibo, su un cartoncino bianco. L'odore, un misto di spezie e fumo, mi sorprende: per un attimo dimentico tutto e mi lascio trasportare. Afferro l'hot dog e, con la precisione di chi teme di sporcarsi, prendo un morso.

Il sapore è inaspettatamente buono, e involontariamente emetto un gemito di approvazione che mi fa arrossire. Ryan osserva ogni mia mossa, come se stesse cercando di decifrare la mia espressione.

Dopo un attimo, tossicchia per stemperare l'imbarazzo e chiede:

«Allora, ti piace?»

«È squisito» ammetto, sincera. «È la cosa più gustosa che la mia bocca abbia mai assaggiato.»

Colgo poi le parole che hanno lasciato la mia bocca. Le mie parole sembrano fluttuare nell'aria, ma i nostri sguardi si incrociano in un attimo carico di una tensione nuova, quasi irreale. Mi fissa intensamente, e in quell'istante, mi sembra di leggere in quegli occhi una miscela di desiderio e pericolo. Lentamente, si avvicina al mio orecchio, e i brividi scorrono lungo la mia schiena.

«Che cosa stai cercando di fare, Chloe, questa sera?» sussurra, la sua voce bassa e vibrante mi fa trattenere il respiro.

«Niente» rispondo, onesta, anche se il mio subconscio non sembra molto d'accordo.

«A me sembra che tu stia mettendo alla prova il mio autocontrollo» continua, e un fremito mi attraversa la pelle.

«Non credo ci sia alcun autocontrollo da mettere alla prova. Quella sera in macchina sei stato molto chiaro» ribatto, ricordando le parole che mi hanno ferita e resa insicura.

«Penso di essere stato altrettanto chiaro anche a casa mia» dice lui, e per un attimo mi sento paralizzata, come se il tempo si fosse fermato e le parole a casa sua rimbombassero nella mia mente. Ricorda ciò che mi ha detto anche se era completamente ubriaco.

Faccio due passi indietro e lo guardo negli occhi, che non hanno perso per un secondo di intensità. Perché mi sento così travolta da quel blu profondo, nonostante fino a poco fa a casa mia volessi solo farlo sparire al più presto?

Il silenzio viene interrotto dal suono improvviso del telefono di Ryan. Lui si ferma, controlla il messaggio e, con un'espressione che si fa immediatamente gelida, capisco: il nostro cliente è arrivato.

Mi volto e, tra la folla, ad uno stand di peluche, vedo un uomo. È difficile scorgere i suoi lineamenti, nascosti dietro un intricato mosaico di tatuaggi, ma la sua presenza mi fa rabbrividire. C'è qualcosa in lui che mi trasmette un'angoscia palpabile.

Ryan mi afferra il fianco, facendomi sobbalzare, e mi sussurra:

«È lui. Vai, stai tranquilla; io sono qui.»

Nel frattempo, sento il fruscio della mia giacca: sta rimponendo la merce all'interno, preparandomi all'incontro. Annuisco impercettibilmente e, con un respiro profondo, mi avvio verso l'uomo, quella figura minacciosa intenta a sparare a delle lattine.

Lui si volta, e appena incrocia il mio sguardo, capisce immediatamente che sono io quella che deve fare la consegna.

«Ma guarda un po' chi si vede! Dolcezza, quanto tempo» esclama, avvicinandosi con un abbraccio fin troppo intimo, come se avesse ricevuto direttive precise da Ryan. Sa esattamente dove cercare e dove lasciare i soldi.

Cerco di staccarmi, ma le sue mani, sporche e invadenti, si imprimono nella mia pelle.

«Lasciami» sussurro, con voce rotta, cercando di far passare il messaggio in modo che nessuno possa ascoltare. Mi divincolo, ma lui non sembra volermi ascoltare.

«Questo acquisto mi è costato parecchio, sai? Credo di meritarmi proprio un bonus» dice e la sua lingua, ruvida e sporca, scivola verso i mio orecchio. La nausea mi assale, e per un attimo la mia voce si blocca.

«Stai esagerando e io sto per spezzarti le ossa.»

La voce di Ryan, ora prepotente e ferma, raggiunge le mie orecchie, e in un batter d'occhio, la sua mano mi trascina lontano da quell'uomo. Il tizio, che fino a un attimo fa era spavaldo, impallidisce alla sua vista, restando in silenzio.

«Scusati immediatamente» ordina Ryan, e quando l'altro non sembra intenzionato a cedere, si precipita per affrontarlo.

«Ryan, non fa niente, andiamo» protesto, ma lui è già in un altro mondo, concentrato solo sull'uomo dinanzi a lui.

Improvvisamente, una terza voce giunge alle nostre orecchie. «Tutto bene qui?»

Mi volto, e con il cuore che batte forte, vedo due poliziotti in divisa.

Un'istante di terrore mi attraversa: siamo fregati.

Ryan condivide il mio sgomento, e per qualche attimo vedo la confusione dipinta sul suo volto.

Mi faccio forza, e con il sorriso più sincero e forzato che riesco a mettere su, intervengo:

«Sì, assolutamente. C'è stato solo un piccolo scontro con il mio ex, e il mio fidanzato è... molto protettivo. Togliamo subito il disturbo.» Afferro la mano di Ryan.

I poliziotti mi scrutano, poi, con un cenno sommesso, riprendono il loro giro, lasciandoci soli, con il peso dei nostri segreti.

L'uomo che ha comprato la merce si dilegua in un attimo, mentre Ryan mi trascina lungo il percorso che porta alla ruota panoramica, dove ci fermiamo.

"Sei stata grande" dice, e la sua voce, questa volta più morbida, mi tocca in modo inaspettato.

Io annuisco, con il cuore ancora in gola, e mormoro: «Grazie per prima.»

Ryan mi si avvicina nuovamente, sussurrando qualcosa al mio orecchio, mentre il suo guardo vaga oltre le mie spalle.

«Ascoltami. I poliziotti non ci hanno creduto» dice, e i miei occhi si spalancano.

«E adesso, cosa facciamo?» chiedo con voce tremante.

«Non possiamo andarcene, non ora. Se ci scoprono, perdiamo tutto, e hai tremila dollari nella tasca della giacca.» Spiega, la tensione nella sua voce mescolata a un'improvvisa preoccupazione.

Il pensiero mi blocca: il denaro, la merce, la possibilità di essere scoperti... tutto sembra cospirare contro di noi.

Con la sua voce bassa e intensa, mi chiede: «Ti fidi di me?»

Quella domanda, pesa come un giuramento non pronunciato. Con un cenno quasi impercettibile, annuisco, sapendo che in quel gesto c'è un destino già tracciato.

Ryan posa una mano sul mio fianco, lasciando una scia di brividi lungo la mia pelle, e le sue labbra si posano contro il mio orecchio:

«Gli hai detto che sei la mia ragazza. Comportati di conseguenza, Chloe.»

Le sue parole mi lasciano confusa, mentre la mia mente si affolla di domande senza risposta.

«Che devo fare?» sussurro, tremante, mentre il mio corpo cerca un equilibrio tra paura e desiderio.

«Fai ciò che faresti se fossi il tuo ragazzo» risponde lui, con una sicurezza che mi fa sentire ancor più inesperta, come se il concetto di 'ragazzo' non fosse un concetto sconosciuto per me.

Le mani di Ryan accarezzano il mio fianco, si posano dolcemente sulla mia spalla e mi trascinano verso un banchetto di zucchero filato.

«Uno, per favore» ordina, e in quel gesto finge un'inaspettata dolcezza, un contrasto con la durezza delle ultime ore.

Compra un batuffolo rosa, e per un attimo mi sembra di tornare bambina: ricordi di feste, risate e spensieratezza mi avvolgono.

Mi porge il bastoncino, e mentre lo guardo, mi sembra di sentire l'eco del passato, in cui le preoccupazioni non erano all'ordine del giorno.

Assaggio il dolce zucchero filato, e per la prima volta in quella serata, sento un debole sprazzo di normalità.

Quando rimane solo l'ultimo morso, Ryan, con un gesto audace e quasi infantile, strappa il resto e lo mangia, lasciandomi con la bocca spalancata.

Gli do un leggero scappellotto sulla spalla, e lui ride, soddisfatto.

«Sei una persona orribile!» dico, ma non posso fare a meno di ridere anch'io, la tensione di qualche minuto fa si scioglie, almeno per un attimo, in una complicità sincera.

«L'ho pagato io, e mi pare il minimo averne assaggiato almeno un pezzo. Sei stata così ingorda da finirlo tutto!» ride, e quel suo sorriso sincero mi sorprende.

Per un momento, mi sento al sicuro, come se, in mezzo al caos, ci fosse un attimo di bellezza autentica.

Gli do di nuovo un pugno sulla spalla e questa volta mi afferra fermando i miei movimenti.

«Calma lo spirito, tigre» sorride, questa volta rivolgendomi quel mezzo ghigno che lo contraddistingue. Sorrido anche io sincera, quel soprannome non è affatto male.

Ma poi la realtà torna a farsi strada dentro di me.

«Sono andati via?» chiedo, sperandoci.

Ryan mi accarezza i capelli con un gesto che mi trasmette calma, ma so che non c'è nulla per cui stare tranquilli.

«No, ci stanno ancora con il fiato sul collo.» Sospira, le sopracciglia aggrottate indicano che sta meditando una nuova strategia.

Prende il bastoncino dello zucchero filato e lo butta nel cestino più vicino, poi mi afferra per la vita, avvicinandomi a lui.

«Che stai facendo?» Chiedo, sussultando peer il gesto repentino.

«Ti ho chiesto di fidarti di me, e questa volta devi farlo sul serio, ok? È l'unica cosa che posso fare per non farli dubitare di quello che hai detto.»

Le sue dita iniziano a giocare con una ciocca dei miei capelli, per poi tracciare il perimetro del mio viso, come a voler disegnare un sigillo di complicità. Le sue dita tracciano il contorno delle mie labbra, e, senza che me ne renda conto, mi perdo nel suo sguardo intenso, ormai concentrato solo sulla mia bocca. Poi i suoi occhi si spostano nei miei, come a volermi leggere dentro.

In un istante, le sue labbra si uniscono alle mie: un bacio timido, poi sempre più deciso, mescolando dolcezza e passione in un gesto che mi fa dimenticare per un attimo l'orrore della realtà.

Non avevo mai baciato nessuno, e mi sento impacciata.

Quelle ciliegie rosse prendono pieno possesso delle mie e penso di non essere troppo sicura di me quando la sua lingua chiede accesso alla mia bocca.

Ryan mi stringe, come a invitarmi a lasciarmi andare, e io, pur con il cuore in tumulto, mi abbandono a quel bacio che mi trascina in un vortice di emozioni contrastanti.

Riesco a stargli dietro ma mi sento ubriaca, non capisco più nulla. Se mi avessero dato quello che abbiamo venduto al tipo di prima, probabilmente sarei più lucida.

Quando Ryan si stacca, involontariamente emetto un mugolio di disappunto, come se una parte di me volesse lasciarsi andare del tutto.

Quando noto il sorriso compiaciuto sul suo viso capisco che mi sono fatta beccare per l'ennesima volta.

«Era necessario?» sussurro.

«Giudicalo tu» indica con un gesto il punto in cui i poliziotti si stanno allontanando, lasciandoci liberi da sguardi sospetti.

Un sospiro di sollievo mi attraversa, ma il mio viso rimane arrossato, imbarazzato, incapace di incontrare nuovamente il suo sguardo.

«Andiamo via?» dico piano, quasi a temere che ogni parola possa tradire la mia vulnerabilità.

In un istante, mi dico che forse, nonostante tutto vorrei restare e godermi un'altra ora di normalità, ma la realtà si impone davanti a me: ho tremila dollari nella tasca della giacca, e sono venuta qui per vendere droga.

Il pensiero mi stringe lo stomaco, e ogni respiro diventa un promemoria.

Ryan annuisce, e in silenzio, ci dirigiamo verso la sua auto. Durante il tragitto, il silenzio è pesante, interrotto solo dal ronzio del motore e dal battito frenetico del mio cuore. Lui è di nuovo perso nei suoi pensieri, e io mi ritrovo a fissare il suo volto, cercando di leggere quello che non osa dire.

Mi accorgo troppo tardi di star fissando il suo viso così intensamente da consumargli quasi le labbra solo guardandole, che di nuovo il suo sguardo è su di me e mi siamo già sotto al mio palazzo.

È lui a rompere il silenzio.

«Spero che tu non te la sia presa per prima» dice, con tono quasi annoiato, mentre io mi acciglio, confusa.

«A cosa ti riferisci?» Chiedo, cercando di mascherare il tremore nella voce.

«Al bacio» risponde lui, con una naturalezza che mi fa trasalire, lasciandomi un misto di rossore e incredulità.

Lo dice con una naturalezza che mi fa trasalire.

«No, figurati» borbotto, cercando di sdrammatizzare. «Era solo un bacio» aggiungo, ma le mie parole non riescono a cancellare quel senso di fragilità.

Ryan alza un sopracciglio, e per un attimo sembra voler dire qualcosa, poi scuote la testa, come se preferisse rimanere in silenzio.

«Beh, ora devo andare. Sabato passo a prenderti; ti porto qualcosa, perché francamente, i tuoi vestiti non sono adatti» dice, tornando al suo tono brutale e pragmatico.

Il commento mi ferisce, ma non volendo scatenare un'altra discussione, annuisco e scendo dalla macchina.

Ryan riparte in fretta, lasciandomi immersa in una notte piena di dubbi e incertezze.

Mentre lo vedo allontanarsi, un'inquietante consapevolezza mi assale: sono ormai intrappolata in qualcosa che non ho mai voluto, eppure non riesco a fare a meno di chiedermi se, in qualche modo, sono io a scegliere di restare... e a pagarne il prezzo.


Vi chiedo per favore di aiutarmi a far crescere la storia lasciando magari qualche stellina e commento, ve ne sarei grata🖤🦋

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