Capitolo 10
EDITH
«Allora Edith, in macchina hai accennato qualcosa alle scuole materne. Sei una studentessa che ha concluso il suo percorso da tirocinante; intendi insegnare in un prossimo futuro, dunque?», domandò il signor Argenti a capotavola. Era una situazione talmente irreale da stentare a credere che fosse vera. La mia vita aveva subito talmente tanti cambiamenti nell'ultimo mese, d'essermi irriconoscibile. Ero all'università perché aspiravo ad essere un'educatrice? Non lo credevo più, ormai. Dovevo ancora abituarmi all'imprevedibilità con cui questi si susseguivano, distorcendo le mie buone intenzioni di studio.
Accomodata in compagnia di tutti loro, nell'ariosa sala da pranzo, schiarita da un caldo sole primaverile, assecondai la situazione. Annuii appena, intavolando le mie volontà: «Vorrei dedicarmi ai bambini speciali», mormorai con timidezza, intanto che la Signora Argenti serviva la portata principale. Mi concesse un sorriso che ricambiai, mentre un buon profumo risaliva dal piatto, solleticando il palato: «Cos'è questo?», indicai la pietanza nella terrina in ceramica. Gli occhi mi brillarono di curiosità, e solo in un secondo momento distinsi il figlio dei coniugi ad osservarmi, in silenzio, circospetto e guardingo dinnanzi a tutti loro. Era triste assistere a tanto risentimento.
«Pastel de choclo, una comida cilena», intervenne la madre di Dante, sedendo accanto al marito, fra l'eleganza e la boriosità dell'arredo.
«È un tortino di mais, macinato di manzo, speziato con cipolla e uova», spiegò lui, inforcando un boccone fumante. Prima che Dante potesse replicare, lo vidi afferrare il bicchiere ricolmo d'acqua e tracannare una lunga sorsata: «Scotta!».
«Sopla amorcito... Tambien Edith, sopla qué hace calor», si raccomandò lei con me. La signora Argenti possedeva lo stesso sguardo dei figli: profondo, colmo di abissi inesplorati, segreti inconfessabili, misteri oscuri, e dolci promesse. Tutto racchiuso in un'unica occhiata. Com'era possibile?
«Sì, Edith, soffia che scotta», gracchiò di nuovo il padre di famiglia. Le lacrime agli occhi e il volto arrossato, mi ricordarono quanto in realtà fossi maldestra anch'io, proprio come lui. Non eravamo diversi, dopotutto.
Lo imitai, soffiando sul boccone un paio di volte prima di assaggiarlo: «È buonissimo!», fui esaltata dal nuovo sapore, rallegrando le papille gustative. Se avessi potuto, lo avrei divorato tutto in una volta, come si poteva resistere? Sembravano passati mesi dall'ultimo pasto consumato, e per questo, mi ci dedicai con gusto, apprezzandone ogni nuova forchettata.
«Bene, siamo contenti che non lascerai nulla agli affamati, ma tornando a noi: come mai vuoi dedicarti agli andicappati?», mi sorprese la più giovane della famiglia, attirando l'attenzione di tutti, e raggelando il mio appetito.
«Deva Catalina Argenti?!», l'ammonì la madre. Lo sguardo severo non ammise repliche, ma non fu sufficiente a rabbonire la figlia.
La vidi stringersi nelle spalle, perplessa: «Cosa?! Sono andicappata anch'io», si giustificò, attendendo una risposta da parte mia.
Posai la forchetta nel piatto, deglutendo i rimasugli rimasti: «Non sono... Non siete andicappati», mi corressi alla fine, ricambiando il suo sguardo con apprensione.
«No, giusto, siamo speciali», sorrise con falsa cortesia, piccata dall'ipocrisia della parola stessa. Chi è speciale, non sa d'esserlo. Forse, lei si sentiva solo diversa...
Dante si limitava ad assistere, la sua fetta intoccata, guardandomi in attesa della risposta.
Mi schiarii la voce, improvvisamente nervosa: «Mia... Mia nonna paterna era disabile. Lo è stata fin dalla nascita. Originaria della Provenza, nel sud della Francia, fu costretta a trasferirsi per questioni economiche, e salutari, in Italia. Mio padre mi donò il suo nome quando morì, raccontandomi la sua storia e di come si fosse sentita esclusa per la maggior parte della sua esistenza...», spiegai a disagio, strofinandomi i palmi delle mani sulle cosce fasciate dai jeans. «Tutt'oggi esistono bambini in difficoltà, che non riescono a integrarsi, e vorrei poterli aiutare. Il modo migliore per farlo inizia con l'insegnamento», conclusi urgentemente, togliendomi dall'imbarazzo del momento.
Tutti e quattro ammutolirono, rimarcando un silenzio lapidario e carico di giudizio. Mi sentivo esposta, sensibile alla loro opinione, pronta a inghiottirmi il cuore in tumulto. «Anche noi ci siamo trasferiti qui, da Santiago Del Cile, per le condizioni di salute riguardanti Deva», confermò la signora Argenti, fissandomi commossa, e placando il mio tormento.
Sorrisi appena: «Ci lega una storia comune, allora».
«No, solo l'amore per Vincent Van Gogh, amante della Provenza», bofonchiò la sorella di Dante, sbocconcellando la parte superiore di mais con minuziosa attenzione. «Soggiornando nel sud della Francia, ha creato un'opera di una bellezza sopraffina», espose con maestria.
«Quale?», domandò suo fratello, non particolarmente coinvolto nella conversazione.
«I nomi di quest'opera sono molteplici, ma io preferisco quello più inusuale: “Sole e Luna”», rivelò nell'esatto momento in cui suonò il citofono, distraendo i presenti. Dante ed io sussultammo all'unisono, guardandoci di sottecchi, complici di un segreto solo nostro.
Distratti da questo, nessuno di noi due fu pronto a ciò che ci coinvolse in seguito. «Permiso», udii in lontananza, e la risata argentina di una bimba farle eco. Una giovane donna comparve sulla soglia ed io compresi chi fosse prima ancora che avesse l'opportunità di presentarsi.
Elida.
*Angolino dell'Autrice*
Buon pomeriggio raga, come state? Spero bene. Scusate l'assenza, ma è stato difficile... scrivere una storia in cui mescoli fantasia con i ricordi personali, soprattutto se è stato corrotto tutto dal dispiacere, non è stato facile... spero di riuscirci a piccole dosi.
Adesso le cose vanno un po' meglio, ma vivo in un equilibrio sottilissimo, a cui basta poco per spezzarsi. Cercherò di tornare più attiva, così da regalarvi questa (bella?) Storia d'amore.
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