𝚗𝚘 𝚘𝚗𝚎 𝚝𝚊𝚞𝚐𝚑𝚝 𝚝𝚑𝚎𝚖 𝚗𝚘𝚝 𝚝𝚘 𝚐𝚛𝚊𝚋
➥✱ alert :: questa è la prima side story. riguarda Tsukishima dopo il finale "ufficiale"
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Se mi avessero detto "Tsukishima Kei, tu sarai single per la fine del semestre", credo che avrei riso rimettendomi a posto gli occhiali come faccio di solito.
Se mi avessero detto "Tsukishima Kei, tu sarai a Kyoto a studiare solo come un cane", credo che avrei alzato le spalle e buttato fuori qualche battuta al vetriolo.
Se mi avessero detto "Tsukishima Kei, il ragazzo con cui eri convinto di passare il resto della tua vita qualsiasi cosa sarebbe successa, dopo che tu, coglione idiota, l'avrai lasciato, ecco proprio lui preferirà Terushima Yuuji a te", credo che non solo avrei fatto entrambe le cose che ho citato prima, ma le avrei fatte di gusto, certo al cento per cento della mia condizione.
Ecco, ora invece da ridere non c'è proprio niente.
Esco da lezione infilandomi la felpa che mi sono portato, mi infilo fra i tavoli vuoti, mi siedo nella prima panchina libera che trovo.
Non so nemmeno se sono più in grado, di ridere.
Ho fatto una cazzata.
Siamo tutti d'accordo che ho fatto una cazzata?
In realtà, più di una, ma se volessimo rappresentare con un elegante diagramma le mie cazzate, quella centrale si dipartirebbe in tutte le altre, trovando pace in un'altra, esattamente delle stesse dimensioni, cazzata finale.
Un po' contorto, forse, come ragionamento.
Ma studio Storia Antica, da me cos'altro ci si potrebbe aspettare?
Quando mi ha scritto, una settimana dopo l'enorme litigio, per "chiarire", sapevo che era finita. Lo sapevo, lo sapevo e basta.
Non ci speravo nemmeno più.
Ho... fatto l'unica cosa che mi ero ripromesso, spergiurato, convinto non avrei mai fatto con Yamaguchi nella mia intera vita.
E sapevo che di lì, non sarei andato tanto più lontano.
Ho mantenuto un po' di dignità, però, quando ci siamo visti in un bar carino del centro di Tokyo, ho resistito all'impellente bisogno di pregarlo di rimettersi con me e non ho nemmeno pianto quando mi ha presentato il suo nuovo ragazzo.
Forse avrei dovuto, ma forse no, che tanto le cose erano già divagate fin troppo.
Tiro fuori un toast perfettamente avvolto nella pellicola trasparente, lo appoggio sulle mie ginocchia.
Quel figlio di puttana di Terushima, che dico con grande vergogna ultimamente stalkero su ogni social esistente, dice che la pellicola fa male alla Terra, che lui è contro lo spreco di plastica, che...
E come cazzo li chiudo i toast?
Con lo sputo?
Con l'aria?
Idiota.
So che è colpa mia, lo so perfettamente, ma dare la colpa alla nuova fiamma del mio ex posso garantire che dà un non so che di soddisfacente alla mia condizione di devastazione psicologica.
Se devo essere onesto, sapevo che sarebbe finita male il giorno in cui l'ho lasciato.
Gli avevo permesso di assorbire da me qualsiasi dettaglio, prima, di campare attraverso la sicurezza che gli davo. Che cosa sarebbe potuto accadere, di diverso, una volta reciso quel legame così dipendente?
So che ho fatto la cosa giusta, lo so, sono anche stato ringraziato più volte, di questo.
Ma cosa ci faccio dei "grazie" se sono single e solo a mangiare un toast fra una lezione e l'altra?
Un emerito cazzo, se ve lo steste chiedendo.
Proprio un bel cazzo di niente.
Mio malgrado, o forse a mio favore, ho ricominciato la terapia. È stato difficile trovare qualcuno che usasse lo stesso metodo della mia psicologa di Miyagi, ma un po' di ragionamenti non particolarmente allegri coi miei e qualche telefonata, e posso dire di trovarmi bene.
Ho un problema a relazionarmi, questo è palese da anni.
Ma da avere un problema a reagire alla rabbia sputando veleno su qualcuno che ami, il passo è grande.
Non sono del tutto certo che sia stata quella, la causa della scelta di Yams, ma a prescindere è un tratto che va in qualche modo esaminato.
La psicologa nuova dice che le sembro un muro di mattoni, come persona, e che pensa sia un meccanismo automatico per non far vedere quanto in realtà le cose mi feriscano.
Ma su questo, posso soltanto speculare.
Che fosse Terushima Yuuji, il fantomatico spasimante, io non avevo davvero nessuna idea.
Zero.
E la cosa mi ha ferito.
Mi ha ferito perché Terushima non m'assomiglia per niente, zero, in nulla, e il pensiero che Tadashi abbia scelto qualcuno di diametralmente opposto a me per passare la vita – e spero che vita non sia e che si mollino perché sono un rancoroso – mi instilla tanti dubbi.
La cosa a cui ho fatto più caso, ultimamente, per cercare di alleggerire il fardello, è se di Tadashi mi piacessero gli atteggiamenti "nuovi".
Certo, lui mi piace e mi è sempre piaciuto sotto molti punti di vista, ma a me vanno davvero a genio le persone che vogliono mettersi in mostra? Quelle che sembrano voler essere costantemente al centro dell'attenzione, che fanno cose "folli" per il gusto di farle, che oscillano e cambiano ogni venti secondi?
A me piacciono le persone sicure.
Forse Tadashi nella sua nuova e fiammeggiante divisa, di sicuro, aveva ben poco.
Mordo il bordo molliccio del pane, mastico, mando giù.
Non avrei mai dovuto lasciarlo, cazzo.
Se non l'avessi fatto ora saremmo qui, uno accanto all'altro, a dividere questo toast prima di tornare a studiare, io non sarei solo, lui non sarebbe seduto a gambe incrociate coperto da mezzo lenzuolo sul feed di uno che è un miracolo non abbia già contratto l'HIV.
Sarebbe stato felice? Non lo so.
Ma forse...
Cazzo, io lo sarei stato.
Conosco poca gente, qui a Kyoto, e con alcuni vado moderatamente d'accordo.
Ma da quando Tadashi mi ha lasciato non mi va di uscire, non mi va di bere, non mi va di spendere il mio tempo ad elaborare risposte a conversazioni di cortesia in cui sono trascinato dentro.
Prendo un altro morso, appoggio il polso sul ginocchio, indietreggio con la schiena.
Miseria, cazzo.
Mi sono sepolto da solo.
Ho fatto un casino, completamente da solo.
Ora ne pago solo io le conseguenze.
Se penso al caffè che abbiamo preso insieme, mi viene l'orticaria.
Davvero.
Yams era così sicuro di sé che ne ho quasi avuto paura, e il novanta per cento del tempo, prima che Terushima arrivasse e mi dicesse chi era per lui, l'abbiamo passato parlando e basta.
"Non credo di avere nulla da darti, Tsukki, credo che ci faremmo solo del male. Ti ho amato tanto e un po' ti amerò sempre, ma se ti trascinassi in tutto questo ti farei solo del male", ha detto.
Del male, eh?
Perché questo è tanto meglio, no?
Cosa c'è di meglio?
Vedere le storie dove balli in mezzo alle persone, è meglio? Quelle dove dormi nudo in un letto che non è il mio? Quelle con il caffè in mano e i succhiotti nascosti male su collo?
Dovrei disinstallare Instagram.
E cancellare mezzo cellulare di foto e messaggi.
Non fanno altro che affossarmi.
Prendo un altro morso, un po' arrabbiato e un po' infastidito dalla situazione.
Se non ci fossero gli esami sarei completamente devastato dalla situazione, ma credo che il peso delle responsabilità in questo mi aiuti almeno un po'.
Non ci penso, per diverso tempo nella giornata, al fatto di essere solo.
Mi seppellisco nei libri e non ci penso.
"Ciao, Tsukishima, mi sa che noi due ci conosciamo già. Ti ricordi di me? Sono Terushima, andavo al Johzenji".
Ripeto, l'impellente impulso di iniziare a far sentire una merda pure lui c'è stato.
Ma non sarebbe finita bene.
Yams è dolce, tenero, pur cattive, le tue parole le ascolta.
Terushima mi sapeva di uno che si sarebbe alzato e m'avrebbe dato una testata in mezzo al locale prima di trascinare fuori il mio ex ragazzo.
Odio quel genere di persona.
Quelle incorruttibili.
Quelle idealiste e con una morale di ferro.
Solo gli stolti sono certi delle proprie idee tutti i giorni a tutte le ore, gli esseri umani veri sono molto meno rigidi di così, più morbidi, malleabili.
Forse mi infastidisce il fatto che sia totalmente immune a qualsiasi arma abbia io per ferirlo, ma anche ne avessi, usarle non cambierebbe la situazione, la peggiorerebbe e basta.
Tadashi non mi vuole.
Tadashi mi dice che mi ama, fa sesso con me, si lascia toccare e trasportare in giro, ma poi mi lascia per un altro.
Lecitissimo, lo so, ma davvero spietato.
"Volevo ringraziarti per esserti preso cura di Tadashi, Tsukishima, te ne sono davvero grato".
E ci credo che mi sei grato, faccia di culo, perché dopo anni di duro lavoro me l'hai soffiato dalle mani già bello che pronto alla vita adulta.
No, questo no.
Non devo pensarlo.
Yams le ha fatte da solo, le cose, e il merito non è mio.
Ma sono incazzato e nessuno sente i miei pensieri, per cui sì, siamo cattivi, siamo spietati.
Prendo un terzo morso, ancora più aggressivo.
Terushima Yuuji, bastardo promiscuo schifoso essere. Ho perso contro di te, come è stato possibile? Tutto quello che hai fatto è stato circuire il piccolo Tadashi con le meraviglie di una vita che non ha mai avuto, non è vero?
Gli hai detto che si sarebbe divertito di più e ci ha creduto.
Cosa succederà quando scoprirà che quella vita gli fa schifo?
Sono all'alba del quarto morso quando mi accorgo che qualcuno si è seduto vicino a me sulla panchina e che quel qualcuno, esattamente quella persona, si è sporta di una ventina di centimetri e ha morso il mio toast dalla mia mano.
Ha morso il mio toast.
Questo coglione è appena arrivato a mordere il mio toast.
Sento la furia rendere le mie ossa incandescenti.
Poi, poi lo vedo.
Ci sono poche persone che da Miyagi sono venute a studiare a Tokyo e una, una che ho conosciuto al primo anno ma che ho tentato di dimenticare per tutta una serie infinita di motivi, ora è qui seduta col volto impunito.
Odio le persone stupide.
Per cui non sono felice quando mi ritrovo davanti il muso di Koganekawa.
Il muso di Koganekawa che mastica il mio toast.
− Che cazzo fai? – è l'elegantissimo modo in cui esordisco, senza alzare la voce ma spiaccicandolo in basso con uno sguardo.
"In basso" si fa per dire, siamo alti uguali.
− Ho dimenticato la merenda. –
− E allora? –
Alza le spalle.
− Se mordo il panino di qualcuno non posso ridarlo indietro. Non puoi chiedermi di restituirlo. Il mio è stato un furto ben calcolato per sfamarmi. –
Che cosa?
− Ti sembra normale andare in giro a mordere i panini altrui? –
Sorride come un cretino, manda giù.
− Ora non ho più fame. –
Rimango letteralmente incantato a guardarlo. Com'è possibile? Come?
Cotanta stupidità non può racchiudersi in una persona sola, vero?
È disumano.
Non può essere possibile.
Quando si allunga per tentare di rubare un altro morso indietreggio con la mano velocemente.
− Sei recidivo? –
Scuote la testa.
− Ho fame. –
Resisto all'impulso di colpirlo fortissimo.
− Alzati e vai alla macchinetta. Comprati qualcosa. E sparisci dalla mia vista. –
Scuote la testa di nuovo.
− Ho dimenticato il portafogli a casa. –
Ok, a questa quasi cedo e rido.
Ma che cosa...
Stacco il pezzo che ha morso con le dita, più per sembrare schizzinoso che per uno schifo reale, glielo passo con disprezzo, quasi.
− Se lo butto o lo do a te è uguale, tanto. – commento.
Dovrebbe inacidirsi, o guardarmi male, ma niente.
Koganekawa prende il pezzo di panino, lo mette in bocca e lo mangia senza dare il minimo cenno di protesta.
Io...
− Sei qui da due settimane, tutti i buchi che hai. Passi le giornate a mangiare da solo e guardar male le persone che passano. Qual è il tuo problema? –
A questa, mi cade la mascella.
Cosa?
− Come fai tu a sapere che... −
− Facciamo lezione con lo stesso orario, ma lezioni diverse. Sei sempre qui. Che cos'hai? Al liceo eri sempre acido, ma sembravi meno triste. –
Non so... non so obiettivamente cosa rispondere.
− Non conosco nessuno, qui, non lo dico a nessuno. Sono solo curioso. – aggiunge.
Rimango fermo.
Non posso...
E invece sì che posso.
È Koganekawa, cazzo, è talmente scemo che nemmeno capirà quel che ho detto.
− Il mio ragazzo mi ha mollato per un altro. – borbotto.
Il suo viso rimane fermo, impassibile.
Poi si gira verso di me.
E... sorride.
− Anche a me. – mi risponde.
Ah.
Aveva un ragazzo?
Qualcuno è stato sua sponte con Koganekawa?
− Quando tempo fa? – chiedo, più per cortesia, di riflesso, che altro.
Guarda dritto di fronte a sé, sorride sconsolato.
− Due anni. –
A questo punto, nascondo una risata con la mano.
− Due anni? E stai ancora qui a pensarci? –
Orientativamente so di non poter parlare. Fra due anni io dove credo di essere? Magari laureato, magari di successo nella mia carriera, ma con qualcuno che non sia Yams? No, non credo.
Nonostante sappia di potermi rispondere allo stesso esatto modo, Koganekawa alza semplicemente le spalle.
− Lo so, è patetico. Lo so bene. Ma mi ero davvero innamorato. –
Quando allunga platealmente il collo per mangiare un altro pezzo del mio toast, non so nemmeno io perché, non lo fermo.
− Chi era? –
− Goshiki. Mi ha lasciato per Reon alla fine del primo anno. –
Goshiki? Capelli a scodella e voce irritante? Quel Goshiki?
Prendo un morso.
L'ha morso lui prima, lo so, ma come ho detto non è che sia veramente schizzinoso, è più una cosa che faccio per restare nel personaggio.
− Ha detto che io e lui non eravamo tagliati per stare insieme. Che gli serviva sicurezza e io ero troppo scemo per dargliene. Tu? – confessa.
Mando giù.
− Il contrario. Yamaguchi cercava qualcosa di divertente, io ero troppo sicuro. –
Koganekawa si gira verso di me, annuisce lentamente.
− Capisco. –
− Già. –
Cade il silenzio.
È un silenzio strano.
Koganekawa, è strano.
Lo guardo un secondo, che prima non l'avevo neppure fatto, preso com'ero dal pensiero che stesse impunemente rubando il mio unico pasto.
Ha sempre il ciuffo davanti non tinto di biondo, ma non è pieno di gel e in aria come lo ricordavo al liceo. È indietro, mescolato fra i capelli.
Ha il volto pacifico, questo ragazzo così idiota, ma i suoi occhi mi sembrano distanti.
− Cosa ci fai, qui? – chiedo, per cercare di riempire questa voragine muta che si è aperta attorno a noi.
− Archeologia. Kyoto è una bella città e Tokyo non mi piaceva. –
Nascondo un sorrisetto.
− Tokyo è un buco di matti. –
− Piena di psicopatici. – conviene.
Altro silenzio.
− Ero così scemo al primo anno? Quando abbiamo fatto il ritiro, intendo, non so se ti ricordi. Alla Shiratorizawa, quando... −
− Eri un coglione. – lo interrompo.
Si volta di scatto verso di me.
Ma non riesco, nonostante la cattiveria con cui mi sono posto, a vedere il minimo segno che sia stato davvero colpito dalle mie parole.
− Se divento più intelligente secondo te si rimette con me? –
La risposta mi si incrosta in gola.
È una risposta difficile, da dare, da dire ad alta voce.
Perché è la risposta razionale ad una domanda che irrazionalmente mi pongo anche io.
Prendo un grande respiro.
− Ha scelto. Se ha scelto, ha scelto. – dico, mordendomi la lingua sul finale.
No, cazzo, no.
Così condanno pure me stesso.
− Sono un illuso, se ci spero? –
− Al cento per cento. –
Ogni parola, ogni soluzione, mi sembra sempre più mia e sempre meno sua.
Inizio a sentirmi stretto.
No, non ci devo pensare.
Esami, questo devo fare. Non pensare che ho perso per sempre l'unica persona che abbia mai onestamente amato nella mia vita perché ha preferito qualcun altro a me.
No, no.
− Vorrei solo essere soddisfatto di qualcosa. – mormora poi.
Oh, Koganekawa, sei un cretino. Ma sei un cretino che pensa qualcosa che io non ho il coraggio di tirare fuori.
− Saresti soddisfatto se lasciasse Reon e si rimettesse con te? – ribatto.
− Non credo. Lui e Reon stanno bene, insieme, li vedo sempre su Instagram. –
Pazzo idiota, ma stai parlando di te stesso o di me?
Ammutolisco una volta ancora, prendo l'ultimo morso e lascio il pezzettino di crosta a Koganekawa che ringrazia e manda giù.
Che situazione di merda, cazzo.
Sono solo, non è vero? Se sto qui a parlare di essere single con Koganekawa, fra tutti, con il cretino che faceva male muro al Dateko tre anni fa, sono messo male.
Malissimo.
Guardo di sbieco l'orologio.
Il mio tempo sta per finire.
− Tu come stai? – mi chiede, poi, col tono totalmente tranquillo, come non avesse fatto la domanda più grande che mi frulla in testa da mesi, ormai.
Deglutisco.
− Credo di non essermene reso ancora conto. – rispondo, inaspettatamente onesto.
Annuisce, vola con una mano verso la mia spalla.
"Non toccarmi, pezzente", vorrei dirgli, ma non lo faccio.
− Stavate insieme da tanto? –
− Quattro anni e qualche mese. –
Quattro anni e qualche mese. Quattro... quattro anni.
Quattro anni.
− È un sacco di tempo. – commenta.
− È un sacco di tempo. – convengo.
Davvero parecchio, a pensarci bene. Davvero tanti momenti, tanti secondi, tanti istanti. Buttati via all'aria, gettati alle ortiche, solo perché qualcuno gli è piaciuto più di quanto gli piacessi io.
Non avrei dovuto lasciarlo, cazzo.
Non avrei dovuto.
− Ti manca? – domando, dopo qualche altro secondo.
Koganekawa indietreggia con le spalle larghe verso la panchina, guarda il cielo.
− Penso mi manchi più l'idea che mi ero fatto che lo stesso Goshiki. Ma sì, mi manca. –
Capisco.
Davvero, capisco.
Di Yams mi manca l'immagine che ho di lui. Il lui di adesso, non so nemmeno se possa definirlo lui, a dirla tutta.
Guardo il cellulare una volta ancora.
− Devo tornare a lezione. – sputo fuori, senza mentire.
Annuisce.
− Anch'io. –
Dalla panchina ci alziamo insieme.
Non ricordavo fosse così alto.
È alto quanto me.
E se superi abbondantemente il metro e novanta in Giappone, la cosa non è così frequente.
− In che aula sei? –
− La sette. –
− Io nella cinque. –
Questa volta è il mio turno di annuire.
Mi giro verso la mia porta di vetro, lui verso la sua.
Non so cosa sia appena stata, questa conversazione, ma nel dubbio farò finta che non sia mai successa, credo.
Tornerò nella mia aula, ascolterò altre lezioni, prenderò altri appunti.
Nasconderò la rabbia studiando fino a tardi, andrò a letto sfinito, imbottiglierò tutta le mie emozioni e mi sveglierò domani per ricominciare tutto.
È la mia vita, no?
La mia vita.
Muovo un paio di passi.
Poi, mi sento prendere dal polso.
Saldamente.
Koganekawa ha il volto serio, serissimo.
− Ti va di venire da me a piangere, dopo? –
Mi cade aperta la bocca.
− A fare che? –
Si gratta la nuca, un po' in imbarazzo, un po' incerto.
− Fa bene. Metto su Adele e piango un paio d'ore, funziona. Mi fa sentire meglio. Vuoi venire anche tu? –
Alzo le sopracciglia.
Adele?
Mette Adele e piange?
Ma che...
− È per chi non riesce a tirare tanto bene fuori le emozioni. – aggiunge.
Per chi...
Cazzo.
Sto davvero per farlo?
Ma quanto in basso sono caduto?
Tsukishima Kei non dice "sì" agli sconosciuti se gli chiedono l'ora, figurarsi accettare una proposta così idiota da un ancora più grande idiota.
Mi giro verso la mia aula di nuovo.
− Dove stai? –
− Dormitorio tre, dietro il corridoio delle donne inizia il mio. Finisco lezione alle quattordici. –
Anche io finisco lezione alle quattordici.
Non sto per farlo, vero?
Mi sveglierò di soprassalto e mi renderò conto che è tutta una messinscena, che sto dormendo con Yams e che sta ancora con me, che sono felice e soddisfatto della mia vita.
No?
No.
− Vengo alle cinque. – sento dire dalla mia stessa voce.
− Ti aspetto. – risponde.
E m'incammino chiedendomi se davvero, io, mi sia ridotto a questo.
Le cinque non ci mettono molto ad arrivare.
Avrei voluto che il tempo scorresse più lento per pensare, rimuginare, ma il corso che seguo oggi è il mio preferito e i minuti volano, quando lo seguo.
Per pranzo torno in camera mia, salgo in cucina, mangio qualcosa velocemente.
C'era un ragazzo che conosco, sopra, e chiacchierare non è stato così traumatico.
Ho sistemato un paio di appunti, ho messo a posto la camera, ho fatto il solito terrificante giro di storie Instagram per mangiarmi il fegato all'ennesimo scatto di Yams che studia con la caption "non sapevo che i pasticcini sapessero scrivere" di quel cretino di Terushima.
E bene o male, le cinque sono arrivate in fretta.
Non so per quale motivo mi sia fatto la doccia, ma l'ho fatta, e ho i capelli ancora umidicci. Non mi sono messo niente di particolare addosso, ho tolto le lenti a contatto e ho inforcato gli occhiali gli occhiali e ora, ora mi sto imbucando nel corridoio delle donne del dormitorio tre.
La struttura è assolutamente uguale a quella del mio dormitorio, tranne che questa struttura è prevalentemente femminile.
Chissà perché l'hanno messo qui.
Saranno andati in ordine alfabetico.
Passo oltre una fila infinita di porte, poco alla volta.
La luce fuori si fa più scura, a quest'ora.
Novembre inizia a raffreddare parecchio.
Il corridoio finisce, c'è una porta sola.
Lo faccio?
Ma cazzo, ma perché no, dopotutto?
Sono solo, non lo sono forse?
Sono solo, sono single, sono stramaledettamente triste e disperato nonostante finga che tutto è a posto, di piangere ho bisogno.
Mi sento solo.
Se condivido un paio d'ore con qualcuno che è nella mia stessa situazione, che male potrà mai farmi?
Se butto fuori qualcosa, se mi lascio andare, che male ci sarà mai?
Yamaguchi mi ha lasciato.
Essere tristi non è un crimine.
Queste parole le dico più a me stesso che a qualcun altro, mentre busso e ingoio una risposta acida nei confronti di me stesso.
− È aperto. – sento.
− Se fossi un malintenzionato? – scherzo, aprendo la porta ed entrando.
Ha la camera esattamente identica alla mia.
Letto, scrivania, bagno, fine.
Ci sono foto di lui al Dateko qua e là, libri, appunti, il pc chiuso sulla sedia.
− Sono alto un metro e novantaquattro, è raro che provino a prendersela con me. – risponde.
È seduto a gambe incrociate sul letto, la schiena sui cuscini.
Sorride con la stessa espressione vuota e idiota ma anche un po' triste in volto. Ha il telefono in mano, mi guarda completamente rilassato.
Mi fermo in silenzio.
Fa cenno di sedermi.
− Vieni, su. Avessi avuto un divano sarebbe stato più comodo, ma questo è quanto. –
Lo faccio?
Lo faccio.
Mi arrampico di fronte a lui.
Normalmente, se qualcuno mi avesse invitato in una camera di dormitorio, avrei sprecato parole in conversazione pacifica e cortese per sembrare più gentile.
Ma questo è talmente paradossale che di sembrare una persona civile, davvero non ho la minima voglia.
Abbiamo tutti e due le gambe troppo lunghe, per questa cosa. Devo incrociarle sotto di me come fa lui, o non riusciremmo a starci nemmeno pregando.
− Non ho ancora capito che cosa sono venuto a fare. – borbotto, poi.
Lo vedo aprire il cellulare, cercare Spotify.
− Piangiamo. Hai mai pianto in vita tua? –
Sbuffo.
− Che domanda è? –
− Che ne so, magari non sei capace. Hai la faccia da uno che non piange mai. –
Io non piango mai, infatti.
Ma questi non sono affari suoi.
Koganekawa preme il dito su una playlist che mi pare di leggere si chiami letteralmente "voglio piangere" e Adele parte da una cassa bluetooth di cui non mi ero reso conto sul pavimento.
− Ora devi fare mente locale. – mi dice.
I suoi occhi, credo per l'abitudine di questa cosa, sono già pieni di lacrime.
− In che senso? –
− Buttare fuori. Qualsiasi cosa ti venga in mente, la dici e la butti fuori. Tanto io non ho idea di chi tu stia parlando e non lo potrei dire a nessuno in ogni caso, quindi fallo senza problemi. –
Buttare fuori?
Io?
Io non credo di aver mai buttato fuori niente in vita mia.
− Inizia tu. – dico.
Non credo di averlo detto come avrei voluto.
Nella mia testa sarebbe dovuto suonare nell'aria come un "inizia tu, questa pagliacciata, che non ho tempo da perdere, io", ma credo sia stato più un "non so come si fa, insegnami".
Cazzo.
Strizza le ciglia umide.
− Mi ha lasciato per uno che va a correre tutte le mattine. Esiste un uomo non noioso che va a correre tutte le mattine? È una cosa da cinquantenni, dai, cazzo. "Sicuro" il mio culo, Tomu, ti sei messo con un vecchio. –
Alzo le sopracciglia.
Sta parlando di Reon?
− Vogliamo parlare delle foto del cibo? Chi fa le foto al cibo al giorno d'oggi? Che cazzo è, una casalinga? –
Inizia a versare qualche lacrima.
− E poi ero io, "scemo", no? Tu eri convinto che per riparare alla crisi economica avresti dovuto stampare soldi, cazzo. Io, "scemo"? –
A questa rido.
− Stampare soldi? –
Annuisce.
− Il coglione voleva stampare i soldi. – conferma.
Rimane in silenzio, le lacrime che non smettono di scendere, credo stia raccogliendo un po' delle cose che ha dentro per versarle fuori.
Apre la bocca per parlare, ma lo precedo.
− Yams mi ha lasciato per uno coi tatuaggi. Coi tatuaggi, cazzo! Che cazzo è, un romanzetto rosa del duemilasedici? Vuole vivere la sua fantasia alla "After"? – dico, prima anche solo di rendermene conto.
Koganekawa ammutolisce.
− Poi i tatuaggi sono anacronistici, porca troia. Avevano un senso negli anni settanta, ora sono solo un altro modo per dire che vuoi essere alternativo quando di alternativo non hai un cazzo. –
Ride. Lo vedo piangere e ridere contemporaneamente.
− Io ne ho due. – borbotta.
− 'Fanculo i tatuaggi. – rispondo.
Ride ancora un po'.
− Giusto, sì, cazzo. 'Fanculo i tatuaggi. –
Mi sento più... leggero.
− Reon è più basso di me. Perché mettersi con uno più basso di me? –
Annuisco.
− Anche Terushima, cazzo. Non ha senso! –
Koganekawa gira appena la testa.
− Ti ha mollato per Terushima? Quel Terushima? –
Ah, cazzo. Non l'avevo ancora detto, mi sa.
− Sì. –
Mi preparo alla sequela di complimenti. Terushima piace a tutti, no? Mi dirà "che figo, quel tipo, ha fatto bene", no? Lo pensano tutti, in fondo.
− Quanto mi sta sul cazzo quel tipo. – dice, invece.
Mi s'infiamma qualcosa nel petto.
− Vero? Avrà letto un libro in vita sua, quel coglione. Ed è pieno di malattie veneree. –
− Madonna, sì. Secondo me non si lava. – risponde.
Mi viene da ridere un'altra volta.
− Reon va a dormire alle nove e si mette le mutande con la scritta "uomo". – commento.
Koganekawa annuisce.
La canzone finisce, sento silenzio per qualche istante.
Poi ne parte un'altra.
Alzo una mano.
Ho il viso... umido, mi sa.
− Mi ha lasciato dicendo che non si fida di me. Ma che cazzo dovevo fare, d'altro? È letteralmente l'unica persona che ho lasciato avvicinare in tutta la mia vita, e ancora non era abbastanza? – mi viene spontaneo dire, e queste parole fanno più male delle precedenti.
Koganekawa mi appoggia una mano sul braccio, come se volesse darmi un po' di supporto morale.
Tiro su con il naso.
− Io ci sono nato, respingente. Non ci posso fare un cazzo. Tadashi lo sapeva, com'ero, e ci è stato lo stesso. Il fatto che mi abbia mollato così mi fa pensare che alla fine non gli andasse bene manco prima, il mio carattere, non credi? –
Annuisce.
− È un bastardo. –
La sensazione che provo nell'immediato, è rabbia. Come si permette?
Ma poi...
No, cazzo, ma ha ragione.
− Giusto, è un bastardo. Quattro anni a fare il timidino con me, lo lascio per fargli un cazzo di favore, per fare la cazzo di cosa giusta, e questo mi molla per davvero. Per uno coi tatuaggi, per di più. È un bastardo. –
Le parole non si fermano.
− Sai quanto cazzo sono stanco? Sai che mi ha detto? "Tsukki, mi dispiace, ma non credo che ora come ora io e te possiamo più stare insieme. Ho quasi paura di te.", come se l'avessi fatto apposta. Io non l'ho fatto apposta, cazzo, non l'ho fatto apposta. Non so che farci! –
Stringe di più la mano sul mio braccio.
− Ci sto lavorando. Ci avrei lavorato su, per lui, cazzo. Ma ha preferito fuggire e lasciarmi come un cretino per uno che avrà a malapena il diploma di licenza media. Mi ha chiesto di aspettare che cambiasse e quando è stato il mio turno non me l'ha permesso. È un bastardo, cazzo. –
Mi muoiono le parole in gola quando mi rendo conto che sto singhiozzando.
Koganekawa di fronte a me ha lo stesso volto pieno di lacrime, annuisce, piange come un disperato allo stesso modo in cui lo sto facendo io.
Sta zitto e ascolta.
− Come ti chiami? – gli chiedo, poi, di punto in bianco.
Totalmente a caso.
Non ho idea di come si chiami, davvero.
Si asciuga la faccia con il polso.
− Kanji. Tu? –
− Kei. –
Non mi chiede il perché della domanda, continua solo a piangere e basta.
− Secondo te finirà, prima o poi? –
Scuote la testa.
− Non so come si faccia. Ci ho provato a farla finire, ma non sono capace. –
Prende aria come non ne avesse più.
Mi prende una mano e se la appoggia in mezzo al petto.
− Mi fa male qui, quando ci penso. A te? –
Annuisco.
− Anche a me. –
Lascia cadere la mia mano, e atterra sul letto.
Silenzio, Adele canta e noi stiamo zitti.
− Goshiki mi piaceva così tanto. Non è giusto, cazzo, non è giusto. Perché mi ha mollato? Io ero un bravo fidanzato. Lo ero davvero! – si lagna dopo un po'.
− Non hai detto che era perché sei... −
− Un coglione, ok, lo so. Ma lo amavo pure io, cazzo. Perché ha dovuto farsela con quello che non lo ama come me? –
Oh, cazzo, ben detto.
Sono d'accordissimo.
− Perché non capisce un cazzo. – rispondo, fermamente convinto.
Alza lo sguardo.
− Hai ragione. Non capisce un cazzo. Nemmeno Yamaguchi capisce un cazzo. Non capiscono davvero un cazzo. –
− Un cazzo. – ripeto.
Altra canzone che cambia, altre lacrime, altre mani che tolgono righe umidicce dalle facce.
− Cosa ti hanno detto di fare i tuoi amici? – chiede, poi.
In realtà, quasi niente.
Cosa avrebbero dovuto dirmi?
Non ho amici che siano solo miei, erano tutti condivisi con Yams.
− Niente. Sono convinto che mi odino pure un po', sai? –
Tira su col naso.
− A me hanno detto di fare le cose che prima non potevo fare. Ma cos'è che non potevo fare prima? Non riesco a capire, cazzo. –
Lo guardo in faccia.
Cos'è che non poteva fare, prima?
Cos'è che nemmeno io potevo fare, prima?
No.
Non quello.
Cavatelo dalla testa.
Non è una buona idea.
È la prima persona amichevole che hai incontrato ed è inspiegabilmente facile aprirsi con lui, non fare stronzate. Non fare casino.
Ma un attimo, io non faccio mai casino.
Io sono Tsukishima Kei, io faccio sempre la cosa razionale.
No?
'Fanculo.
Ci metto letteralmente un secondo a sporgermi.
− Questo non potevi farlo. –
Non ho mai baciato qualcuno che non fosse Tadashi.
Mai.
Non è un bacio lungo, è letteralmente un bacetto sulle labbra che dura un secondo e basta.
Non dovevo farlo.
So che non dovevo farlo.
Koganekawa nemmeno mi piace, credo.
Era più un modo per esorcizzare, immagino.
Per fare qualcosa che l'avrebbe ferito, se fosse stato qua.
− Kei? –
Non sono abituato alla gente che mi chiama per nome.
− Scusa, è stata una stronzata, è che sono triste e non sono abituato a lasciar andare le emozioni e ho pensa... −
Vengo letteralmente scaraventato in avanti.
Ha le braccia lunge, Koganekawa.
Bacia bene.
In modo diverso da Tadashi, meno timido.
Si stacca allibito quanto me.
− Che cazzo stiamo facendo? – mi chiede.
Tiro indietro gli occhiali.
− E lo chiedi a me? –
Mi sento spingere indietro, la schiena che sbatte contro il muro.
Non respingo le sue labbra.
− È un modo per piangere i nostri ex, secondo te? – tento.
Ha il respiro un po' affannato, per le lacrime, credo.
− Più per dimenticarli, mi sembra. –
Oh, giusto.
Giusto, no?
Non lo so, se è giusto.
Mi sento baciare ancora, ancora, e bacio anch'io. Sa di sale e lacrime, Koganekawa, sa di tristezza e disperazione e di ricordi che non volevo formare con nessuno che non fosse Tadashi.
Mi sento togliere gli occhiali incastrati sulla testa, lo vedo appoggiarli sul tappeto.
− Rompo sempre le cose. Non voglio che mi prendi a calci nel culo dopo. – si giustifica.
Ridacchio.
− Sei veramente scemo, lo sai? –
Alza le spalle.
− Tu sei acido, cazzo. Com'è possibile che nessuno ti abbia ancora picchiato? –
− Che ne so. –
Non so bene cosa tiri avanti cosa, so solo che ritorna a fare quel che stava facendo in un attimo.
So che le nostre mani si incastrano assieme sul letto, che i visi si toccano, che le gambe s'intrecciano.
Non so perché.
Non ho idea di cosa io stia facendo.
Mi piace, forse, non averne idea.
Quantomeno mi sento meno... solo.
− Facciamo sesso? – mi chiede, staccandosi.
− No. –
− Ok. –
Labbra sulle labbra una volta ancora.
− Vuoi smettere? – dico, questa volta, io.
− Non lo so. –
− Nemmeno io lo so. –
Ridiamo, e mi sa che stiamo ancora piangendo tutti e due, anzi, ne sono piuttosto certo.
Non vorremmo essere noi due, ma con persone diverse.
Ma ora come ora, questo c'è.
E questo... basta.
− Ti manca Goshiki? –
− E a te manca Yamaguchi? –
Che domanda.
Che... domanda.
Certo che mi manca.
Mi concentro sull'immagine del visino lentigginoso, la vedo nella mia testa.
Poi mi avvicino a Koganekawa.
Sfuma ad ogni centimetro.
Sfuma sui bordi.
− Hai mai sentito dire "chiodo scaccia chiodo"? – rispondo.
− Mh-mh. –
Sfuma sempre di più.
Yams... sfuma.
Ci sarà, quando mi staccherò, lo so.
Ma brucia... di meno.
− Scacci il chiodo, Kanji. – dico.
Alza un angolo della bocca.
− Anche tu lo scacci, Kei. –
L'ennesima canzone finisce, ma non ne parte un'altra.
Cosa sto facendo?
Sto cercando di andare avanti.
Prendo il telefono dalla tasca.
− Che fai? –
− Mi faccio un favore. Prendilo anche tu. –
Obbedisce, indietreggia e prende il suo.
Tengo premuto il dito sull'app di Instagram.
− Cancellala. –
Lo vedo deglutire la saliva.
− Che? –
− Cancella l'app. Cancellala. –
− Ma... −
Attacco una mano al colletto della maglietta, lo tiro verso di me, lo bacio per un attimo.
− Non funziona niente. Nessun modo, niente, io non riesco a non pensarci costantemente. E allora sai una cosa? Perché non scappare? –
Alza un sopracciglio.
− In che senso? –
− Non ci torna, da me, non ci tornerà mai. E allora io farò finta che non esista. –
Fa male, dirlo.
Fa male.
Ma è l'unica cosa.
L'unica che posso fare.
− Tu dici che... potrebbe aiutare? –
− Dico che passare le giornate a guardarlo felice con un altro mi fa solo male. –
Annuisce.
− Hai ragione. –
Mi cadono altre lacrime, quando l'app inizia a traballare.
− L'hai preparata la cena? O contavi di rubarla a qualcuno? – mormoro, mentre la schermata si annerisce e la fatidica domanda appare.
Il mio dito si avvicina alla scritta "elimina" che appare in rosso.
− Apro il frigo comune e mangio la prima cosa che trovo. –
Ridacchio.
Premo sullo schermo.
− Paga la spesa e ti cucino qualcosa. –
Mi imita.
− Andata. −
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