School
Le giornate erano tutte uguali. Si svegliava, faceva colazione, si vestiva, usciva. Faceva un giro, fumava qualche sigaretta, ne comprava un'altro pacchetto, tornava a casa. Si chiudeva in camera, cenava, andava a dormire, si svegliava, e ricominciava la solfa. Ogni tanto al suo itinerario venivano apportate delle modifiche, quali Jane che decideva di darle dei soldi per comprarsi qualcosa, o si univa alle sue passeggiate.
Con lei non parlava mai più del necessario. Buongiorno, buonasera, sono allergica alle fragole, cose così.
Il giorno prima erano andate a comprarle i libri per la scuola, erano costati un occhio della testa, ma "la scuola era importante".
Povera Jane, ci stava davvero provando. Non era colpa sua, ma Katherine non riteneva necessario l'instaurarsi di un qualsiasi rapporto umano, in generale.
Trovava quel mondo di apparenze estremamente falso, perché affannarsi tanto per piacere a gente che alla fine si sarebbe dimostrata finta quando le cose che criticava? Non era affatto necessario.
Pensava a queste cose, mentre si preparava per il suo inevitabile rientro in un luogo simbolo di conformismo e falsità, in cui tutti si scapicollavano per instaurare i rapporti umani che lei tanto disprezzava: il liceo. Vita di merda.
Se c'era qualcosa che non le andava, era di tornare a scuola... Forse, la cosa meno insopportabile in quell'istituto era proprio lo studio, che tanto veniva criticato.
Erano le sette e mezza di una mattina piovosa, Katherine si sistemò la giacca di pelle, i jeans, e prese lo zaino nero, che pesava già troppo, per i suoi gusti. Si mise le sue solite Etnies, ed uscì dalla camera, di malavoglia.
Raggiunse Jane in cucina. Era appollaiata su uno degli sgabelli, appoggiata all'isola, che guardava nel vuoto e beveva da una delle sue enormi tazze di caffèlatte. Ogni mattina, provava a rifilarne una a Katherine, ma lei preferiva di gran lunga il caffè nero, lungo.
«Sono pronta» disse, facendo così saltare dalla sedia Jane.
«Oddio, Katherine, non ti avevo vista...» si portò una mano sul cuore, per lo spavento «... ti ho preparato il caffé.»
La ragazza si avvicinò al bancone, già pronta a rifiutare il contenuto della tazza in quanto caffèlatte, ma quando guardò nel coccio blu rimase di stucco. Nero. Un liquido nero si trovava nella tazza, e Katherine capì che Jane lo aveva fatto per lei.
Si sedette su un'altro sgabello, accanto a lei, e cominciò a bere il caffè, chiudendo gli occhi per il sapore forte e lieto.
«Allora, oggi é il primo giorno, eh?» disse Jane. Dio, no... Non provare a fare conversazione.
«Mmh...» fece lei.
«Come ti senti?»
Oh, non lo vuoi sapere davvero.
«Come se mi steste mandando in un centro riabilitazionale. O un manicomio» disse semplicemente, guardandola negli occhi e bevendo il suo caffé. Probabilmente, se una qualsiasi persona avesse ascoltato solo le sue parole senza soffermarsi troppo sul suo tono, avrebbe anche potuto trovare quelle frasi leggere. Ma non c'era cieco che avrebbe potuto ignorare la freddezza nei suoi occhi.
Jane distolse lo sguardo e fece una piccola risatina, che suonava un po' isterica.
«Oh, be'... wow» commentò, inarcando velocemente le sopracciglia.
«Ascolta, mmh? Io non andrò da qualsiasi strizza cervelli o "consulente scolastico", okay? Quindi non ci provate nemmeno» disse, astiosa, ma con un tono di voce annoiato. Era come se stesse dettando delle regole.
La voce di Jane si fece stridula.
«Cosa? No... Io... Nessuno ha detto che avresti dovuto e poi...»
Katherine fece spallucce.
«Oh, lo so» disse sarcastica «Volevo solo chiarirlo.»
La donna abbassò di nuovo gli occhi. Li aveva visti così poco, che non era nemmeno sicura che fossero verdi come quelli di Diana, pensò oziosamente Katherine, nemmeno minimamente toccata dalla conversazione che, invece, sembrava mettere a disagio Jane. Sei tu, a metterla a disagio. Sorrise tra sé e sé.
«Bene» si alzò e riprese lo zaino, che aveva fatto cadere a terra. «Prima inizia prima finisce» e così dicendo, si era congedata.
...
La macchina di Jane era un catorcio. Una vecchia panda grigia, che faceva rumori strani ogni due per tre. Il tragitto verso la scuola era stato corto ed immerso nel silenzio, con solo qualche informazione sulle strade da parte di Jane.
Arrivate a destinazione, l'aveva salutata con un "in bocca al lupo" senza risposta e un "ti passo a prendere all'uscita".
L'entrata della scuola cadeva a pezzi, come tutto a quanto pareva, in quel quartiere.
Aspettò che la macchina di Jane fosse lontana, per accendersi una sigaretta.
Non si curò molto della campanella che suonava, facendo entrare la massa di adolescenti nella scuola. Rimase a fumare, osservando l'entrata e cercando di trovare almeno un valido motivo per varcarla. Non ce ne erano, ma quando un nome si accese nella sua mente, seppe che sarebbe entrata. Non prima di aver finito la sigaretta, comunque.
Si sentì addosso un paio di occhi, ma non si girò, anche una volta individuatone il proprietario. All'angolo del cancello, infatti, c'era un gruppo di tre ragazzi e una ragazza, due dei quali entrarono poco prima di lei.
Finì la sigaretta, e quasi lo rimpianse. Cominciò a camminare con una mano nella tasca e l'altra sulla bretella dello zaino, passando accanto ai due ragazzi che non erano entrati, e si avvicinò a quella che sarebbe stata uno strazio di giornata.
...
Il direttore della scuola, Alastor King, era un uomo alto, stempiato, coi capelli bianchi ma un'aria piuttosto giovanile. Capì subito che tipo di ragazza fosse Katherine, a quanto pareva, perché non si perse in chiacchiere inutili e la scortò subito in classe.
Questa era formata da una moltitudine di ragazze e solo qualche ragazzo. Perfetto, pensò, iene ovunque.
Quando entrò nell'aula, molte persone si zittirono, ma il brusio generale continuò. Seduto alla cattedra, c'era un professore sulla quarantina, con i capelli scuri e una barba corta. Aveva due dita alle tempie, e sorseggiava un caffè ad occhi chiusi.
«Buongiorno, Signor Preside» disse, senza alzare subito le palpebre. Quando lo fece, rivelò degli occhi azzurri che si soffermarono sulla ragazza, con aria consapevole.
«Buongiorno» rispose il Preside.
«Questa é...» cominciò, riferendosi a Katherine.
«Katherine Ryan, mi hanno avvertito» lo precedette lui.
«Bene» disse lui «Signorina Ryan, questo é il professor Johnson, sarà il suo docente di filosofia. Buona lezione, ragazzi» con questo, il direttore si congedò.
Lei restò lì, in piedi, mentre il brusio nella classe si attenuava sempre di più, man mano che gli studenti le davano la loro attenzione. Cosa avranno da guardare?
Il professor Johnson si alzò e prese parola.
«Ragazzi, questa é Katherine Ryan, é nuova. Resterà con noi a partire da oggi, quindi mi aspetto abbiate un comportamento decente nei suoi confronti» disse, e dai banchi si levò qualche risatina e mormorio.
Si andò a sedere senza dire una parola, al terzo banco. Poco prima di sedersi, notò il biondino che aveva visto al cancello seduto a qualche banco dal suo. Gli gettò un'occhiata indifferente e si sedette comodamente sulla sedia che si era scelta.
L'ora passò in fretta, mentre Katherine continuava a sentirsi qualche occhiata addosso. Il mormorio non la lasciava mai.
Quando la campanella suonò e il professore la fermò per chiederle a che punto fosse con il programma di filosofia, si sentì ancora degli occhi addosso.
Sì, mi divertirò molto, qui, pensò. La scuola non le era mancata, questo era certo.
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