Meet
Si svegliò presto, e le ci volle un po' per ricordare dove fosse. C'era un momento, appena svegli, in cui era tutto azzerato. Dimenticavi dov'eri, chi eri, cosa ci facevi lì e cosa ti ci aveva portato. Ma poi tornava tutto, e non era una bella cosa.
Restò per un po' a guardare i giochi di luce ed ombra che i raggi del sole creavano, entrando dalla finestra, poi si alzò.
Nel salotto, c'era Jane che guardava fuori dalla finestra, seduta sul divano. Aveva le gambe incrociate e un pigiama costituito da un pantalone largo color porpora e una canottiera nera.
I suoi ricci erano disordinati, e non appena Katherine entrò le rivolse tutta la sua attenzione.
Fantastico, pensò lei. Ed io che speravo non fosse sveglia.
Jane sorrise calorosamente.
«Buongiorno.» disse.
«'giorno.» rispose con un cenno del capo, restando sull'entrata.
«Vuoi fare colazione?» chiese lei.
Per tutta risposta, Katherine fece spallucce. Jane si alzò e le fece segno di seguirla, portandola al tavolo. Esso era "imbandito" con tremila tipi di cose differenti.
«Non sapevo cosa ti piaceva, quindi ho preso un po' di tutto.» le spiegò.
«Cioccolato fondente.» rispose Katherine.
«Eccolo.» sorrise Jane, sedendosi e porgendole una scatoletta di cioccolato fondente, al 75%.
«Mi hai aspettato?» chiese lei stranita, riferendosi alla colazione.
Jane scrollò le spalle.
«Non ero sveglia da molto...» abbassò lo sguardo.
«Grazie.» disse lei in un sussurro, e anche i suoi occhi si persero a guardare la trama del legno del tavolo.
Jane si schiarì la gola.
«Vuoi del pane?»
«Sì, grazie.»
«Eccolo...» e le porse un cestino con dentro del pane integrale, che lei prese di buon grado, accompagnandolo al cioccolato.
Fecero colazione in silenzio. Ogni tanto si sentiva il rumore delle posate, o dell'acqua che veniva versata. Le uniche parole che si scambiavano erano di cortesia, del tipo "puoi passarmi il pane" oppure "se vuoi c'é del burro".
Se da una parte quel silenzio poteva sembrare imbarazzante, a Katherine non dispiaceva. Amava il silenzio, non lasciava spazio ad equivoci. Era fragile eppure così potente, poteva essere distrutto in un batter d'occhio eppure incuteva timore a molti.
Quando Katherine si alzò per tornare in camera, Jane fece lo stesso, però chiamandola.
«Kate, io...» iniziò.
Katherine chiuse gli occhi ed inspirò bruscamente. Nessuno la chiamava così da tanto tempo. Una nuova ondata di dolore la travolse, ma ormai lei aveva imparato a rendersi una barriera. Respinse tutto, ricordi compresi, tornando alla normalità in qualche secondo. Era diventata brava.
«Per favore...» la sua voce era un sussurro, quindi si affrettò a ricomporsi «Non chiamarmi così.» disse, con voce più ferma.
«Lei...» lasciò la frase in sospeso, sperando che capisse.
Lo fece.
«Oh, mi dispiace...»
«Fa nulla.»
«Comunque, dicevo... Volevo dirti che...»
«Sì?»
«Che la scuola dovrebbe iniziare la settimana prossima, ti aspettano.» Jane si morse leggermente il labbro inferiore, a disagio.
«Ah.» disse solo lei, e tornò a sedersi.
«Naturalmente posso chiedere ancora qualche giorno... Credo di poterlo fare, almeno. Ma il fatto é che dovresti andarci. É una delle condizioni imposte dal tribunale e...» la donna continuava a muoversi sulla sedia.
Katherine pensò che l'ultima cosa che voleva fare, era andare a scuola. Quel posto brulicava di persone spensierate e senza cervello, sempre allegre e rumorose. Stupidi e superficiali... tutti i suoi coetanei erano così.
Lei e la scuola avevano un rapporto conflittuale. L'aveva lasciata tempo prima, nonostante sua madre fosse totalmente contraria, e adesso doveva tornarci.
Non era una questione di studio, era intelligente, imparava in fretta, ma non le andava minimamente di tornare in quel luogo. Era come una prigione vestita da centro d'ascolto. Praticamente la stessa cosa.
Per lei, la scuola e la libertà erano esattamente agli antipodi.
Forse se ci fossero stati dei professori quantomeno decenti sarebbe stato diverso... Ma no, erano tutte persone annoiate che odiavano il proprio lavoro.
E poi, non le serviva quella roba. La vita non la si imparava sui libri.
Si appoggiò con i gomiti al tavolo, e si portò la mano destra a pizzicarsi il labbro inferiore, lo sguardo perso nel vuoto. Diana aveva sempre voluto che lei avesse un'istruzione come si doveva, per una qualche incomprensibile ragione. Eppure proprio lei avrebbe dovuto riconoscere che alla fine nella vita sapere cose come le unità frazionarie o il primo villaggio creatosi nel Pakistan, non serviva a nulla.
Sbuffò lievemente, e riportò gli occhi in quelli di Jane, che la guardava in attesa. Aveva sempre quello sguardo, come se avesse avuto paura di dire la cosa sbagliata... Poveretta.
«D'accordo, ci andrò.» disse velocemente, e si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo.
Jane si illuminò, e fece un piccolo sospiro.
«Bene... Voglio dire, così sarà tutto più facile con il... Grazie.» sorrise. Figurati...
Restarono qualche secondo a guardarsi.
«Bene, io andrei in camera...» disse Katherine, e si alzò.
Quando fu sulla soglia del corridoio, Jane la chiamò.
«Katherine?» lei si fermò, senza girarsi.
«Benvenuta.» disse Jane, e lei se ne andò senza dare segno di averla sentita.
-
L'aria era fresca, e l'albero sotto cui si trovava era smosso da fruscii. I lunghi capelli neri seguivano il volere del vento, svolazzandole intorno alla testa e andandole sul volto. Con la mano destra nella giacca di pelle, a stringere l'accendino e il pacchetto, stava fumando una sigaretta, tenendola tra il medio e l'indice della mano sinistra. Era uscita, per fare un giro e cercare di non perdersi.
Il fumo usciva in nuvolette dalle sue labbra, e veniva immediatamente trasportato via dal vento freddo, quindi lei non poteva osservarlo come faceva solitamente. Stava guardando, invece, la piazzetta in cui si trovava e che aveva scovato dopo un quarto d'ora di cammino da casa di Jane. Era di media grandezza, con una fontana che non sgorgava più acqua, al centro. La fontana era composta da alcune decorazioni, e Katherine pensò che era il tipo di soggetto che, anni addietro, le sarebbe piaciuto disegnare. Prima disegnare era la sua passione.
I suoi pensieri vennero interrotti da un paio di ragazzi che irruppero nella scena.
Uno di loro, il più alto, era biondo ed indossava degli skinny neri e una camicia a quadri grigia. L'altro, più basso ma più muscoloso, aveva dei capelli corvini ed era vestito con dei jeans e una maglietta nera.
Quando guardò meglio, vide che stavano litigando.
Il biondo aveva sbattuto l'altro contro un muro, e lo teneva fermo lì, con il viso a qualche centimetro dal suo. Ad un tratto, lo lasciò e gli diede un pugno nello stomaco.
Il moro gli gridò chiaramente «Vaffanculo» e se ne andò, imprecando.
«Ti ho avvertito, stronzo!» gli gridò dietro il biondo.
In tutto questo, lei non si era mossa, restando con la schiena appoggiata al tronco dell'albero, a finire la sigaretta, per niente impressionata dalla scenetta. Cose di tutti i giorni.
Quando il ragazzo la vide a fissarlo, incrociò le braccia al petto.
Anche da quella distanza, Katherine vide che aveva un piercing al labbro inferiore.
Il ragazzo sputò a terra, poi la guardò ancora e le fece l'occhiolino, con fare insistente. Poi ancora, fece un gesto brusco, come a dire «Cosa cazzo guardi?».
Lei, per tutta risposta, gli alzò il dito medio, soffiò il fumo nella sua direzione, buttò il mozzicone a terra, e se ne andò come se nulla fosse.
Coglione, pensò.
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