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Capitolo 46

EDITH

A volte ci si spezza il cuore da soli.

Trattenni il fiato, in attesa del confronto. Accantonata in disparte, fra tende di ombre e luccichii di pulviscolo, rimasi in silenzio.

La camera da letto della bambina assunse un'atmosfera pesante. «Ti prego, non proteggerla. Sei complice quanto lei, per me», liquidò la mano tesa dell'uomo, schivandolo per uscire dalla stanza.

«Dante, aspetta...», provai ad attirarne l'attenzione, ma lui non me ne diede.

Intenta a inseguirlo, udii a malapena il saluto di Deva: «Ripensa alle mie parole, maestrina. A dopo, se ci sarà mai...».

Affrettai il passo in corridoio, incrociando Sofia, Elida e la Signora Argenti, riuniti in fondo alla cucina. «¿Lo que está sucediendo?», domandò in un bisbiglio la bimba alla nonna, ricevendo come risposta una scrollata di spalle.

Prima che potessi chiederlo, Eli mi diede la soluzione: «Ha imboccato l'uscita di corsa e senza salutare».

La ringraziai frettolosamente e mi congedai, cercandolo nel giardino dell'abitazione.

Sembrava sparito. Nessuno si aggirava per strada.

«Dante», il tono tremulo tradì la tachicardia che provavo. Il fiato corto, anche.

Avevo paura. Provai sollievo solo quando mi parve di scorgerlo dietro al muro, accatastato al bordo di un angolo lontano.

Mi avvicinai con cautela, intravedendo sempre di più la sua figura. Ammirava l'orizzonte della campagna, ma lo sguardo lacrimoso rivelava molto più di ciò che volesse nascondere.

«Sono stanco», mi confidò a bassa voce, «Io sono stanco, Edith. Davvero», sembrava trattenersi dal piangere, «Ci provo e ci riprovo, ma non riesco a perdonare». Lo vidi sfregarsi la faccia nell'intento di cancellare un paio di lacrime traditrici, «Non riesco a perdonarli», mormorò alla fine.

«Non sei costretto a farlo, se non vuoi». Le mie parole parvero vuote in confronto alle sue, intrise di dolore e sofferenza.

Venne da piangere anche a me.

Sorrise, ma non era divertito: «A quanto pare non è così. Deva mi ha appena sbattuto in faccia quanto io sia orribile. Esattamente come loro», rimuginò, incupendosi di nuovo.

Scossi il capo: «Tu non sei i tuoi genitori e i loro sbagli».

«Ah no? Perché io non vedo altro che il ripetersi della storia». Non mi guardava quando parlava, come se stesse ricordando qualcosa di molto spiacevole: «La stessa maledetta storia».

Corrugai le sopracciglia: «Che vuoi dire?».

«Non riesco a perdonare neanche me stesso», proseguì, «Quando avevano bisogno di me, non c'ero per Elida, non c'ero per Deva, e neanche per te ci sono stato», l'ennesima lacrima gli appannò lo sguardo, aggrappandosi alle ciglia, «Forse non sono fatto per l'amore e per essere amato».

Ed era di nuovo questo il problema.

L'amore.

Come poteva un sentimento tanto positivo rovinare sempre tutto quanto?

Prima che potessi fermarlo un singhiozzo si liberò nel vuoto, liberando altre lacrime.

Parlava del nostro rapporto o di quello altrui?

La verità era che ero stanca anch'io. Stanca di tutte le complicazioni che non avremmo dovuto riscontrare. E di quanto lui rendesse impervio un'azione che per me non lo era.

Forse, dopotutto, aveva ragione.

«Il sole arde, ma non brucia per nessuno, giusto?», ricordai ad alta voce. Le parole assunsero nuovo significato, trasmettendomi tutta la tristezza di cui erano pregne.

«Giusto», fu il suo sussurro prima che scappassi via.

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