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𝚠𝚊𝚗𝚝 𝚊 𝚝𝚊𝚜𝚝𝚎

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Quanti giorni sono passati?

Da quella sbronza clamorosa, intendo.

Ecco, ben tre.

Giorno dopo: ero da buttare. Ho passato la nottata a fissare il soffitto cercando di capire se le piastrelle mi sarebbero cadute in testa o se i muri si fossero sul serio messi a ballare la macarena ai miei fianchi.

Il secondo, ero civile.

Abbastanza da vestirmi e buttarmi fuori dalle quattro pareti della mia stanza del dormitorio per seguire il corso di biochimica che inizio a detestare per la quantità di nozionismo sterile che ci infilzano in mezzo.

E la sera stessa, ovvero ieri sera, è arrivata.

La prima boccata d'aria dalla vita noiosa e piatta che mi sto convincendo a vivere.

>> BAMBINOOOOOOO <<

>> sono teru <<

>> terushima <<

>> yūji la salvezza del creato combattente per i diritti delle minoranze difensore dell'ambiente occasionalmente amato da donne e uomini per grandi doti sessuali incredibili ma part time prima combatto per l'ambiente <<

Non nego che al quarto messaggio, sono scoppiato a ridere.

Caotico, Terushima.

Proprio caotico.

E comunque prima che potessi avere anche solo l'animo di rispondere, ne è arrivato un quinto.

>> domani sera io e questi due vermi volevamo sapere se ti va di venire a da noi e poi usciamo a bere <<

>> Audio: 0.45 <<

Solitamente gli audio inviati da persone che non conosco mi mettono ansia.

Ma Terushima lo conosco, credo.

E c'è qualcosa in lui che mi ispira genuina simpatia.

Per cui, sotto le coperte della mia stanza, al buio, ho premuto il dito sul tastino nello schermo del mio telefono.

− Yaaaaaaamaguchi sono Bob. Bobata. Bob, sì, insomma, hai capito. Volevo solo dire che io e Futa non siamo dei vermi ma... −

− Molla! Mollalo! - ha urlato qualcuno di sottofondo, immagino fosse Terushima.

− Zitto, animale! Futa è un verme, su questo sono d'accordo, ma io no! Io non sono un verme! -

− Hey ma che cazzo vi ho fatto? E poi il mio patronus è la farfalla, l'ho letto su Pottermore... − e questo ho immaginato fosse Futamata.

− Molla il cellulare! Schifoso, ridammelo! -

L'audio si interrompeva poi con un ennesimo insulto.

Ricordo di aver riso, ieri, chiuso nel mio corpo.

E di aver pensato un timidissimo "ma che c'è di male, in fondo, se ti diverti".

E di aver risposto che ci sarei stato.

Ed è, in breve, brevissimo, come sono arrivato qui.

Di fronte ad una porta di legno che sembra aver passato le pene dell'inferno, con le mani che tremano appena, in attesa di bussare.

Terushima mi ha chiesto se avessi bisogno di essere accompagnato, ma ho deciso cortesemente di rifiutare.

Mi sembrava di essere di peso, e in ogni caso penso di riuscire ad arrivare in un posto senza perdermi.

Di fatto, ci sono riuscito.

È solo che all'idea di bussare, mi tremano le gambe.

Al solito, Tsukki mi avrebbe detto che non dovevo farmi troppi problemi, che andava bene come mi ero vestito o legato i capelli e avrebbe stretto la mia mano prima di bussare per me.

Ma questa volta, sono proprio io a doverlo fare.

Faccio mente locale.

Non sto cercando di fare una guerra.

Non sto salvando il genere umano da un mostro alieno.

Devo suonare un campanello.

E oltre quella porta c'è solo Terushima. Terushima con i suoi tatuaggi e la parlantina sciolta, e Bob che dice sempre quello che pensa e Futa che, testuali parole, "già è tanto se non si è ammazzato in questi vent'anni di vita".

Posso farcela no?

Non ho bisogno di Tsukki per una cosa così semplice.

È giusto che mi diverta.

Mi ha detto lui di esplorare la mia vita, a grandi linee.

Anche se immagino che vedermi cacciare la testa nell'appartamento universitario di tre tipi disastrati come loro non fosse nei suoi piani.

Ma se invece fosse nei miei?

Chi mi ferma dal decidere che può essere nei miei?

Una volta ho sentito dire a Daichi che Michimiya era andata avanti al suo rifiuto solo quando si era veramente resa conto di quanto si divertisse a prescindere dalle relazioni.

Quando aveva iniziato a prendere in mano se stessa e smettere di infilare la sua felicità nelle mani di qualcun altro.

Non che io voglia tirarmi via dalla stretta di Tsukki, non vorrei, non avrei mai voluto.

Ma questa cosa l'ha fatta lui, no?

Tanto... vale.

Tanto vale.

Busso.

Un movimento inizialmente sicuro e deciso, che nell'allungarsi dei secondi, però, diventa flebile.

Chi vuoi prendere in giro, Tadashi?

Tanto vale che?

Chi dovrebbe valere?

Tu?

Non farmi ridere.

Smetti di prenderti per il culo.

L'onda di pentimento e pensieri negativi, è forte. Mi investe e mi fa tremare, ed è come se potessi piangere per davvero, qui, sul pianerottolo di un edificio nel quale non so perché sono.

Chi vorrebbe passare una serata con me?

Sembrava gentile, l'invito, eppure.

Ma non dire stronzate, Tadashi.

Stiamo parlando di te, no? Tu, di divertente, di preciso, cos'hai?

E sull'orlo di prendere tutto e scomparire nella tromba delle scale scoppiando a piangere, incerto anche solo a muovere un passo e a prendere una decisione definitiva, la porta si apre.

Dimenticavo di rendermene conto, l'ultima volta, ma Terushima è davvero un bel ragazzo.

Non è alto come Tsukki, ma più di me, e ha le spalle larghe, un sorriso davvero affettuoso, un fisico ben piazzato.

Ha questo modo di fare così... spensierato.

− Scuuuusa se non ho aperto subito, Bob mi stava battendo a Mario Kart e non volevo far vincere quell'infame e... no, aspetta. Che è quella faccia? Tutto bene? - si interrompe nella fiumana di parole che nemmeno lui sapeva di aver iniziato a dire.

Cazzo.

La mia faccia è espressiva, me lo dimentico sempre.

Cerco di dipingere il volto più tranquillo che posso, ma davanti a qualcuno di così onesto, fingere non è per nulla facile.

− Ehm... sì, ero solo... come dire... preoccupato di... − farfuglio, la mano che trema al mio fianco.

Alza un sopracciglio.

− Hai bisogno di un abbraccio? Supporto morale? Ti offrirei prestazioni sessuali ma sei troppo carino per quello. - scherza.

Ok, non so cosa pensare.

Se il tentativo era quello di distrarmi, cazzo, è riuscito in pieno.

La mia faccia diventa rossa, ma rossa sul serio, e corro immediatamente giù con lo sguardo.

Carino?

Troppo carino?

Io?

Detto da uno che sembra aver visto qualsiasi forma e concezione della bellezza e dell'erotismo negli ultimi anni della sua vita?

Come si reagisce ad una cosa del genere?

Pensa, Tadashi, pensa.

E l'unica cosa che mi viene in mente, paradossalmente la più onesta, è quella che dico.

− Una sigaretta. Non sono andato a ricomprarle e morirei per averne una ora. - ribatto, semplicemente, ignorando il calore sulle mie guance che Terushima sembra seguire con attenzione.

Allunga una mano oltre la porta, mi afferra delicatamente il polso, mi fa entrare.

− Sigaretta di che? Tabacco? Erba? Quella non la compro da un po', avresti dovuto dirmelo prima se avessi voluto... −

− Tabacco va bene, credo. -

Sorride, si sporge, chiude la porta.

− Perfetto allora! Ho tutte le sigarette che vuoi! -

Casa loro è... non mentirò, è un casino.

Non è sporca, non mi sembra che lo sia, ma c'è roba praticamente ovunque.

Dalla pila di fumetti sul tavolo ai libri aperti e sparsi in ogni superficie disponibile, un tabellone da freccette bellamente disegnato sul muro con la faccia di Terushima stilizzata al centro, una collezione di tubi delle Pringles di qualsiasi gusto umanamente concepibile, polaroid di loro tre spiaccicate ovunque.

Non sono abituato, al disordine.

Tsukki è maniacalmente ordinato, e conoscendoci da quando eravamo piccoli ho un po' preso questa cosa da lui.

Però non è così fastidioso, credo.

− Yams? Sei tu, Yams? - urla qualcuno da dietro il divano.

Terushima alza una spalla.

− No, è Cristo. Ma sei scemo o cosa? -

− Stai zitto, schifoso. Anzi, portami una patatina. -

Il divano è di pelle, nero, inspiegabilmente intero.

Mi avvicino di qualche passo che trema.

Bob e Futa sono seduti sul tappeto, la schiena contro i cuscini, i controller in mano, e gareggiano fieramente un terzo giro sulla pista arcobaleno di Mario Kart 8.

Terushima allunga un braccio verso il tavolo, prende una patatina, poi si sporge sul divano.

Bob apre la bocca con un "aah" ridicolo, prende la patatina fra le labbra, mastica e ringrazia persino prima di mandare giù.

L'ho detto, no?

Caotici.

− Come stai, bambino? - chiede Futa da davanti, il ginocchio che colpisce quello di Bobata per punirlo di un qualche affronto che non riesco a vedere sulla televisione, senza occhiali.

− Mmh, bene, credo. -

− Credi? -

Bob preme un paio di tasti, manda giù.

− Ancora sotto un treno per il tuo ex? -

Non ha tatto, quando lo dice. È quasi brutale, l'onestà, ma non è falsa.

Forse apprezzo il modo schietto, perché mi riporta alla realtà delle cose. Mi fa stringere fra le mani i fatti che succedono davvero, più delle speculazioni senza senso del mio cervello confuso.

− Mh-mh, decisamente. - mi ritrovo a rispondere, meno a disagio di quanto mi sarei ingenuamente aspettato.

Di colpo mi sento afferrare dalla vita.

Soffro il solletico.

Mi viene da ridere.

− No! Stasera non si parla di nessun ex, di nessuna rottura, di niente. Ora tu ti siedi sul divano, guardi quel miserabile di Futa che viene distrutto da Bob, ti porto una sigaretta e ci divertiamo, ok? - mi sento gridare da un Terushima con una voce troppo, troppo materna per essere seria, mentre mi tira su di peso.

Ok che non sono proprio enorme, ma c'era bisogno di prendermi in braccio?

E in ogni caso atterro col culo sul divano.

Indugia.

Sulle mie spalle.

Si china e mette il mento sopra la mia testa.

Che... che fa?

Ha un buon... odore, credo.

Fisso la televisione.

Mani sulle spalle che scorrono verso l'alto, sta per staccarsi da me.

Ciocche fra le sue dita?

− Mi piace un sacco il colore dei tuoi capelli, comunque. - borbotta.

Io... non...

Non capisco.

− Gra... grazie. - mormoro di risposta.

Ed eccolo, un'altra volta lontano, in cucina, che mi guarda in quel modo sornione e guardingo che non decifro.

Terushima, Dio, mi sembrava di capirti meglio quando ero ubriaco e disperato.

Nel dubbio, perché ancora non l'ho fatto, mi sfilo le scarpe e le lascio vicino al divano, mi sporgo verso una sedia di quelle da pranzo per mollarci sopra la giacca di jeans.

Quando me la sfilo di dosso, un rumore.

Vetro.

Mi giro.

Occhi vispi, enormi, bocca appena spalancata, un bicchiere in frantumi per terra.

− Che cazzo... tu... che cosa ti sei messo? -

Panico.

Che cosa mi sono messo?

Cosa... mi sono messo?

Una delle maglie che mi ha regalato Suga, dobbiamo uscire, no? È brutta? Sono troppo scoperto? Forse... forse lo scollo dietro.

Forse perche la schiena è nuda, scoperta nello spazio di due lembi di tessuto che si separano vicino all'orlo attaccato al collo alto.

Dev'essere brutta, la mia schiena.

No, cazzo.

Ora... ora che faccio, come faccio, io non... non lo so, cazzo, cazzo...

− O Dei, ora mi eccito. Bob, prendi dell'acqua ghiacciata. Sei una roba da svenimento, bambino. - dice poi Futa e...

Un attimo.

Voleva dire... questo?

− Assolutamente. Volevi attentare al mio cuore, di' la verità! - risponde Teru dalla cucina.

− Io... −

− Almeno avverti, prima. Ho anche fatto cadere il bicchiere! -

Mi sa che la mia schiena non è brutta.

Cioè forse lo è e me lo stanno dicendo solo per...

Dio, io e il mio panico.

Siamo davvero penosi.

− Ma guarda quante lentiggini! Le hai su tutto il corpo? - si accoda Bob con le dita che mettono in pausa lo schermo di fronte a lui e al suo amico.

Mi stanno guardando tutti e tre.

Sono... sotto i riflettori.

Arrossisco, mi nascondo guardando in basso.

− S... sì. -

− Ma che figata! -

Ed eppure a me stanno davvero sul cazzo questi miliardi di minuscoli nei color terracotta. Perché qualcuno che mi diceva che mi rendevano unico, ora non c'è.

− Sono davvero... belle. Le tue lentiggini, intendo. - ed è Terushima, questa volta.

Perché i complimenti che mi fa lui sono così diversi da quelli di Bob e Futa?

C'è un fondo... strano.

È come se stesse dicendo qualcos'altro, con quelle parole, come se intendesse qualcosa di velato che ancora non riesco a decifrare appieno.

Non è una brutta sensazione, in ogni caso, per cui decido di ignorare, ancora una volta, qualsiasi ammasso senza senso dei miei pensieri.

Pensare troppo alle cose fa male.

Ed è forse il caso che per una volta me ne renda conto.

Le mie guance sono di un rosso caldo e timido, mentre mugugno un "grazie" a mezza voce e cerco di evitare le luci della ribalta in ogni modo.

Bob e Futa ricominciano a giocare.

La situazione sembra sciogliersi.

Appoggio la mia schiena - maledetta portatrice di problemi - contro lo schienale del divano, e mi concedo di prendere un bel respiro.

Divertiti, Tadashi, divertiti.

Te lo meriti, devi cercare di non pensarci, ai problemi. Ok?

− Che fumi di solito? - mi sento chiedere da dietro.

− Camel Blue, o qualsiasi cosa leggera. - rispondo.

Non fumo spesso, almeno non lo facevo prima che Tsukki mi lasciasse. Tabacchi più forti mi fanno venire la raucedine e tossire.

− Cazzo. Ho solo Marlboro Red. Troppo? -

Decisamente.

Ricordo di averne provata una per caso un paio di giorni fa, allungata da un'altra matricola alla quale l'ho chiesta per disperazione, è che sono timido, sì, ma pur sempre assuefatto, e di aver tossito come un coglione per almeno venti minuti.

− Non... non è un problema... −

Terushima ha il pacchetto fra le mani, quando si avvicina.

Da dietro, di nuovo.

Piego la testa all'indietro, girando appena il mento per guardarlo.

− Quello che pensi. Dimmi solo quello che pensi, non ci sono problemi. - riprende.

Ha un tono sincero, onesto.

Quello che penso?

Quello che... penso.

− Sono forti. -

No, cazzo.

Cos'ho fatto?

L'onestà non devi usarla, con le persone, Tadashi. L'onestà non piace.

Cosa voleva sentirsi dire? Cosa dovevi dirgli?

Cazzo, cazzo, rovini sempre tutto.

Idiota, maldestro, incapace...

− Miseria, mi dispiace. Vuoi fare a metà? Se vuoi il primo tiro lo faccio io, così ti brucia meno la gola. - ribatte, invece.

C'è una semplicità nel modo in cui accetta il mio moderato rifiuto che mi lascia interdetto.

Non... è un problema?

Gli... dispiace?

− Va... va bene. - balbetto, nella completa confusione per quello che è appena successo.

Sorride, in quel suo modo lievemente storto, allunga gli avambracci sullo schienale del divano e piega lievemente la schiena, tira fuori l'accendino dalla tasca dei pantaloni della tuta.

Sigaretta fra le labbra appena increspate, piega le sopracciglia fra di loro per osservare la fiamma, tira, l'accende.

Ho sempre trovato che ci fosse qualcosa di affascinante nelle persone che fumano.

Non so bene spiegare in che modo, ma è da quando ero piccolo, che lo penso. Forse per le sigarette di disperazione di mia madre dopo un giorno di lavoro particolarmente stressante, forse per i film.

Ma il modo in cui la nuvoletta bianca si intreccia nell'aria e circonda il viso di una persona, l'odore pungente e quel modo di fare qualcosa che è sbagliato con una tale soddisfazione, li ho sempre trovati affascinanti.

Terushima, su questo, non è un'eccezione.

Anzi, penso che con lui si sposi decisamente bene, l'immagine.

Questa aura misteriosa e in qualche senso cattiva che gli dà.

Prende un altro tiro, incastra il filtro fra le dita, lo toglie dalle labbra.

Sporge la mano verso di me.

Mi sta offendo di provare... con la sua mano.

E che male c'è?

È una mano, miseria.

Solo una mano.

No?

Mi avvicino e mi lecco appena il centro delle labbra prima di aprirle, che se la pelle è secca poi la carta si attacca e fa male toglierla.

Inspiro piano.

Non brucia.

Non così tanto.

Niente tosse, quando mi tolgo.

Niente quando espiro il fumo addosso alla sua mano.

− Tanto male? - mi chiede, poi, spezzando quell'attimo di silenzio che si era formato.

Alzo una spalla.

− No, non così tanto. -

− Vuoi finirla? -

E mi viene naturale, la risposta.

Forse mantenere questa tensione che non ha nessun fine se non quello di essere solo un po' strana e delicata nella semplicità del momento.

− No, no. Dividiamola. Ti va? -

Vedo solo un lampo di sorpresa che gli attraversa il viso, ma poi, non fa altro che sorridere.

− Come vuoi, per me va bene. -

Circumnaviga il divano con un paio di passi, tira un calcio scherzoso alla spalla di Futa che sta litigando su qualche irreprensibile questione riguardante il Torneo Foglia con Bob, e si arrampica sul divano.

Quando mi passa la sigaretta, invece di farmela fumare dalla sua mano, devo ammettere che forse un po' mi dispiace.

Ma è una stronzata.

Quindi prendo il filtro fra le dita, getto indietro un paio di ciocche di capelli e fumo con calma.

− Dove ti va di andare, stasera? - mi chiede poi, osservandomi direttamente, senza problemi.

Dove mi va di andare?

− Non so. Tu? -

− No, no. Scegliamo insieme. Miserabili, idee? - chiede ai suoi due amici impegnati, questa volta, in qualche pista piena di enormi funghi su cui le macchine rimbalzano.

− Beviamo? - fa Bob.

− Tadashi l'ultima volta è rimasto sbronzo per due giorni, eviterei. -

Terushima che mi chiama per nome non è strano quanto dovrebbe essere, credo.

Ignoro.

Allungo la mano verso di lui, prende la sigaretta direttamente con le labbra e sorride un istante verso di me.

− C'è un locale carino che fa anche degli analcolici buoni. E c'è la discoteca, se vuoi provarci con le ballerine lesbiche. - commenta Futa dopo un po'.

− Ti va? - mi sento chiedere.

− A voi? - ribatto.

Terushima fuma, si adagia con la schiena sul divano, mi prende il mento fra le dita e mi gira verso di sé.

− Ti ho chiesto se va a te. Se non ti va, cambiamo, nessun problema. Se ti va, andiamo. Non avere paura di dire quello che pensi, qui non ti giudica nessuno. -

− Vero. - ed è il primo dei due seduti per terra.

− Affermativo. - l'altro.

Non mi giudica nessuno.

Ma sono io a giudicarmi, forse.

Ok, ma che bene mi fa, farlo?

Immagino nessuno.

− Mi va. -

Faceva così paura?

Dire la mia?

Forse... forse no.

− Perfetto. Partiamo fra un po', mi devo ancora vestire. -

− No, cazzo, no. Ci metti sempre una vita a vestirti. Stupida troia esibizionista. - borbotta Futa da davanti, facendomi ridere appena.

Terushima tiene il mozzicone fra le dita, una striscia di tabacco minuscolo prima del filtro.

− Vuoi l'ultimo tiro? -

Annuisco.

Di nuovo, la sua mano, le sue dita contro il mio viso quando mi sporgo.

E in un istante, è finita. Buttata nel posacenere sul tavolo con un tiro da cestista.

− E comunque non si dice "troia". Si chiamano "sex worker". - corregge.

Ecco tornato il patrono delle donne e dell'ambiente, Yūji Terushima difensore dei più deboli. E come diceva lui? Grande amatore part time?

− Sì, sì, come vuoi. Non iniziare. Ci hai spiegato i pronomi neutri per due ore stamattina, per oggi imploriamo pietà culturale. - completa Bob.

Terushima sbuffa e ridacchia, poi si gira verso di me.

− Vuoi darmi una mano tu? -

Aggrotto le sopracciglia.

− A fare che? -

− A scegliere cosa mettere. Visto che sono una sex worker esibizionista, a quanto pare. -

Perché?

Ma soprattutto... perché no?

Che tanto oggi siamo in vena di follie, no? Che male c'è se vado di là e gli dico cosa mettersi? Assolutamente niente, credo.

Questa stupida sensazione di star tradendo la fiducia di Tsukki è fastidiosa, però.

Ma in fondo, alla fine, pensandoci bene, mi ha lasciato.

Mi ha lasciato.

E allora che cosa gli devo?

Che fiducia gli devo?

Vorrebbe che facessi il perfettino per rimanere la pallida imitazione di me stesso che sono stato una vita intera?

Non lo so, ma al momento, decido anche che di questa faccenda, per un attimo solo, può non importarmi.

− Certo. -

E non succede nulla.

Ho questa soddisfatta sensazione di sapere perfettamente che, qualsiasi cosa io voglia o non voglia fare, lui non vorrà niente da me.

Forse è per questo, che lo trovo così gradevole, perchè non ha pretese.

E direi, che va più che bene.

Mi indica camera sua con un gesto del capo e mi infilo senza problemi in una stanza stranamente ordinata e pulita, il letto rifatto, un pacifico odore di cotone ovunque.

− Benvenuto nel mio magico regno. - dice ridacchiando mentre mi segue, infilandosi dietro di me.

Non chiude la porta.

Da una parte perché non ha senso che lo faccia, dall'altra perché ho la sensazione che non voglia farmi sentire rinchiuso.

Si piazza a braccia incrociate di fronte ad un armadio enorme e spalanca le ante.

− Allora, che cosa mi metto? -

Do un'occhiata veloce.

Ha cose di ogni genere.

Ogni genere.

Persino una... gonna?

− Che ci fai con una gonna? - chiedo incuriosito.

Alza le spalle, strofina il tessuto fucsia fra le mani e si gira assolutamente tranquillo.

− L'anno scorso un mio professore ha detto ad una mia compagna di corso che non poteva mettersi una gonna corta per venire a lezione, che era volgare. Ho messo questa gonna ai corsi di tutto il semestre. Ora che ci penso mi stava davvero bene, dovevi vedere che gambe mi faceva! - risponde pacatamente.

Scoppio a ridere.

Caotico, gentile, incomprensibile Terushima.

Rido così forte che mi fa male la pancia, che mi piego e devo appoggiarmi sul letto per non cadere, che mi escono le lacrime.

− Da... davvero? -

− Davvero. -

Riprendo aria con calma.

Mi sembra un'ottima idea scalare il letto e sedermi sopra il lenzuolo a gambe incrociate, tentando di ripescare il respiro che mi manca.

− Ma... perché? Intendo perché sei così... non so... hai capito, insomma. -

− Rispettoso? -

− Sì, quello. -

Si gira un'altra volta, caccia le mani nell'armadio e inizia ad arruffarle fra i vestiti.

− Mia madre e le mie sorelle. Sono cresciuto con loro, sai quante volte mi hanno raccontato che cosa diceva loro la gente per strada. Le cose brutte che succedevano solo perché erano donne. Mi è sempre sembrata una gran cazzata. Non costa niente essere gentili, e fa così tanto per gli altri che dovrebbe essere qualcosa che fanno tutti. -

Oh, non mi aspettavo che fosse così... delicata, la ragione.

Eppure lo è.

− Tutti pensano che siccome faccio molto sesso occasionale io debba essere per forza un bastardo. Ma amare il sesso e fare lo stronzo con le persone sono due cose diverse. -

Alzo un sopracciglio genuinamente incuriosito.

− Ma... non ti succede che le persone se la prendano con te, quando le molli? -

− È successo che qualcuno ci rimanesse male, ma io cerco di essere onesto. Dico le cose come stanno dall'inizio e cerco di non far sentire nessuno a disagio. Ci sono persone che non sono tagliate per le cose di una notte, però. -

Le sue mani atterrano su un paio di jeans scuri, neri.

− Questi mi piacciono. Che dici? -

Cerco di riprendere il filo del discorso.

− Piacciono anche a me. -

Li butta sul letto al mio fianco.

− Che ci metto sopra? Ho troppe magliette, cazzo. - borbotta, appoggiando le mani sui fianchi.

Mi sporgo pigiando le mani aperte sul materasso, mi focalizzo sul tessuto che distinguo a malapena.

Un lampo di colore.

Come un ricamo.

− Quella con il disegno giallo. - indico.

La tira fuori.

Aperta e spiegata, si vede meglio.

Nera, più lunga della vita, con la linea curva di un elettrocardiogramma intrecciata di un brillante ocra lungo tutto il bordo della parte inferiore.

− Sì, questa. Mi piace. -

Incrocia le sopracciglia.

− Il giallo? -

Annuisco.

− Ah-ah, ti sta bene. -

Silenzio.

Mi fissa per un istante intero, in silenzio.

Poi, come al solito, sfuma tutto.

− Mi cambio. Vuoi uscire? -

Devo ammettere che un pelino sono curioso di sapere come sono stati questi ultimi anni per lui e la sua figura. Ma non è il caso di fare cose di cui potrei pentirmi, per cui annuisco ed esco pacatamente.

Mi ringrazia per averlo aiutato, e rimango ad aspettarlo con Bob e Futa già perfettamente vestiti che, questa volta, litigano per le Pringles al gusto BBQ che pare stiano per finire.

− Già fatto? - mi chiede il primo.

Faccio "sì" con la testa.

− Miracoloso! - esclama l'altro.

Alzo le spalle.

− Mi ha solo fatto scegliere la maglietta. I pantaloni ha fatto lui. -

Bob alza un sopracciglio.

− Ti ha fatto scegliere la maglietta? -

− Ehm... sì. -

Gomitata a Futa, sguardo di sottecchi.

− Hai sentito, schifoso? Gli ha fatto scegliere la... maglieeetta. -

Ok, non sto capendo.

Ma non so se voglio davvero capirlo, questo duo.

Sono davvero... strani.

Terushima ci raggiunge l'attimo immediatamente seguente, vestito come aveva detto, e ammetto che avevo ragione. C'è del colore fra le immagini che dipingono la sua pelle che riprende quel tono ambrato e luccicante del ricamo e che in qualche modo fa sembrare la sua carnagione più dorata.

Gli sta bene, il giallo.

Si gira verso il mobiletto delle scarpe, sfila un paio di Dr Martens nere per se stesso e le appoggia a terra.

Poi prende un paio di Converse rosso fuoco e le lancia addosso a Futa, un paio blu e procede ad imitazione per Bob.

− Voi e le vostre scarpe da pagliacci! - grida, mirando proprio al loro corpo.

Ridacchio, andando a cercare le mie.

Le infilo sedendomi sul bordo del divano.

Terushima è il primo a finire, afferra una giacca di pelle dall'appendiabiti, mette le chiavi sul tavolino all'ingresso distrattamente nelle tasche.

E per un secondo, uno solo, uno minuscolo e minimo, lo penso.

Devo ammettere, che lo penso.

Che cazzo, è un cretino, ed è contraddittorio. Ma, diavolo, se non è anche davvero, davvero bello.

Il locale non è lontano.

Il tragitto lo passo a cercare di resistere alle risa mentre questi tre strambi tipacci si prendono in giro per storie di secoli fa, a ritrovarmi a coprire il mio sorriso intimidito quando si prendono in giro fra loro.

Mi serviva, un po' di divertimento gratuito.

Un po' di distrazione.

Il posto in cui arriviamo una decina di minuti dopo, a piedi, è molto carino. Decisamente meglio della bettola economica in cui ho ben pensato di prendermi una sbronza clamorosa qualche giorno fa.

Il piano bar è luccicante e colorato, costellato di baristi che sembrano sapere quello che fanno, e la gente che balla ha meno quell'aura sfatta e distrutta dell'altra sera.

Ci sediamo su un divanetto e, ironia della sorte, vengo spinto da Futa esattamente vicino a Terushima.

Non che la cosa mi disturbi.

− Cosa volete? - chiede poi Bob, quando ci siamo sistemati.

Aggrotto le sopracciglia fra di loro.

Mi viene il voltastomaco al solo pensiero di ingerire alcolici, devo ammettere.

− Una birra media per me, per te? - chiede Terushima, girandosi pacatamente verso di me.

− Niente con alcol. -

− Del vino? - propone Futa.

Bob lo colpisce.

− Il vino ha l'alcol, coglione. -

− Davvero? -

Ridacchio.

− Va bene anche niente, non c'è problema. -

Terushima alza le spalle.

− Ma no, figurati. Anche l'acqua, se ti va. -

Oh, ok.

Scegli.

Scegli Tadashi, scegli per te.

Impara che cosa vuoi.

Prendi un posto nella tua vita, catturalo, rimanici in piedi e fatti forza di quello che pensi.

− Acqua frizzante, allora. Non ho davvero voglia di alcolici. -

Bob sospira.

− Come vuoi, nessun problema. Futa facciamo subito a shot o vuoi una birra prima? -

− Birra. Poi dopo ci scateniamo. -

− Giusto, giusto. -

Si dilegua in un secondo.

Le mie mani si incartano mentre cerco il portafogli nella tasca posteriore dei jeans.

− Poi dovete dirmi quanto... −

− Naah, non preoccuparti. Oggi è giovedì, il giovedì offre Bob. -

− Ma no, dai... −

Terushima mi guarda dritto negli occhi.

− Tadashi. - dice.

Tono serio, un pelo più convinto del solito, sicuramente con una solennità più carica e meno innocente.

Mi gelo.

− Sì? -

− Rilassati, Tadashi. Non succede niente se ti offriamo da bere, davvero. -

Mi sembra che i pensieri si sommino in maniera meccanica.

− Non succede... non succede niente. - ripeto come imbambolato.

Sorride in un modo quasi... caldo.

− Esatto, non succede niente. -

Non succede niente.

Rilassati, Tadashi.

Non perché ti senti a disagio e devi importi uno stato d'animo che non provi, ma perché te lo meriti, di allentare questa cazzo di corda.

Era bello, essere teso come un fuso al ricordo di quello che hai perso?

Dio, no.

Invece sarebbe bello, magari, imparare che esiste qualcos'altro oltre alla routine che credevi così sicura?

Forse.

Merita quantomeno una chance.

− Grazie, Terushima. - mormoro.

Scuote la testa.

− Puoi chiamarmi per nome, sai. Non è che è un dramma. -

Posso?

Lui lo fa.

E io posso? Più che altro, voglio?

Prendo un grande respiro.

− Grazie, Yūji. -

Guance che si alzano, sguardo che scintilla.

Guarda come è felice la gente quando impari a scendere a patti con quello che vuoi, Tadashi.

E tu, come ti senti?

Perso?

Hai paura di questa libertà?

No.

Non ne sono spaventato.

La sensazione con cui me ne rendo conto, il momento esatto in cui si spande in me la consapevolezza che ci sono cose che posso decidere, è un misto fra il calore dell'emozione e una tensione rigida che si scioglie.

Puoi scegliere, Tadashi.

Decidere non fa così paura.

Puoi prendere davvero le cose in mano, se ci provi.

E, dritto come un fuso, a distruggermi come un terremoto su una città di cartapesta, l'attimo immediatamente dopo, il mio cellulare vibra.

Un messaggio.

Non è importante.

Vibra un'altra volta.

Ma che sarà mai, le notifiche dell'app dell'Università.

Una volta ancora.

E una dopo quella.

E un'ultima.

Scocciato dall'idea di interrompere la bolla della mia pseudo perfezione, lo tiro fuori e l'appoggio di piatto sul tavolo.

Vibra da qualche altra parte, figlio di puttana.

Bob torna con i drink impilati fra le mani come un giocoliere.

− Visto? L'avevo detto, che era un pagliaccio. - fa Terushi... no. No.

Non Terushima.

Datti spazio.

Yūji.

Ridacchio con le guance che si scaldano.

− Forse, forse. -

− Hey! Ti ci metti pure tu, ora!? - esclama il poverino appoggiando uno per uno i bicchieri fra le nostre mani.

Sorrido a metà.

− Che c'è, non posso? -

Bob attende un secondo.

− Tu puoi. Se poi me lo dici con quella faccetta carina puoi anche bestemmiarmi in faccia, bambino. -

Futa annuisce.

− Approvatissimo. -

Prendo la bottiglietta d'acqua fra le dita e ne mando giù un po'. So che è stupido, ma avevo davvero sete.

Yūji indietreggia fino a spiaccicare la schiena contro il divano, un braccio lungo lo schienale, verso di me, la caviglia appoggiata sopra il ginocchio della gamba opposta.

Un sorso.

Sorride.

− Cazzo, la birra. Bevanda degli dei. -

Storco il naso.

− A me non piace. È amara. -

Futa alza le sopracciglia.

− Vero? -

− Verissimo. La bevevo sempre quando uscivamo perché dicono che fa sembrare sofisticati, ma la verità è che mi fa davvero schifo, la birra. - confesso.

Dovrebbe essere imbarazzante, dire che ho finto una cosa così stupida.

Ma è paradossalmente... liberatorio.

Yūji ride.

− Felice di sapere che la odi, allora. È sempre una prima volta importante. - scherza.

− Oh, beh, se lo dici tu. -

Il mio cellulare vibra contro il tavolo.

Un'altra volta.

Sbuffo scocciato.

− Non rispondi? - mi chiede Bob, un baffo bianco di schiuma sul labbro superiore.

Alzo le spalle.

− Ma no, sarà il gruppo delle matricole. Mi sono dimenticato di silenziarlo. -

Annuisce, ignoro la questione.

Sto per ricominciare pacatamente a scherzare, quando, per l'ennesima volta, la vibrazione si propaga vicino a me.

E che cazzo.

Che vogliono da me a quest'ora?

Miseria.

Prendo il cellulare fra le dita, con un fastidio che non pensavo fossi in grado di provare, accendo lo schermo.

[Tsukki <3] >> Audio 0.33 <<

[Tsukki <3] >> Audio 0.11 <<

[Tsukki <3] >> Audio 0.14 <<

[Tsukki <3] >> Audio 0.09 <<

[Tsukki <3] >> Audio 0.21 <<

[Tsukki <3] >> Audio 0.42 <<

Dire che vedo bianco, è riduttivo.

Due settimane di silenzio.

Due intere.

Non un messaggio, non una chiamata, niente.

Zero.

E ora... ?

Mi alzo prima di pensarci.

− Devo andare al bagno. - borbotto di riflesso, prima di lasciare i ragazzi confusi al loro divanetto e scavalcare le loro gambe in fretta.

Bagno, bagno.

Eccolo.

Mi infilo.

È vuoto.

Mani sul lavandino, acqua fredda sulle mani, sul viso.

Mi guardo allo specchio.

Li faccio partire.

Il primo.

− Sono ubriaco come la merda, Tadashi. Sai che odio bere, ma avevo davvero voglia di farlo. Mi manchi. Mi manchi ogni giorno della mia vita. Che fai senza di me? Ti diverti? Spero di no. Voglio mancarti anche io. -

Il secondo parte senza che io lo azioni.

− Kyoto è fighissima, e stasera sono uscito con dei tipi che ho conosciuto qui, credo. Sono noiosi, tu non eri noioso. -

La sua voce si fa sempre più... trascinata, sbiascicata.

Tsukki non dice frasi sconnesse.

Tsukki non parla senza pensare.

− Ho bevuto come uno stronzo, davvero. Non so manco che cazzo ho bevuto. Fai il bravo senza di me? Spero di sì, che non voglio che ti metti in brutte situazioni. -

Mi sento avvampare.

− Mi manca scopare. Ma tipo da morire. -

Fuoco.

− Mi manchi troppo, cazzo. Perché ci siamo lasciati, già? Ma che cazzo ne so io, che mi frega. Vieni qui? Ti mando l'indirizzo. Non è lontano secondo me se prendi il treno arrivi. Così siamo felici e facciamo sesso. -

Non so... cosa... fare.

− In realtà sai che un po' ti odio? Perché non riesco a smettere di pensarti, porca puttana. Sto tutto il giorno qui a disperarmi come un bastardo, sembro quel figlio di puttana di Kageyama, che merda. Ti odio, cazzo. Mi hai rovinato la vita. Torna qui. Così la raddrizziamo. −

L'ultima parola finisce che sono...

Tornato al punto di partenza.

Come un cretino, qui, sull'orlo del pianto, a guardare il mio pallido riflesso in uno specchio.

Perché?

Mi stavo... divertendo.

Stavo... bene.

E l'attimo seguente, quello che arriva, quello è davvero inaspettato.

La rabbia.

Dicono che sia il secondo stadio di una rottura pesante.

Una rabbia cieca, nera, furiosa, che non riesco a controllare, che si infiltra in ogni angolo di me e mi fa tremare, che mi dice di smetterla e di mandare affanculo tutto, di rispondergli che deve andare a farsi fottere.

Come cazzo si permette?

"Spero di mancarti anch'io"?

Mi hai detto tu che non devo dipendere da te, bastardo. Mi hai mollato tu. E ora cosa cazzo pretendi quando vieni a dirmi che ti manco?

"Perché ci siamo lasciati"?

Ti sembrano parole da dire a qualcuno che ha passato due fottute settimane a distruggersi per quell'esatto motivo?

Io gli avrei rovinato la vita?

Io?

E poi, decido.

In quel minuscolo nanosecondo, decido.

Tu mi hai buttato via, Tsukki. Io ho passato giorni interi a parlare con il tuo ricordo perché pensavo non ci fosse altro in me con cui discutere, a disperarmi, a farmi schiacciare da un senso di colpa pesante e nero, soffocante.

Ma io, le persone che mi vogliono, le ho.

Vuoi vederlo?

Perché sono incazzato, Tsukki, sono incazzato.

Mi fai sentire così inutile con due minuti di audio mandati da ubriaco.

E io invece, vaffanculo, ora alla faccia tua, bastardo apatico, ora ti faccio vedere quel che cazzo ti perdi.

Figlio di puttana.

Sono fuori dal bagno l'istante dopo.

Fanculo, penso.

Fanculo.

Fanculo queste stupide pretese.

Fanculo il mio carattere di merda.

Fanculo questa insicurezza del cazzo che mi ha portato ad essere un idiota che piange nel bagno di un bar.

Fanculo tutto.

La rabbia, dicono che ti cambi.

Non pensavo di essere un tipo rabbioso.

Ma posso confermare, ora, che le tendenze che in me si creano guidato da questa cieca sensazione di furia, sono violente, e rapide.

Guardatemi.

Io, che mi nascondo dalla luce perché sono convinto che non me la meriti.

Dovete guardare me.

Mettete gli occhi su di me.

Fatemi sentire come dentro di me ho paura di non essere.

Datemi tutto.

Terushima sul divanetto, mi guarda, quando torno.

Non voglio le tue consolazioni, Yūji, voglio che mi guardi. Voglio che pensi che sono la cosa più bella che tu abbia mai visto, voglio che mi adori, voglio che identifichi in me una perfezione che non credevi esistesse.

Fatemi sentire vivo, bastardi.

Dimostrate a me stesso, alla mia rabbia, a Tsukki, alla realtà, che sono accecante.

Mollo la giacca che tenevo legata in vita sul divano, mi sciolgo i capelli.

− Che è success... − inizia Bob, ma lo interrompo infilando il cellulare, che ho spento, nella tasca dell'indumento che non indosso.

− Vado a ballare. -

− Eh? -

Futa non sembra capire, nessuno, lo fa.

Nemmeno io.

Ho solo questo fuoco che mi dice che devo mettermi in mostra, dentro.

Che ho tutta l'intenzione, per una volta, di seguire ciecamente.

− Vado a ballare. - ripeto.

Mi aspetterei altra incomprensione, dimenticavo che qui il giudizio non esiste.

È solo un costrutto inutile.

− Vai. - fa Yūji.

− Vado. -

Sto per dirglielo, di guardarmi.

Ma si gira da solo.

Le gambe all'esterno del divanetto e il volto che mi segue mentre mi allontano.

Occhi che bruciano sulla schiena nuda.

Guardami.

Le luci sono viola, e più mi avvicino più la musica è forte.

Che io sia bravo a ballare, lo sapevo timidamente anche prima. Ho semplicemente un buon senso del ritmo, e Suga come insegnante per tutti gli anni del liceo.

Guardatemi.

Guardate come sembrano brillare le mie lentiggini sotto le stroboscopiche di questa discoteca.

Guardate come i miei capelli si muovono piano ad ogni passo verso il centro, ondeggiando dell'inerzia dei movimenti, riflettendo l'atmosfera al neon.

Guardate la mia schiena nuda, i miei fianchi stretti, le mie gambe lunghe e magre.

Guardatemi e fatemi sentire qualcuno.

Perché mi sembra proprio di non essere più niente.

Primo spiazzo un po' isolato, mi fermo.

Mi sembra di avere un'aura insieme potente e fragile, quando chiudo gli occhi, e la musica mi scorre nel corpo.

Le mie anche si muovono da sole.

Guardatelo, il movimento dolce a ritmo di musica di un corpo che sembra fatto per farlo.

Braccia magre verso l'alto, una mano fra i capelli, via le ciocche dal viso.

Testa indietro, luci sul mio naso.

Guardatemi.

Ammiratemi.

Adoratemi.

Tu, che sei lì con i tuoi occhi fissi su di me. Tu che hai visto di tutto, tu che hai assaggiato la bellezza quella vera, tu, guardami.

Tu che ti blocchi quando ti dico che un colore ti sta bene, tu che attrai solo apparendo, tu che fumi le sigarette a metà con me, ammirami.

Pensa che sia meraviglioso.

Lancio un'occhiata indietro.

Ha la bocca aperta.

Le labbra appena separate in un'espressione completamente vuota.

Così, così.

Tu, adorami.

Tu, alzati.

Tu, vieni qui.

Gli sorrido.

In un modo che non mi sarei autonomamente attribuito, in un modo pacato e silenzioso e sornione, come un invito muto.

Anche che si muovono, oscillo piano la testa.

Si alza.

Vieni qui.

Dimmi quanto pensi che sia meraviglioso.

Pancia piatta che spunta dalla maglia che si sposta ad ogni movimento, pelle chiara e cremosa, stelle che brillano, queste lentiggini.

Sono belle, hai detto.

Dimostramelo.

Che valgono, che io, valgo.

Un passo alla volta, le persone attorno a me fissano lui, e fissano me.

Come un filo.

Come una tensione accesa e palpabile.

Vieni qui.

E quando è vicino, quando i suoi occhi castani sono grandi e vicini ai miei, e riflettono l'immagine incazzata di un Tadashi che non esisteva prima di adesso, sento la sua voce.

− Cazzo. Cazzo, Tadashi, cazzo. - borbotta.

Dietro di me.

Allungo un braccio, allaccio il suo collo sopra la mia spalla, schiena contro il petto.

Solido, accogliente.

− Che c'è? - chiedo, un sorriso che sembra una sfida sulle mie labbra.

− Io ci ho provato, a far finta di nulla, che ti sei lasciato da poco. Ma cazzo, sei... −

Dillo.

Dillo, avanti.

− Sei la cosa più bella che abbia mai visto. -

Adrenalina pura nelle mie vene. Come argentovivo che brucia nel calore della pelle e raggiunge ogni angolo di me.

Inarco la schiena, muovo il bacino un'altra volta a ritmo di musica, contro il suo.

− Non so per quale cazzo di motivo quello ti abbia mollato, ma è stato un coglione. Chi cazzo vorrebbe lasciare... te? -

Dillo ancora, a questa versione forte di me.

Gli fisso la bocca, chissà che sapore ha.

− Baciami, Yūji. -

− Sei sicuro? Insomma... −

− Baciami e stai zitto, cazzo. -

Fuoco, in me.

Che si accende ed esplode quando la mia testa si piega più indietro, quando con una mano affondo le dita fra i capelli rasati di un undercut e un paio di labbra che la sanno lunga si schiantano sulle mie.

Ed eppure mi bacia come se fosse lui, ad avere bisogno di me.

Guardami.

Lingua contro la lingua, ed è... freddo. Il piercing.

Bravo, cazzo, bravissimo.

Il modo dolce ma immediatamente bisognoso in cui mi spalanca le labbra, il metallo che si incontra con la mia bocca, una mano che stringe il mio petto.

Ancora, ancora.

Gemo contro la sua bocca.

Non si trattiene.

Gliel'ho dato io, il permesso.

Mi giro, braccia attorno al collo, sulle punte dei piedi,

Baciami ancora.

Cancella la sensazione di essere vuoto.

Labbra e labbra, mani che scavano sui fianchi, dita che salgono fino ai capelli, la mia testa leggermente tirata indietro.

Respiro.

− Tadashi... − sento dire da una voce bassa, e ancora una volta, è calore puro quello in me.

Guardami.

− Yūji. -

− Tadashi, cazzo. -

Il motivo per cui lo sto baciando, non lo so nemmeno io. Che lui è uno che non giudica, forse, c'entra un po'. Che sia stato con così tante persone ed eppure si sforzi di raggiungere me, fra tutte.

E che se cambiassi idea fra venti secondi mi lascerebbe andare come niente fosse.

Non so quanto sia la rabbia con Tsukki e quanto questa muta voglia di uscire da me stesso, a farmelo fare.

So solo che mi fa sentire bene.

Di nuovo, spalle fra le mie braccia, spalle larghe, forti.

Bocca contro la bocca.

Dio, se è bravo.

Dio, se non ho mai provato così tante cose con un... bacio.

Che baciare Tsukki era diverso perché la sensazione alla base lo era, ma la tecnica nuda e cruda, Yūji la sa alla perfezione.

Si avvicina alla mia cintura, vuole toccare più in basso.

− Posso? - chiede, staccandosi.

Annuisco e le mie labbra sono sulle sue ancora, le sue mani sul mio culo, corpo contro il corpo.

Forse mi mancava il contatto fisico.

Forse questa sensazione inconfondibile di essere... voluto.

Non mi stanco, di baciarlo.

Non mi stanco e rimango fra le sue braccia, labbra aperte contro labbra aperte, a gemere piano, di un genere di versi che sente solo lui, ogni volta che il gelo del metallo si intreccia alla mia lingua.

Quando si stacca per l'ultima volta, ha qualcosa negli occhi che non riconosco.

− Torniamo di là? - mi chiede.

Scuoto la testa.

− In bagno. - dico.

Respira.

So che lo vuole.

− No. -

No?

Corpo contro corpo, strofino le labbra contro le sue. Non può negare che sia... come dire, eccitato. Lo sento. È innegabile.

− Non mentire quando posso sapere che lo fai, Yūji. - lo stuzzico, punta del naso contro punta del naso.

Si blocca.

− Sono fatto di carne anch'io, sai com'è. Ma rimane comunque no. -

Mano che si apre contro un pettorale ampio. Gli sta bene, questa maglietta.

− No? Non sei tu che fai sognare donne e uomini con le tue grandi doti sessuali? - scherzo.

− Verissimo, ma è ancora no. -

Non c'è delusione nel suo tono.

E in qualche arcano modo, nel misto di voglia di essere guardato e panico di tornare al mio stato di solitudine di qualche giorno fa, lo recepisco persino io.

− Perché? - chiedo, ma senza pretese.

Mani sul viso, mi bacia.

Ancora una volta.

− Perché c'è qualcosa in te che mi fa venir voglia di non sprecare una cosa del genere in un posto così. Ho impressione che ti meriti molto di più, Tadashi. - sussurra alla fine.

Di nuovo, labbra contro le labbra.

− E poi non sei abbastanza lucido per decidere su quello. Prima decidi per bene, poi vediamo che farci. Non voglio diventare un incubo, per te. -

Non è deluso.

Mi guarda.

Mi adora.

E di questa adorazione, in questo istante, mi nutro.

Guardami, adorami.

Che domani avrò cambiato idea, magari, che so tu non mi giudicherai perché la tua vita è fluida come il mio animo.

− Un altro bacio, però? - chiedo.

Alza un sopracciglio.

− È il piercing, di' la verità. Sono un mago. -

Ridacchio.

− Sei un cretino. -

Sorride un'altra volta.

Naso contro il naso, labbra sulle labbra.

Respiro, respira anche lui.

E l'attimo dopo stiamo tornando al divanetto, senza pretese. Senza promesse, senza niente.

Perché, certe volte, le cose, devi farle per sfizio.

Perché, certe volte, alla fine, devi proprio fottertene.

Devi farti prendere dalle emozioni e cavalcare l'onda di mille vampate forti e che ti mangiano, con quelle persone che non ti giudicano per come lo fai.

E nel momento in cui lo fai, poi, ti senti meglio.

Tsukki, non Tsukki, so che le cose non stanno come le ho sentite prima.

Che anche il flusso incosciente dei suoi pensieri, con più lucidità, avrà un altro sapore.

So che su di questo avrò da rimuginare.

Ma voglio divertirmi.

E per divertirmi, dei problemi, in questo caso, devo davvero, davvero dimenticarmi.

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