Alienata con monomania dell'invidia
La mostra delle opere dell’arte romantica è pronta per aprire al pubblico, guardo l’orologio, accidenti com’è tardi! Mancano quindici minuti a mezzanotte, è ora di tornare a casa. Prima di spegnere le luci della sala do un’ultima occhiata, sono fiera dei risultati raggiunti, poco più di un anno fa ho vinto il concorso come direttrice di questo piccolo museo e da allora mi sono impegnata affinché diventasse uno dei più importanti della città e domani mattina con i dipinti di prestigio esposti avrò raggiunto il mio obiettivo. Sento un leggero fruscio alle mie spalle, mi giro, ma non c’è nessuno, non sono avvezza a facili suggestioni però ogni tanto avverto delle presenze, succede ogni volta che rimango sola, mi ripeto che sono sciocchezze, eppure… chiudo la porta a chiave e mi dirigo nel mio ufficio per recuperare il cappotto e la borsa.
Quest’ala non è stata ancora ristrutturata, sarà che percorrere il lungo corridoio in cui non vi sono finestre, ma solo le porte degli uffici, sarà l’ora tarda, ma in questo momento mi sento osservata e mi assale lo stesso disagio che ho provato poco fa. Mi fermo e guardo indietro, un leggero soffio di vento mi investe facendomi rabbrividire, mi strofino le braccia, che fastidio la pelle d'oca! Ma non ci sono finestre, deglutisco il groppo che si è formato in gola. «Sciocca!» Mi rimprovero, ascoltare la mia voce mi dà coraggio.
Una melodia lontana e distorta rompe il silenzio, non la sto immaginando, mi assale la fretta come se avessi il diavolo alle calcagna, le mie gambe si muovono automaticamente in una camminata veloce, devo arrivare il più presto possibile in ufficio. Gli ultimi passi diventano una corsa, ho l’impressione di sentire il sangue pompare veloce nelle arterie mentre il cuore mi batte a un ritmo talmente frenetico che lo sento pulsare nelle tempie; afferro la maniglia e sospiro sollevata, sono salva!
«Dottoressa.»
«Oh, Signore!» Metto le mani sul petto, ora il cuore mi esce dalla cassa toracica.
«Mi scusi.» Il custode ha un’espressione costernata «l’ho spaventata?»
«Se tra un secondo non cado tramortita dalla paura» prendo fiato «posso risponderle di sì?»
Il custode fa un sorrisino, glielo leggo in faccia che sta cercando di non ridere, «dalla sua risposta direi che si è molto spaventata.»
Lo squadro con aria severa e noto che alla cintura ha legato con un filo una radiolina a transistor, mi viene fuori una risatina isterica, ma che vado pensando! Le presenze non ascoltano la musica.
«Come mai è ancora qui? L’ho vista dallo schermo del monitor e sono venuto ad avvertirla di affrettarsi a tornare a casa.»
«Sì, stavo appunto andando via.»
«Sa com’è?» Aveva un tono di scuse «è la notte di Halloween e...»
«Che sciocchezza! È una notte come un'altra.» Lo interrompo «la scusa per mangiare la solita caramella.»
Sulla faccia del custode si dipinge un'espressione di disapprovazione, si guarda intorno e sottovoce:«Dottoressa, per favore, se lei non se ne torna a casa, io non potrò chiudermi nel mio ufficio.»
«Non capisco.» Gli rispondo con la stessa aria cospiratoria.
Ora dall'espressione di disapprovazione è passato a quella spazientita.
«Ma come!? Non lo sa che cosa era questo edificio prima di diventare un museo?»
«No, ma ho la sensazione che me lo sta per dire.»
«Un manicomio.»
Mi guarda come se la rivelazione mi dovesse far comprendere l'arcano.
«Si racconta che chi rimane nel museo oltre la mezzanotte sparisce...»
«La prego basta con queste sciocchezze!» Lo interrompo con fare spiccio «Abbia pazienza, prendo la borsa e il cappotto e vado a casa.»
«Vabbè, finisco il mio giro, buonanotte.» Mi saluta seccato e si incammina lungo il corridoio dalla parte opposta da dove è venuto.
«A domani.»
Senza voltarsi alza la mano per rispondere al mio saluto. Mi sa che si è offeso, faccio spallucce ed entro nell'ufficio, prendo il cappotto appoggiato sulla sedia e sulla scrivania accanto alla borsa noto la targa di Alienata con monomania dell'invidia di Théodore Géricault, il dipinto più importante della mostra. Accidenti! Il custode aspetterà ancora dieci minuti per andare a nascondersi.
Cammino veloce lungo il corridoio accompagnata dal ticchettio dei tacchi sul pavimento di marmo, apro la sala e mi dirigo verso il dipinto. Sistemo la targa poi osservo il quadro, mi piace ammirare le opere dal punto di vista del visitatore e poi come studiosa. L’anziana donna, internata in un manicomio, viene rappresentata da Géricault con un’espressione turbata mentre osserva qualcosa, in effetti il suo sguardo è fisso e comunica rancore, asprezza, un fortissimo sentimento di invidia, quasi sono travolta da quella sensazione di follia provando un autentico orrore. Un attimo… concentro la mia attenzione su un punto alle spalle dell’anziana, sbatto le palpebre una, due volte per poi inclinare la testa, non è possibile! C’è qualcosa che si muove sullo sfondo del dipinto. Mi guardo intorno e in fondo alla sala c’è una piccola scala, mi affretto a prenderla e la posiziono davanti al dipinto. Ora che sono all’altezza del volto della donna, le guardo gli occhi e ancora una volta sento un senso di ansia che mi assale; sposto la mia attenzione dove ho avuto l’impressione che si muovessero delle persone, ma sono ancora lontana e allora mi sporgo leggermente quando sento sotto di me la scala traballare pericolosamente, sto perdendo l’equilibrio! Tento di tornare dritta per non cadere quando un secco scossone, come se mi avessero strappato da sotto i piedi la scala, mi fa cadere in avanti. Ora che ci penso, com’è strano il cervello perché in una frazione di secondo si affolla di pensieri, il mio è che rovinerò il quadro, mi preparo all’impatto quando vedo due mani che escono fuori dal quadro, mi afferrano… l’ultima cosa che sento è il secco tonfo della scala che cade sul pavimento.
«Ehi tu, svegliati.»
Mi sento strattonare, mi strofino gli occhi cercando di aprirli, borbotto:«Che terribile incubo!»
Apro appena gli occhi, intravedo un uomo che mi afferra il braccio e mi scuote violentemente facendomi tremare i denti, ne rimango talmente scioccata che non ho la forza di reagire.
«Lasciala perdere!» Gli urla un’altro che non riesco a vedere dalla mia posizione «non vedi che è ancora sotto l’effetto dei tranquillanti.»
Tranquillanti? Ma che diavolo stanno blaterando.
La faccia di quello che mi ha strattonato si avvicina alla mia, sento che puzza di alcol e quando mi sbuffa sul volto mi si rivolta lo stomaco e con tono cattivo:«Non credere, questa volta sei stata fortunata perché sei arrivata da poco, ma non sarà sempre così.»
Voglio spingerlo lontano, ma quando tento di muovere le mani mi rendo conto che ho i polsi bloccati, Oddio! Sono legata a un letto.
«Dove sono?» Urlo spaventata «Chi siete?» Mi agito e sento che le manette producono un rumore di ferraglia. «Che volete?» Urlo con tutto il fiato che ho nei polmoni in preda ad una crisi isterica.
«Aiuto! Aiuto!»
«Zitta pazza!» Vedo l’altro uomo avvicinarsi.
Alzo metà del corpo tirando il più possibile il braccio, che mi fa male da morire, da questa posizione mi rendo conto che sono in uno stanzone dove ci sono altri letti con persone legate. I due energumeni indossano quelle che probabilmente sono delle divise perché sono vestiti allo stesso modo, ma non le riconosco:«Rispondetemi immediatamente. Chi siete?» Li incalzo.
«Ma sentila!» Mi strattona per l’ennesima volta, «devi stare zitta! Altrimenti agiti gli altri pazzi come te.»
Caccio un altro urlo e faccio appena in tempo a vedere la mano che arriva dritta, con forza, colpendomi la guancia. Lo schiaffo è così forte che cado all’indietro sbattendo la testa sul testiera del letto, il dolore è allucinante, le lacrime mi appannano gli occhi, sento che mi afferra il braccio e l’ago mi penetra la carne, subito dopo sento il corpo diventare pesante e il buio avanzare inesorabilmente inghiottirmi.
I rumori mi arrivano ovattati come se mi trovassi sott’acqua, ho sete e un dolore lancinante alla testa, faccio un lamento, apro gli occhi, ma le luci sul soffitto mi accecano. Devo concentrarmi e capire cosa sta succedendo, mi costringo ad aprire gli occhi e guardo di lato, sono in un corridoio e mi sto muovendo su una lettiga, ora ricordo, il museo… il quadro… il manicomio come ha detto il custode. Comincio ad agitarmi nel tentativo di liberarmi, ma mi rendo conto che sono ancora legata non solo ai polsi, ma anche alle caviglie:«Lasciatemi, c’è un errore.» Urlo disperata, chi mi sta trasportando si ferma, tiro un sospiro di sollievo. Finalmente! Ora mi libera invece lo vedo che mi passa davanti, sento una porta aprirsi per poi tornare a spingere la lettiga, comincio a piangere disperatamente.
«Ecco la nuova paziente, dottore.»
Riconosco la voce dell’energumeno che mi ha schiaffeggiato. Ora parlerò con il dottore, sicuramente riuscirà a capire che è tutto un errore e mi libererà.
«Dottore, la prego penso che ci sia un errore, io sono la dottoressa…»
«Ti ho detto che devi stare zitta!» Mi intima quello che a questo punto penso sia un infermiere.
«Non mi toccare.»
«Ora basta.» Sento i passi del dottore che si avvicinano, l’infermiere gli lascia il campo così che io possa vederlo, ha i capelli e la barba bianca, mi colpiscono due profondi occhi verdi, mi accarezza la testa:«Non temere dopo la lobotomia non soffrirai più.»
«Dottoressa? E’ qui?»
Il custode spinse la porta, fece un giro e quando vide la scaletta a terra davanti al quadro di Géricault la prese, “sarà meglio metterla a posto” pensò, poi guardò il volto dell’anziana dipinta, un brivido lo percorse, “certo che fa impressione.” Si diresse verso la porta, osservò ancora una volta la sala, “molto probabilmente sarà tornata a casa e avrà dimenticato di chiudere la luce e la porta, certo non è da lei, ma in questo edificio è risaputo che accadono fatti assai strani”, si chiuse la porta alle spalle.
T. Gèricault, Alienata con monomania dell'invidia, 1820, ritratto olio su tela, 77 cm x 65 cm, Museo del Louvre Parigi
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