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Il Molo

Forse saprei dire il perché fossi così legato al molo così trasandato e pericolante di quella cittadina in cui vivevo da quasi tutta la vita, eppure, se anche vi dicessi il perché non sarei pienamente convinto nemmeno io.
Il Legame che avevo con quel luogo, oltre che mentale era anche molto fisico. Non potevo abbandonare quel posto per molto (infatti la gente del posto mi definiva un tipo "legnoso") e quando lo facevo la mia mente vi tornava sovente.
Ogni tanto pensavo anche che avrei rimpianto l'aver visto così poco del resto del mondo, ma passavano pochi istanti e già tornavo a pensare ad altro e anche l'ombra del rimpianto si dileguava contro i fotoni dei miei pensieri.
La mia nube mentale era ricca di immagini e suoni che si collegavano tra loro mancando di nesso di tanto in tanto, ma sfido chiunque a scrivere e a parlare dell'andazzo dei propri flussi di coscienza in maniera chiara e distinta e non come una serie di correnti cangianti in base alla pressione e all'atmosfera.

In quella zona le persone andavano e venivano a qualsiasi ora del giorno e della notte; per passeggiare, per fermarsi a guardare il mare, per andare in barca o per lavorare.
Erano le cose a tenermi compagnia, più che le persone.
Le case, bianche e rosse e coi tetti spioventi mi avevano visto vivere la mia vita lì da sempre e le imbarcazioni che erano là mi conoscevano molto più di quanto io conoscessi loro. Durante il giorno i colori del posto erano sgargianti come quelli di un quadro ancora umido, mentre durante la notte i colori si buttavano in mare come misteriose sirene per lasciare spazio e tempo alle bruma serale e ai vampirici esseri che stavano in giro quando mancava il sole.

I nottambuli scaricatori di pesce erano persone poco attente a ciò che li circondava e li si poteva distinguere dalle persone comuni per i loro movimenti ampi e grossolani e per la robustezza delle loro braccia. Arrivavano di notte con le loro mogli marine colme di gamberi, di sgombri, di orate e di ogni tipo di pesce o mollusco che si possa immaginare o che non si possa immaginare.

Le carcasse degli abitanti del mare venivano forzatamente incastrate e rinchiuse in piccole tombe che il giorno dopo avrebbe reso molti individui dei veri e propri trafugatori di salme.
Le cubiche tombe passavano tra le mani di un omone a un altro e infine le posavano in dei freezer per tenerle fresche, perché il pesce troppo morto non era apprezzato da nessuno.
Molti di questi omoni -che sembra quasi io voglia demonizzare,
ma credetemi non è così- si portava appresso qualcuno dei propri figli che con evidente malavoglia aiutavano il padre.
Chili e chili di esseri con gli occhi vuoti, lingua barcollante e scaglie trasandate veniva portato ogni sera in quel molo in cui mi trovavo perpetuamente.

E nonostante non fosse quasi una loro scelta comunque non capivo come i miei compagni potessero permettere una cosa del genere.
Il traffico umano dato dal lavoro durava solo qualche ora e infine si concludeva con qualcosa tipo:

"Franco! Qua abbiamo finito, abbiamo sceso tutto."

Era solo un brusio di sottofondo quello che restava e non di raro si presentavano lunghi silenzi sciolti, anzi liquefatti da qualche frase di circostanza per poi ritornare solidi a causa del freddo tra le persone.
Credo che molti di loro si conoscessero. Anzi era così quasi sicuramente e poiché passavano insieme molto tempo e molto tempo lavoravano avevano poco di cui parlare.
Era anche capitato che la mia più cara nonché unica amica, Clara, bazzicasse di là e che avesse parlato con alcuni di loro.
Formalità susseguite da avvertenze sui pericoli della pesca intensiva per l'ecosistema marino. Cosa che lei pensava, molto stupidamente, potesse interessare loro.

Naturalmente a gente di quel tipo, che aveva come unico interesse il portare il pane a casa, non interessava nulla e anziché rispondere si voltava a fare altro, e lei notando la situazione si limitava a fare lo stesso.
Inoltre le sue conoscenze sull'argomento erano abbastanza superficiali e da documentario, ma in fondo fare l'attivista, per quanto fosse vicina a questo mondo, non era di certo il suo scopo nella vita.

Conosco Clara sin da quando ho memoria, e negli anni lei è cambiata sicuramente più di quanto non abbia fatto io che risulto invece solo più acciaccato e scarno. Era sempre stata molto vivace, cosa che molti non direbbero di lei vedendola china sui libri in mezzo al mare, cosa che i suoi amici le criticavano.
Io e lei ci vedevamo più d'estate che d'inverno e quando eravamo insieme era lei a parlare e io ad ascoltare. Prendeva i remi, saliva, e iniziava a muoversi lontano dal molo e dalla civiltà per poi chiudersi su un libro.

Svanita nel mare, nella quasi totale solitudine. Un punto nero nel mezzo della maggiore vastità sfumata.
Lembi di schiuma accompagnati da frangenti disordinati ci cullavano senza chiedere il perché della nostra presenza.
La reificazione dell'olismo in cui ogni singola parte, composta da molecole, formata da atomi, i quali sono associazioni di minori parti di materia, ora si confondevano in un tutt'uno senza eguali e senza fine e che si muoveva da sé e di per sé, non per il bene e non per il male ma per sé.
La complessità dell'uno a cui partecipavano i mostri acquatici, i tritoni, le creature marine e ogni tipo di pianta, fungo e qualsivoglia cosa di qualsivoglia specie, senza nemmeno rendersene conto.

Romanticherie, ahimè, date da una singola verità. Dal mio stare con Clara che per me era, come nelle più banali delle storie, più che un'amica, ma, come in una storia meno banale, meno che un'amante.
Un'attrazione romantica simile a quella che si potrebbe provare per una sorella che però non ti riconosce come tale, ma quasi solo come un mezzo.

Ogni tanto veniva da me con i suoi capelli scuri intrecciati le corde di una barca a vela e si confidava, anche se più con se stessa che con me. Aveva avuto alcuni problemi col padre dopo il divorzio poiché si era scoperto, sotto confessione della madre, che non era sua figlia e che il vero padre biologico era uno tra quei tanti che lavoravano al porto. Non so chi precisamente, visto che nessuno di loro sembrava somigliarle anche solo un minimo.

Tuttavia era la distanza col padre che l'ha crescita a crearle disagio e stress che il suo corpo somatizzava facendola vomitare. Non si contano più le volte che l'ho vista sboccare succhi gastrici con le mani strette su di me e la labia verso il blu.
Poi si risedeva con le gambe distese e il viso pallido come quello dei pesci al molo. Farneticava un po' e poi tornava a leggere o a parlare di qualcosa. Più di problemi che di cose, ma è una cosa normale quando ei è giovani, soprattutto se si vive davvero qualcosa di sbagliato in più ambiti.
Pian piano certe cose ti spengono; almeno per un po'.

Una sera, mentre al mio solito stavo al molo a far nulla, vidi Clara parlare con uno di quegli enormi umani che lavoravano di notte, ma era una discussione diversa dal solito, più accesa.
Il "marinaio", dalla barba incolta e la pancia robusta, stava seduto ma il corpo non era rilassato sulla sedia e la schiena era dritta e tendente verso di lei. Le braccia erano in tensione e poggiavano sulle gambe e il suo volto era cosparso di rughe. Lei era in piedi a pochi passi da lui e le sue braccia vorticavano rabbiose.

Non seppi mai cosa si dissero, e poco dopo iniziò ad avvicinarsi verso di me a passi ampi e rapidi; Scarlatta in viso e con il labbro inferiore tra i denti.
Il vento soffiava forte e i capelli le andavano in viso e le coprivano gli occhi bloccandole la vista, ma lei continuava a camminare conoscendo a memoria la breve strada che doveva percorrere.

Salì lesta, e incanalò l'ira in delle possenti remate mentre con i suoi occhi e sicuramente anche i suoi pensieri erano rivolti a quell'uomo. In poco tempo sparimmo nel nero e anche le luci della città iniziavano ad allontanarsi e affievolirsi.
Il nostro moto sull'acqua scorreva irregolare, spinti da un lato e dall'altro con forza.
Clara si tenne stretta ai remi e iniziò ancora a vomitare. I versi del suo dolore si perdevano nel vuoto e il suo contenuto si disperdeva nell'immensità mentre lei sembrava perdere le forze.
Si sdraiò qualche secondo e alzò gli occhi al cielo e farfugliò qualcosa sulle nuvole.

Una luce vitale pervase il suo sguardo ora più agguerrito che mai e con voga tornò a farci muovere.
Io m'impegnavo, per quel che potevo visto che era lui a dirigerci, a cambiare direzione e a fermarla, ma le correnti e la sua forza ci portavano ancora di più al largo e ancora più vicino a quei neri gas celestiali.
Le onde si facevano più intense e grandi e la volta celeste, piena di stelle che ci guardavano da lontano, pianse per noi più forte che poteva.
L'acqua ora ci circondava sia dal basso che dall'alto.

Lei non ascoltava la mia resistenza e continuava a spingerci verso la tempesta. Il vento a ogni metro aumentava i suoi nodi, la pioggia scrosciava sempre più prepotentemente sul suo gemello terrestre causando enormi frangenti che ci sballottavano ovunque come fiocchi di polvere mossi da un tornado.
Tutto si abbatteva su di noi con l'intenzione di abbatterci.
Lei continuava a parlare ma la musica della natura copriva ogni sua parola tranne un ultimo grido verso il cosmo prima che un'enorme massa d'acqua ci ribaltasse a testa in giù.

A quel punto solo il caos ci circondava.

Io ero totalmente in balia della forza brutta della natura mentre Clara con tutta la sua forza provava a reggersi a me, ma in breve tempo persi coscienza tra le sue lacrime, quelle del cielo e quelle dell'immenso blu scuro che ci adornava.

Rinvenni qualche ora dopo, sul finire del mattino. Ero naufragato verso il molo quasi per miracolo visto che avevo persi vari pezzi e non mi spiego come potei non finire nelle profondità.
Mi avevano già legato e lì vicino a me c'era sua madre che piangeva.
Di lei non si era trovato nulla, né il corpo né gli oggetti. L'unica cosa che le apparteneva a essere tornata ero io: la sua barca.

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