Capitolo 50
EDITH
Le luci colorate riempivano l'aria, oscurano la volta celeste. Il cielo sembrava un immenso vuoto nero, rendendo la notte ancora più buia di quanto già non fosse. La musica sovrastava ogni altro rumore di campagna, irrompendo nell'irrequietezza dei miei pensieri inquieti. L'immensa villa a tre piani si stagliava fra campi incolti e lontane montagne, stonando col luogo verdeggiante che ne attorniava i confini ben curati.
Sembrava un quadro martorizzato dall'innovazione concettuale della dissolutezza frivola e priva di qualsiasi profondità.
L'immenso prato era a nostra disposizione. Superammo diverse file di auto colorate, parcheggiando vicino all'abitazione gremita da teenager arrapati e quasi del tutto alticci.
Il ricordo di cosa volesse dire neo diplomata era ancora nitido nella mia mente, ma non avevo mai partecipato a qualcosa di lontanamente simile e festeggiarne la fine – o l'inizio. Una festa in grande stile.
L'odore dolciastro dell'alcol mischiato ad agrumi e sudore, aleggiava dentro e fuori le mura, permeando le stanze e saturando l'aria. Deva mi buttò il braccio destro attorno alle spalle, stringendomi al suo fianco: «Respira Edith, questo è il profumo della gioventù e di libertà», incitò con un ampio sorriso fiero.
«Disgustoso», borbottai sotto tono.
Per quanto apparisse affascinante e sovversivo l'ambiente circostante, era anche ripugnante. Non amavo party e festini per le brutte esperienze passate, semplicemente non li avevo mai apprezzati. Le risate sguaiate, le canzoni a tutto volume su cui dimenarsi, i fiumi di alcol – e Dio solo sa cos'altro – le palpate indesiderate.
Respinsi un paio di mani un po' troppo invadenti, tentando di proteggere la mia accompagnatrice. In seguito il suo – futuro – ragazzo assunse questo ruolo. Sembrava un giovane bodyguard personale, pronto a sfidare chiunque volesse importunarci.
Lei scacciò il mio dubbio con un gesto fugace della mancina: «Ti ci devi solo abituare. Seguimi in cucina, ho voglia di un cocktail bello carico», fu entusiasta nell'adocchiare le bottiglie semipiene sui tavolini esposti.
Dribblammo svariati gruppi di persone per raggiungere l'obbiettivo. «Ma con l'assunzione di farmaci non dovresti bere!», la redarguii. Fu più forte di me farlo. Malgrado fossi rigorosa e rigida, lo ero perché conoscevo i rischi a cui andava incontro.
«Non fare la guastafeste. Non ti ho portata con me per esserlo», mi liquidò con un'occhiataccia.
Aggirammo le sedie sovraccariche di borse e pochette, seguite da Stefano che ci proteggeva. «E allora perché?», domandai nel vano tentativo di sovrastare il frastuono, «Perché sono qui?», precisai ancora.
Sostituii la bottiglia di Gin, accanto a Deva, con quella della limonata, allontanando la tentazione.
«Ti serviva una distrazione. È evidente che hai il cuore a pezzi», scrollò le spalle, «I miei fratelli sono difficili... tutti noi lo siamo. Te ne sarai accorta, ormai», sospirò infine. Solo quando notò lo scambio furtivo di bottiglie, aggiunse: «Sei proprio noiosa, lo sai?».
Annuii vagamente divertita: «Sì, me l'hanno già detto», le versai il succo di limone nel bicchiere e glielo porsi, «Almeno so che una di noi due è responsabile».
«Ti sei innamorata di uno spogliarellista», precisò lei.
«L'amore non è responsabile», le risposi di getto, ma era una bugia.
L'amore era una scelta. E continuare ad amare significava continuare a scegliersi.
«Ragazze, vi andrebbe una boccata d'aria fresca?», propose sofferente il nostro bodyguard personale.
«Sarà il caso. Qui la musica è troppo alta», concordò Deva, trascinandomi fuori.
***
«Perdonatemi, stavo annaspando lì dentro», si scusò Stefano, respirando avide boccate di ossigeno. Aveva il volto arrossato e un po' affaticato. Si appoggiò al muro, stringendosi la ragazza a sé per acquietarsi.
Provai una stretta al cuore e una fitta di dolore nell'ammirarli.
Erano felici, ingenui, e ignari per preoccuparsi di cosa il loro affetto avrebbe potuto far loro.
«Non occorre chiedere venia, amorcito lindo», lo giustificò lei con un sorriso, provocandomi un'altra fitta acuta. Un'altra ancora e sarei scoppiata a piangere.
Mi sentii in colpa. Non volevo rovinare il loro momento. Sarebbe stato meschino da parte mia, farlo. Con discrezione asciugai una lacrima solitaria, placando il magone che provavo, mascherandolo col disagio.
«TU, MALEDETTA TROIA!», urlò una voce maschile alle mie spalle.
Mi voltai di scatto, scorgendo in lontananza il fidanzato violento di Deva: Thomas.
Con mio grande orrore, lo vidi caricare i pugni e scagliarsi contro di noi.
Oh no.
*Angolino dell'Autrice*
- 2 CAPITOLI ALLA FINE DI QUESTA SECONDA PARTE
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