Capitolo 31
EDITH
"La vera menzogna è
credere che la verità
non ci condanni."
La notte sopraggiunse alla tragica conclusione; presto il pallido baluginio dell'aurora avrebbe incalorito l'orizzonte, e i tetti delle palazzine, svelando l'inizio di un nuovo giorno... e la fine di questo. Milano appariva un raro gioiello alle prime luci, quando tutto si acquietava per un'ora o due, intensificando il mormorio della città. Percorsi strade semi deserte, intrecciando le dita a quelle del mio avvenente spogliarellista, e lui, con non poca discrezione, si portò la mano alle labbra, baciandone la sommità come se fosse stato devoto soltanto a quella.
«Sto per vomitare», borbottarono all'unisono Serafina e Nico, dietro di noi, capeggiando il gruppo alle loro spalle.
Ridacchiai quando Dante li fulminò con un'occhiataccia contornata dalle occhiaie, tacita testimonianza di quanto fosse esausto, ma anche della sua caparbietà nel voler comunque accompagnarmi, e stare ancora insieme, mano nella mano. Lo trovai bellissimo anche in quello stato dismesso, inselvatichito dalla spossatezza. Era il mio sole, dopotutto.
«Buoni bambini. Siamo tutti stanchi, perciò vediamo di non provocarci a vicenda», ammonì Alex a tutti e a nessuno in particolare.
«Per fortuna siamo quasi arrivate; la serata sembrava non finire mai», blaterò Noemi con un sonoro sbadiglio.
«Hai sonno?», le chiese ingenuamente Samir.
«No, macché. Adesso si mette a ballare», lo prese in giro Liam, colui che chiudeva la fila.
Gli rivolsi un'occhiata divertita, complice dello stesso pensiero, ma vi trovai lo sguardo severo di mia sorella ad attendermi. Colma di disappunto, scosse il capo con lentezza, rivolgendo tutto il suo diniego su di me.
La gioia si spense come un triste fiammifero. Tentai di ignorarla, concentrandomi sui dettagli che preferivo: quelli che caratterizzavano il giovane al mio fianco. La zazzera scarmigliata, la schiena dritta, e il passo sicuro. Aveva ancora qualche chiazza dorata addosso, ma queste, lo rendevano ancor più bello di quanto già non fosse. E non catturava solo il mio sguardo. Alcuni passanti esitavano al suo passaggio, e persino la mia amica Emy, lo fissava con mal celato interesse.
«Svolteremo a destra e imboccheremo il nostro quartiere», "grazie al cielo", parve voler aggiungere Micol, indicando la via da seguire.
Perché si comportava in questo modo sgarbato?!
La palazzina si stagliava in un borghetto residenziale, vegliando sulla tranquillità mattutina. Venni trattenuta improvvisamente, e percepii una stretta al polso destro prima che potessi imboccare l'entrata del portone principale. «Aspetta», mi frenò lui; lo sguardo impigliato nel mio, implorando un minimo di attenzione - come se non avessi fatto altro per tutto il tempo. Il gruppo ci superò tra risatine, mormorii, e occhiate sfuggevoli, lasciandoci un po' di intimità.
«Cosa c'è?», chiesi accennando un sorriso che contagiò le pupille. Tutto il corpo parve incanalarne le forze. Ero un portagioie colmo di stelle.
Lo vidi sorridere e illuminarsi di un'emozione travolgente: «Quiero saber que se siente», pronunciò appena, «Voglio sapere come ci si sente», tradusse a bassa voce, incurvandosi contro di me.
Le mani si posarono sui miei fianchi, e le mie, risalirono lungo il suo collo, fino alla nuca, giochicchiando con qualche ciocca scura: «A fare cosa?». Avevo male alla bocca per quanto sorridevo.
Lui alzò il capo verso il cielo, sondandone la profondità per poi tornare sul mio viso, e fare la stessa cosa col mio sguardo: «A baciarti sotto la luna».
Lo trassi a me, accontentandolo. Baciarlo mi provocava tempesta; non farlo, peggio. «E adesso che lo hai fatto, com'è?», anelai nel riprendere fiato.
«Da rifare», riprese lui, cingendomi a sé, «Ci vediamo domani».
«Non sembrava una domanda», mi dilettai a schernirlo.
«Infatti, non lo era», celiò ad un soffio dalle mie labbra.
Prima che potesse ribaciarmi, mi fu strappato via da Thor, protetto dagli altri ragazzi che salutai svogliatamente. «Andiamo Romeo, tieni le mani a posto e seguimi, non morirai senza di lei per un giorno», gli attorniò le spalle col braccio destro.
«Sì, ma Romeo è morto davvero dopo un giorno», udii Bollywood in lontananza.
Mi sfuggii una risata quando ascoltai la risposta di Dante: «È il tuo strano modo di suggermi che dovrei tornare dalla mia Giulietta?».
«Basta, vi prego. Troppo zucchero», si lagnò Cupido, svoltando l'angolo e svanendo insieme agli altri.
Presi fiato e alzai il viso, trovandovi una sorprendente e grossa luna piena sospesa fra i colori violacei e rosati dell'alba. Anche il brillio degli astri celesti era sparito. «Separarsi è una pena così dolce che vorrei dire addio fino a domani», recitai al vento.
Il domani era già giunto.
***
Chiusi la porta, trovandovi Micol all'interno dell'appartamento. Le altre dovevano esser già andate via. Sorseggiava dell'acqua; in bocca doveva aver assunto un farmaco.
«Avanti», la esortai, «Sfogati, e riversa la tua delusione».
«Servirebbe a qualcosa?», si beffeggiò di me, «Ti ho detto come la penso su di lui».
Irritata, sputai: «Non lo conosci neanche!».
«Perché, tu sì?», scimmiottò, «Non mi serve conoscerlo. Sei giovane... e stupida».
«Ma come...», incominciai, ma lei mi interruppe, esplodendo in tutta la sua furia.
«Quando pensavi ancora di mentirmi, stupida che non sei altro?! Sei stata drogata e non hai detto niente! Tu, che sei allergica alle benzodiazepine. Se fosse stato Xanax saresti morta!», sbraitò, fuori di sé.
«Sì, ma non è successo. È stato Alex a dirtelo, vero?», tentai di deviare il discorso, ma Micky era di ben tutt'altre vedute.
«Ti hanno fatto una lavanda gastrica in un altro stato», mi rammentò, ignorando il quesito.
«È stato un incidente...», mi difesi, punta sul vivo.
Mia sorella avanzò di un passo: «Incidente? Ti senti quando parli?!».
«E tu?!», la provocai, arrabbiata quanto lei.
«Non ha importanza. Ho avvertito mamma e papà. Sono già in volo e nel pomeriggio saranno qui», mi avvertì.
Un brivido mi percorse la spina dorsale: «No...». Tutta l'ora si spense, sfociando nel panico.
«Oh sì. Spiegherai a loro tutto quanto. Io sono stufa delle tue bugie e di vederti allo sbaraglio con... quello!», sbottò.
«Quello ha un nome!», la voce mi tremò; l'ottavo con la voglia impellente di piangere.
«Non mi interessa! Verranno anche i suoi genitori a spiegare cosa sia accaduto», disse infine, sbattendomi la porta della sua stanza in faccia.
«Non sono più una bambina!», colpii la porta con un pugno, ma provocai più danni su di me, nel farlo, che al legno di cui era fatta.
«Infatti, però ti comporti come tale. Inizia a prenderti le tue responsabilità. Questo è un problema che hai creato tu. Adesso vedi di elargire i danni», udii prima di sbattere la porta anch'io.
Le persone che ci amano hanno strani modi di dimostrarlo.
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