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Vent'anni


EDIT: Volevo annunciarvi che un #altending di questo racconto viene trattato in "Da quando sei partita", la storia che sto scrivendo per il justwriteit su Wattpad.




Si incontrarono proprio davanti al mio tavolino.

Questo è un onore – un onere – che capita sovente agli scrittori: quello di essere il terzo uomo.

Io lascio che la vita mi graviti attorno, bevo i gesti noncuranti della gente e cerco di produrre in me un'alchimia preziosa che non sempre mi riesce.

A volte devo rimpinguare la realtà.

Non successe quel giorno, e sì, si incontrarono proprio davanti al mio tavolino, in una giornata di novembre in cui faceva abbastanza caldo per pranzare all'aperto.

Da dove ero seduto vidi bene come successe: lui era un uomo, lei era una donna, due esseri qualunque nel mio campo visivo, e non si voltarono per qualche scherzo d'atmosfera o per un prodigio poco credibile della chimica sentimentale.

Fu tutto molto naturale.

Lui era un uomo senza malinconie, prima di vederla.

Era sui quarantacinque anni, forse cinquanta. Quanti che fossero, penso che li portasse dignitosamente bene. Aveva i capelli brizzolati e l'aria di chi alla mattina si riconosce nello specchio in maniera abbastanza precisa.

Portava un soprabito di panno blu scuro e aveva con sé una valigetta da dottore di quelle vecchio stile, a fisarmonica e in pelle.

Si voltò verso di lei perché gli occhi degli umani vagano, e non c'è nessun'altra forza ad accompagnarli nel loro moto se non il caso.

Lei era una donna vispa e pensosa.

Aveva – penso – la stessa età di lui, di quella magrezza diafana che per qualche ragione si accompagna spesso ad una bassa statura. Aveva appena finito di mangiare alla mia stessa tavola calda, e probabilmente stava per rientrare al lavoro.

Si voltò verso di lui perché lui la chiamò.

«Gloria!» esclamò l'uomo «Gloria» ripeté più trattenuto, forse pentendosi.

Lei, che stava cercando di mettere via il portafoglio, perse la presa sulla borsa.

Non la raccolse subito.

«Simone?» domandò, strizzando gli occhi al sole autunnale. Non capii se lo avesse riconosciuto dalla voce o se avesse visto perfettamente chi aveva davanti, ma le mancasse il coraggio necessario a dire quel nome senza esitare.

Lui si avvicinò di un passo. Lo sguardo che si scambiarono fu quello di chi squadra una vastità vertiginosa e ne prende le misure, calcolando se avvicinarsi all'orlo o retrocedere, come potrebbero fare gli animali di fronte a dilemmi meno complessi.

Era uno sguardo così carico di strati e di intenzioni che mi dissi: "Qui c'è una storia". E poiché era un po' che non scrivevo – sinceramente mi pareva impossibile pensare di riuscire a scrivere di nuovo – feci scivolare con discrezione un foglio fuori dalla mia cartellina e lo posai sul tavolo davanti a me.

«Come va?» chiese lui esitante, dopo una pausa troppo lunga.

Lei aprì una volta la bocca a vuoto, poi sembrò rattrappirsi in sé stessa, infine disse: «Non c'è male, e tu?»

Immaginavo che non avessero dovuto scambiarsi un solo "come va?" in vita loro. O almeno, non uno di quelli finti e colpevoli che si scrivono per messaggio le coppie che non hanno molto da dirsi. Fantasticai che forse una volta tra di loro non ce ne fosse stato bisogno, e che ora neppure sapessero come si fa.

Lui si limitò ad annuire. Corrugò le sopracciglia in un'espressione così intensa che per un attimo pensai che dovesse starnutire o scoppiare a piangere o iniziare ad urlare. Invece in un solo secondo distese il volto e fece un cenno del capo in direzione dei tavolini: «Posso offrirti un caffè?»

Lo chiese, credo, con l'arroganza bonaria del vincitore. C'è chi nella vita ha fatto tutto più o meno bene e può permettersi di porre domande del genere, di arrivare in fondo a certe verità. Perché era questo che andava cercando, ci misi un po' a capirlo, e si sentiva sufficientemente padrone di sé da uscire indenne da quel confronto.

Lei spalancò un poco gli occhi e fece un gesto nervoso con la mano come se stesse scacciando una mosca. I capelli biondi, tagliati sopra le spalle, ebbero un sussulto molle sul collo del cappotto.

«Ah, l'ho appena preso...» fece per andarsene in uno di quegli slanci secchi con i quali, in una persona civile, il buon senso ha la meglio sull'educazione.

Lui la fermò sfiorandole appena il gomito.

«No, insisto. Non ci vediamo da anni» ora la guardava curioso e doloroso, come se avesse davanti il più tremendo degli inghippi, uno che non si sa come risolvere se non tagliandolo «Io prenderò un caffè. Tu potresti prendere una di quelle paste alla nocciola...»

Lei fece uno sbuffo nasale. Una ruga le si disegnò su una guancia quando sorrise ironica, ma avrebbe anche potuto essere una fossetta.

Si sedettero.

Per lungo tempo non successe nulla e quella densità che avevo percepito tra di loro parve venir meno, tanto che mi stavo preparando a mettere nuovamente via la penna, accontentandomi di quei pochi appunti che ero riuscito a prendere, quando lei disse:

«Te lo devo proprio chiedere. Tu non mi hai mai amato?»

La domanda fu fatta così a bruciapelo, e pronunciata con una tale rassegnazione, che ora non riuscirei a ricreare a parole l'impressione che produsse in me.

Per un attimo pensai che lui la guardasse incredulo perché aveva rotto quei canoni della buona creanza per cui una domanda del genere risulta fuori luogo, in un incontro casuale.

Ma dovetti ricredermi alle sue parole: «Dopo vent'anni... Tu mi chiedi se ti ho amato, dopo che sei sparita per vent'anni?»

Lei era così sconvolta che ci mise parecchi secondi a rispondere.

«Io sono sempre stata qui! Sono sempre stata qui, che ti piaccia o no! Sono qui da quando ti ho incontrato e tu non sei mai venuto a cercarmi.»

Lui la guardò stralunato, replicando in un tono basso che pareva il rombare di un tuono lontano: «Sei andata per cinque anni in Olanda, dopo essere stata con me una sola notte. E prima di quella notte la nostra amicizia durava da dieci anni. Me lo spieghi? Spiegami, perché sono vent'anni che non capisco.»

«Davvero... Tu» parlare sembrava costare alla donna uno sforzo immenso «Non capisci?»

Per tutta risposta lui la guardò con una determinazione furibonda e lo sguardo fondo di un demone.

«Ero stata presa anche qui. Qui e ad Amsterdam. E tu pensi che dopo anni e anni in cui io ti avevo amato in silenzio avrei sopportato l'umiliazione di un rifiuto? Non capisco perché ti sconvolgi tanto, questo da me non avresti potuto pretenderlo neppure tu...»

Gli occhi di lei si erano fatti enormi, il suono delle sue parole uno schiocco confuso al punto che per distinguere quello che diceva dovetti fare uno sforzo titanico, sporgendomi verso di loro per quanto lo consentisse la decenza.

Ero sconvolto. Era accaduto tutto così in fretta che mi pareva che quello che stavo ascoltando non fosse realistico. Come possono due persone incontrarsi dopo vent'anni e sostenere un dialogo del genere? Eppure lo stavo udendo.

«Tu scherzi» fece l'uomo, allucinato, ricadendo contro lo schienale della sedia «non puoi dire sul serio. Da come me la ricordo io, tu hai passato con me una notte dopo la laurea e sei partita. E questo è tutto.»

«Questo per te è sempre stato tutto!» ora lei piangeva «È per questo che me ne sono andata.»

«Io ti amavo, Gloria! Se tu mi avessi dato il tempo per dimostrartelo, allora...»

«Ti ho dato dieci anni della mia vita! Da quando ti ho conosciuto al liceo ti ho amato, ed è tutto quello che ho da dire in merito» poi parve realizzare che lui le aveva confessato di averla amata, e ammutolì.

Da parte sua, anche l'uomo stava lasciando che le parole di lei attecchissero e illuminassero, fino a quando non dovette rimanere un filo d'ombra dove nascondersi, perché lui mormorò debolmente: «E tutto questo come avrei dovuto saperlo?»

Lei fece un gesto vago con la mano, svuotata: «Bastava chiedere. Se non fossi stata io abbastanza evidente, chiunque dei nostri amici avrebbe potuto confermare la tenacia con cui ti amavo.»

Rimasero lì per molto tempo. Chiusi nel loro tormentato silenzio, entrambi estranei a sé stessi e all'altro, ma ancora più estranei al mondo, continuarono a ricucire le fila sparse di quei vent'anni senza dire una parola di più.

Adesso davvero non c'era scampo.

Notai per la prima volta che entrambi portavano la fede al dito, e mi chiesi se avrebbero preferito dover rendere conto a sé stessi o dover rendere conto alle loro famiglie.

Quanto sarebbe stato meglio per loro se non si fossero incontrati mai più. Se solo ognuno avesse continuato a credere il peggio dell'altro, allora...

Con la stessa discrezione con cui l'avevo tirato fuori, feci scivolare il foglio su cui avevo scritto oltre il bordo del tavolo e lo feci a pezzi sotto la tovaglia color crema.

Come se non fosse mai esistito.







N.d.A.: Il prompt era (spero di ricordare bene) "Erano fatti l'uno per l'altra ma si sono lasciati a causa di un'incomprensione. Si riscontrano dopo vent'anni"

Non ho scelto il punto di vista dello scrittore perché avevo una pazza voglia di fingermi originale, ma perché avrei voluto che Gloria e Simone fossero alla pari in questo incontro. Da qui il terzo incomodo, il nostro osservatore esterno:)

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