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New life

La luce dei lampioni era giallognola, ed illuminava a stento la via sgangherata in cui si trovava.
Guardava fuori dal vetro spesso e freddo, osservando le poche persone che si trovavano nella via deserta. Era appena atterrata, e faceva freddo. Si portò una mano alla bocca, pizzicandosi il labbro inferiore con le unghie, era un suo tic.
Pensava a come era arrivata fino a lì, pensava a ciò che l'aspettava e a ciò che lei si aspettava. Ma il punto era quello: lei non si aspettava nulla, da nessuno.
Non aveva chiesto una nuova vita. Non ne aveva nemmeno chiesta una, tanto per cominciare, ma adesso, si ritrovava su quel veicolo, all'una di notte, in procinto di approdare sulla spiaggia dove la tempesta che era la sua vita l'aveva portata: Sydney.

Non era mai stata in quella città, nonostante ne avesse sentito parlare. L'Australia non era un paese che l'attraeva ma, d'altronde, nulla lo faceva... Era una delle conseguenze dell'essere lei.

Scese dal taxi, mettendo le suole delle sue Etnies nere sull'asfalto. Una folata di vento le scompigliò i capelli scuri, facendoglieli andare in faccia. Non li spostò, semplicemente guardò il palazzetto davanti il quale si trovava.
Era vecchio, e sembrava voler cadere da un momento all'altro. Le imposte della maggior parte delle finestre erano chiuse, rotte, con la verniciatura che cadeva a pezzi, mentre la porta d'ingresso era piccola e nera. All'ultimo piano, una finestra era illuminata da una luce accesa, calda e tiepida.
Aspettò che il tassista prendesse le sue valigie. Esse consistevano in un trolley ed un borsone, entrambi neri. Essi contenevano i suoi pochi averi e, se nel borsone c'erano i suoi vestiti, la valigia era piena di oggetti vari.
L'autista le arrivò accanto, e Katherine riuscì a sentire la puzza di sudore e sigaro che proveniva dall'uomo in carne, che trascinava il trolley e il borsone.

Senza una parola, Katherine allungò una banconota al tassista, prendendo le valige.

«Grazie.» disse velocemente, per poi allontanarsi dal veicolo.

L'uomo borbottò un:
«Figurati dolcezza»
Poi risalì sul taxi e sgommò via, in uno stridore di freni.

Katherine posò il borsone a terra, e si frugò nella tasca del giubbotto di pelle nera.
Tirò fuori il foglietto di carta giallastra, notevolmente rovinato, su cui, scritto con una penna nera quasi scarica, c'era un indirizzo. Era lì che avrebbe vissuto.

Si avvicinò al portone scuro, e strizzò lievemente gli occhi per leggere i cognomi sul citofono. Erano tutti pressoché illeggibili, ma riuscì a trovare il nome che cercava: Jones.
Premette il polpastrello sul bottone consumato del citofono, ma non riuscì a sentire alcun suono, o risposta. Provò ancora due volte, ma nulla.
Sbuffò e tirò fuori il pacchetto di sigarette, per poi accendersene una, seduta sui gradini dell'entrata.
Tra le sue mani si trovava quasi un mozzicone, quando sentì qualcuno chiamarla.
Non riuscì a capire la provenienza della voce in un primo momento, ma poi alzò lo sguardo.

Alla finestra illuminata, c'era una donna affacciata sul davanzale. Non riusciva a vederne bene i lineamenti, in quanto fosse controluce.

«Ehi, tu.» disse la donna.
Lei si fece vedere.

«Katherine? Sei tu?»
La ragazza annuì, poi, forse rendendosi conto che poteva non aver capito, disse:

«Sono io.»

Non ne era sicura, ma credette di aver visto la donna sorridere.

«Sali.» e, detto questo, sparì.

Non passò molto, che Katherine sentì il rumore del portone che si apriva. Prese le sue cose, buttò la sigaretta a terra, ed entrò. Il dentro del palazzo era leggermente meglio dell'esterno. La carta da parati era marrone, staccata in alcuni punti... Inutile dire che non c'era l'ascensore.
Da fuori, aveva visto che la donna abitava al quarto piano, l'ultimo.
Otto rampe di scale dopo, in cui non c'era illuminazione, si trovò una porta socchiusa da cui proveniva un fascio di luce, ostacolato da una figura piccola che teneva la porta com'era.

«Entra.» disse, la voce gentile.

Una volta dentro, l'abbracciò. La ragazza non ricambiò, così passò qualche secondo che la donna si spostò.
Quando entrò nel suo campo visivo, Katherine si sentì attanagliare lo stomaco. Una morsa la trafisse, e lei cercò di respingere il dolore come meglio poté: quella donna era identica a Diana.
Quando le era arrivata la lettera, o meglio le lettere, era stata avvertita, ma non era pronta psicologicamente.

«Ciao.» sorrise la donna.

La guardò meglio, e notò delle differenze che non aveva visto prima. Era più minuta di Diana, aveva i capelli più corti e più ricci. Vicino al suo labbro non c'era il neo che aveva sua madre... Era stato solo lo shock del momento, eppure il dolore cercava ancora di trascinarla in luoghi che lei non voleva esplorare: li conosceva bene.
Non le sorrise, non ce la fece.

Lei, tuttavia, sembrava non voler demordere.

«Sono Jane.» il sorriso sembrava plastificato sul suo volto.

«Sì... Lo so.» disse lei.

«Katherine... Sei uguale a tua madre.» la voce gentile. Senti chi parla...

«Già... Anche tu.»

«Mi dispiace moltissimo per...»

«No.» la interruppe Katherine «Ascolta.»

Lei giunse le mani, sospirò e annuì leggermente. Sembrava a disagio.

«Se devo vivere qui, non parlare di lei.» asserì. Jane la guardò, sbigottita. Sicuramente non si aspettava una richiesta del genere.

«Oh... Io... Okay.» abbassò lo sguardo. Sembrava mortificata.

«Bene. Vuoi vedere la casa?» propose, di nuovo sorridente. Tu non sei normale...

Katherine fece spallucce, e lei lo prese come una risposta affermativa. Si allungò a prendere il trolley e provò con il borsone, ma lei mantenne salda la presa.
Jane la scortò dal minuscolo atrio, ad un piccolo corridoio. Qui aprì una porta di legno scuro, dandole modo di vedere una stanza di media grandezza, con le pareti bianco sporco e una finestra bianca. C'era un letto ad una piazza e mezzo, con delle coperte grigie. Accanto al letto, addossato al muro, c'era un comodino, oltre il comodino un'armadio.
Notò un paio di scatole in un angolo, con della roba di vario genere dentro.

«Questa é la tua stanza.» disse Jane.
«Oh...» disse, quando vide che Katherine guardava le scatole.
Entrò nella stanza, mettendo la valigia vicino al letto.
«Devo ancora portare via le mie cose... Ecco.» prese sottobraccio le due scatole.

«Non dovevi cambiare stanza...» fece una debole protesta lei. Posò il borsone accanto al trolley, e seguì Jane, che era uscita e tornata nel corridoio.
Le mostrò la cucina, minuscola, e la stanza che sarebbe stata sua: era davvero piccola, ed aveva una parete completamente segnata da un'alone scuro.

«C'é una perdita... Ma dovrei ripararla presto.» spiegò Jane. Katherine annuì.

L'ultima stanza in cui la portò, fu il salotto. Questo era il locale più grande, aveva un divano rosso ed una tv, oltre ad un tavolo di legno.

«Vuoi mangiare qualcosa? So che é tardi, ma forse hai fame...» le propose, quando ebbe posato le scatole.

«No... Sono stanca.»

«Oh... Okay.» fece un piccolo sorriso.
«Allora, buonanotte.»

Katherine la guardò. Era seduta sul divano, con le mani in grembo, a torcersi le dita. Portava un anello d'argento, con una piccola pietra blu incastonata. I capelli mori le ricadevano in morbide onde, arrivandole fino alle spalle. I suoi occhi verdi sembravano stanchi, ma speranzosi. Non aveva un filo di trucco.
Sicuramente era disorientata dalla sua freddezza, ma non le importò più di tanto.

«'notte.» rispose, per poi girarsi ed andare nella sua stanza.

Nel letto, si stese e guardò il soffitto. Doveva ripartire da lì. Ricominciare. Ma il fatto era che non ne aveva nessuna voglia.
Che bella merda, pensò come ultima cosa, prima di scivolare in un sonno senza sogni.

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