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Capitolo 39

EDITH

Il paesaggio scivolava via dietro al vetro del finestrino, in un susseguirsi di mescolanze colorate, di macchie verdi, e grumi terrosi. Ogni forma mutava in un disegno partorito dalla mia fervida immaginazione, costruendovi sopra un nuovo scenario su uno sfondo azzurro.

Sospirai. Sembrava tutto così idilliaco. Solo io non lo ero. Nell'ultimo periodo mi sentivo fallimentare; avevo guastato tutti i miei rapporti umanistici e universitari. L'unica persona, che sembravo non aver – ancora – deluso, era Dante.

Adocchiai con distrazione il mio compagno di viaggio, soffermandomi a studiarne il profilo concentrato, intento a leggere il libro che gli avevo regalato. Le poesie d'amore avevano risucchiato tutta la sua attenzione, smarrito nel fiume di parole adoranti che gli avevo dedicato in una notte di inizio estate. Mi ritrovavo spesso a esplorarne i lineamenti latini, imprimendoli nella memoria, come se avessi potuto dimenticarmene.

L'aspetto fisico non era tutto, tuttavia sapevo che non avrei amato mai un'altra faccia allo stesso modo. Chissà se la mia era altrettanto amata. Mi torturai il labbro inferiore, trattenendo l'impulso di scostargli un ciuffo di capelli ribelle dalla fronte. Quando lo guardavo, non serviva l'immaginazione per abbellirlo. Che noiosa che sei, Edith. Smettila di ripeterti quanto lui sia avvenente e divino rispetto a te. Lo sai già, concentrati su altro, mi svilii, tornando a guardare fuori.

Più che la bellezza, agognavo l'essere armoniosa.

La mia insicurezza era una lama contro di me, pronta a scavare, e a far leva sulle debolezze che mi tartassavano. Il fallimento non era altro che la punta di un iceberg – e io il suo Titanic. Sarei mai stata in grado di far prevalere un po' di autostima? E questa, avrebbe portato l'armonia tanto ricercata?

«Edith, è tutto okay?», sentii i suoi occhi su di me e arrossii, immaginando che si fosse distratto dalla lettura a causa mia.

Annuii, e lasciai che i capelli sciolti mi celassero, mugugnando una breve risposta: «Sì, ero assorta nei miei pensieri».

«Pensieri tristi?», volle indagare – e indovinandone lo stato d'animo. C'era una nota allegra nel timbro della voce, un rimasuglio di spensieratezza, come se la mia tristezza fosse dovuta alla serenità di un'esistenza tranquilla.

Ma come ci riusciva?! Non lo guardai, dandogli la conferma che non volevo scoprisse.

Lo udii chinarsi in avanti, e percepii il delicato tocco delle dita lungo la guancia, dove le ciocche più lunghe si infoltivano. Scostò la cortina di capelli, costringendomi a tuffarmi nello sguardo che avevo tentato di evitare il più possibile: «Cosa ti affligge, mi niña hermosa?», chiese ancora con dolcezza.

Una sola domanda, e molteplici risposte a cui dare alito. Avevo molto da confessare, ma non fiatai. Non subito, almeno. Mi vergognavo di tutto ciò: la mia bassa autostima, la delusione che suscitavo negli altri, e l'omissione di crescita personale da recuperare. Erano problemi fini a sé stessi, non certo materia di discussione. «Non sono soddisfatta di me stessa...», sputai infine, riassumendo le svariate incertezze.

Che imbarazzo. Strizzai le palpebre, avvampando più di prima, e aspettando di ascoltare una risata che non sopraggiunse.

Come la prima volta, avvertii le sue labbra sulle mie, in un delicato tocco consolatorio. La gentilezza mi sconcertava quanto la sua irritabilità mattutina.

Quando distinsi lo spostamento d'aria, schiusi le palpebre, trovandolo distante. «La qualità delle proprie riflessioni definiscono la qualità della nostra vita, sai? I pensieri e le parole modificano la realtà poiché influenzano la coscienza personale; perciò non credere neanche per un secondo d'essere qualcuno di cui svilirsi, Edith», proclamò con convinzione. Quando rimasi imbambolata, ammutolita dalla risposta, si affrettò ad aggiungere: «Parole del terapeuta, non mie. Mi hanno aiutato nelle lacune emotive, nella bassa autostima, e di conseguenza a migliorarmi», si giustificò alzando le braccia in segno di resa. La mia perplessità l'aveva disarmato.

Lo squadrai da capo a piedi: «Hai sofferto di problemi legati all'autostima?». Ricordai che non era la prima volta che lo confidava, ma stentavo ancora a crederci.

Scacciò via l'incognita con un gesto della mano: «Successe anni fa, da quando ho conquistato il cuore di una bella ragazza, non più», ammiccò nella mia direzione.

Dante aveva la capacità di scacciare la mia insicurenza, tirandomi fuori un lato giocoso, a me sconosciuto. Mio malgrado accennai a una smorfia divertita: «Bella?», lo canzonai.

«Bellissima», ritrattò.

«Addirittura?», rimarcai con ironia, sorridendogli grata dei complicati.

«Bellissima, e con delle ottime idee. Se siamo in viaggio per una vacanza è solo per merito suo», continuò, entusiasta.

«Non tuo, che hai pagato i biglietti e l'hotel, fregandotene del lavoro e dei tuoi doveri di ballerino esotico?», lo pungolai, fingendo del risentimento che non provavo. Ero orgogliosa che l'avesse fatto per me, e lui lo sapeva bene.

«E non ti ho detto quanto lei sia diabolicamente saccente», ricambiò lo scherzo, imitandomi.

«Diabolicamente?», finsi d'esserne sconcertata.

«E crudele, anche», concluse.

«Un mostro di ragazza», continuai, trattenendo a stento un sorriso.

«Mostruosa», rimarcò il concetto, abbassando il tono della voce e soffermandosi a fissarmi la bocca.

Sentii le budella attorcigliarsi e percepii le farfalle nello stomaco; tuttavia avevo ben altre intenzioni. Mi avvicinai con clemenza, alzandomi dal posto: «Povero ragazzo bistrattato», lo punzecchiai ancora. Avevo voglia di istigarlo... chissà com'era sedurre un seduttore, ponderai.

Lo vidi abbandonare il libricino nel posto a fianco al suo: «Ci vorrebbe un bacio», suggerì, cingendomi i fianchi quando gli circondai il volto con le mani calde.

«Quindi è questo che vorresti, un bacio?», esplorai le sue labbra col pollice sinistro, rimarcandone i bordi, e torturandolo con una lentezza tale, da alterarne la pigmentazione rosata.

«Così mi uccidi...», sospirò Dante. Le dita risalirono lungo il mio busto, tracciando ramificazioni immaginarie. Era un massaggio leggero, che sapeva rilassare le membra irrigidite.

Preda della mia sobillazione, mi sentii desiderabile, e invicibile. Altre volte era successo, ma stavolta volli renderlo diverso. Decisi di assecondarmi. Sul più bello, nel momento esatto che precedeva un possibile schiocco di labbra, afferrai il mio dono e lo frapposi fra noi: «Adesso mi sento meglio. Buona lettura», gli augurai, sgusciando via dalle sue braccia, e lasciandolo completamente inebetito e in balia di sé.

Quando comprese la burla, assottigliò lo sguardo, fulminando la mia espressione furbesca: «Vedrai quando giungeremo all'hotel, te le strapperò le mutandine».

Inarcai un sopracciglio, scettica: «Quale immane dispetto, il tuo».

«Vedrai, vedrai. Il linguaggio aulico non ti salverà», enfatizzò.

Trattenni il respiro.

Lo speravo con tutto il cuore. In fondo nessuna ragazza vorrebbe essere salvata da queste circostanze.

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