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Capitolo 13

DANTE

Nel mio elenco mentale di pro e contro "dell'essere tornato" non sapevo dove collocare il fatidico incontro con mio fratello. L'ansia ottenebrava ogni sensatezza, e per quanto volessi celare la mia euforia, temevo una brusca reazione come risposta. O peggio, non riceverne alcuna. E non sarebbe stato in torto a riguardo. Avevo passato cinque lunghi anni a liquidare gli affetti famigliari dalla mia vita, e adesso, a causa di una ragazzina dagli occhi grandi, stavo rimpiombando nelle loro esistenze con la massima prepotenza. Sospirai, esasperato dalla tensione quando intravidi l'edificio principale. Stringevo ancora la mano di Sofia in una stretta rassicurante. Rassicurante per me, non certo per lei.

Si fermò al mio fianco, notando la mia esitazione. Varcare la soglia della palestra comunale risultava più facile a dirsi che a farsi. «Qué pasa, tio?», mi chiese con curiosità, piegando il capo da un lato. La coda di cavallo, un po' spettinata, le donava un'aura ribelle e selvaggia. Sprizzava energia da tutti i pori per quanto piccola potesse apparirmi.

«Nada, soy un poco nervioso», le mormorai piano, stirando le labbra in un sorriso teso.

«Che ti serva da lezione», udii alle mie spalle, «Ricorda che se semini vento, raccogli tempesta», mi superò sua madre, trasportando via sua figlia, e togliendomi tutta la sicurezza che avrei voluto sfoggiare.

Quando Sofia abbandonò la presa, mi sentii smarrito; ma fu solo per un attimo. «Grazie Eli, tu sì che sai come spronarmi», le dissi sarcastico, per allentare la tensione.

Ovviamente mi ignorò, entrando all'interno del palazzo con spavalda sicurezza. Intravidi l'oro dei suoi capelli luccicare al sole prima di volatilizzarsi dentro.

Qualcun altro afferrò la mia mano. Fu un tocco timido e dolce, come se volesse chiedere il permesso per toccarmi. Glielo concessi. «Non sei costretto a entrare», mi ricordò Edith, «Possiamo aspettare qui, se vuoi».

Costretto...

«Se lo affronto, sarò costretto a riaprire ferite che non vorrei ricordare», confessai senza guardarla, perso in un frammento di memoria. Il dolore, come l'amore, aveva diverse forme. A volte speculari, altre fin troppo simili.

«Se non lo fai, mai ti riappacificherai con lui», rispose computa, col tono di una maestrina.

Perché aveva sempre ragione?!

«Dovrei?», domandai ancora. La voce arrochita dall'emozione: «Potrebbe non concedermi un armistizio». E forse era questo che non volevo affrontare davvero. La possibilità di un rifiuto, e di non poter ricominciare.

«Io ti starò accanto. Accada quel che accada, non ti lascerò solo». Trovai il coraggio di sostenere il suo sguardo, luminoso e limpido. Sembrava imbattibile oltre che bellissima... rammentandomi Sofia.

Mi strinsi nelle spalle: «Non sei tenuta a farlo».

La vidi scrollare le sue, infondendomi nuovo sostegno: «Lo faccio perché ne ho il piacere», continuò sorridendomi, «Coraggio, un bel respiro e andiamo», mi incoraggiò, provando ad avanzare, ma non glielo permisi. La strattonai contro di me e la baciai appassionatamente.

Era inevitabile. Avevo provato a sottrarmi, a lottare interiormente contro il volere di farlo. Avevo perso con me stesso... e n'ero felice. «Sono un bugiardo...», mormorai contro le sue labbra, «Avevo detto che non ti avrei più toccata».

Edith riprese fiato con lentezza esasperante, godendosi l'attimo d'estasi come se avesse atteso una vita intera. Mi fissava in un modo che avrei voluto vedere in tutti i volti che incontravo.

Elida aveva ragione, ero un feticista degli occhi chiari.

Soprattutto per i suoi.

Sssh, sta zitto! Dovevo distogliere l'attenzione da lei se dovevo fare la cosa giusta: «Sono pronto, andiamo», e le lasciai la mano.

***

La palestra si elevava su due piani: l'entrata affacciava sullo spazio comunale, prenotabile dagli enti pubblici, mentre i piani superiori, riservavano al privato. Conoscevo il luogo molto bene, e a giudicare dagli interni, non era cambiato affatto. Dristan c'era cresciuto, lì dentro; amava allenarsi e praticarci i suoi sport preferiti: la box e il parkour, ma di quest'ultimo preferiva l'esterno, perché quando giocavamo ad Assassin's Creed sognavamo di saltare sugli edifici...

Risate e schiamazzi di noi due mi tornarono alla mente. Ricordare faceva male, ma non quanto rivederlo. Mi bloccai, trovando la sua figura non molto lontano. Dava le spalle, insegnando a due ragazzini come tirare un gancio destro. L'aveva spiegato anche a me, tempo prima. Sembrava più alto, e con più muscoli. Elida gli era vicino sfoggiando un'espressione apprensiva; sapevo leggere e decifrare ogni sua emozione come se fosse stata la mia. Non gli aveva ancora riferito del mio arrivo, e n'era preoccupata.

Presi un lungo respiro e mi avviai da lui. Ogni passo parve un macigno da sollevare in avanti, rendendo il tratto faticoso e impervio. Detestavo i drammi delle mia vita, mi allarmavano più di quanto avrebbero dovuto. Anche se, i più ansiosi, avrebbero definito tutto questo normale.

*Angolino dell'Autrice*

Bella tutti raga, come state? Io non tanto bene. Il mio fidanzato continua a farmi sentire una sua proprietà piuttosto che la sua fidanzata... Ho sempre detto che Dante è una versione di lui, o per meglio dire, una lontana versione di com'era (che io amo). Sta cambiando. Entrambi stiamo cambiando, e nel giro di sei mesi sto finalmente facendo chiarezza su cosa voglio...

Scusate lo sfogo.

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