Un palazzo di sette piani
Mi risveglio con la schiena dolorante, lo stomaco brontolante e un mal di testa accecante. Mi tiro su. I raggi del sole penetrano violentemente la mia cornea, costringendomi a svegliarmi del tutto. Mi guardo intorno. Sono nella stessa autostrada di ieri sera, con lo stesso sporco addosso che avevo ieri sera, quando mi sono steso su questa striscia di strada, disseminata di erbacce, per dormire un po'. O perlomeno, provarci.
Ho bisogno di sgranchirmi un po'. E avrei bisogno anche di acqua, e di cibo.
Inizio a camminare, sperando di sopravvivere almeno fino a domani. C'è davvero un sole cocente, questa mattina. Chissà che ore saranno, chissà cosa stara facendo lei. Forse, starà guardando la tv insieme al suo ragazzo. Magari, staranno facendo l'amore.
Dopo un gran bel tratto di strada, vedo finalmente passare una macchina. So già che se anche solo provassi a mettermi al centro della strada, per farmi dare un passaggio, l'autista mi metterebbe sotto.
Anch'io, se fossi l'autista, mi metterei sotto.
Così, sto semplicemente qui, sul ciglio della strada. Proprio qui, e attenzione a non oltrepassare la linea bianca. Aspetto, e spero che arrivi Qualcuno a darmi una mano. Spero anche che me la mandi buona, una volta tanto.
La macchina in questione è una Mercedes Nera, enorme e con i vetri oscurati. So già che non mi vedranno. Una macchina coi vetri oscurati vede solo sé stessa, e rigetta qualsiasi altro elemento esterno. Che sia esso un povero essere vivente affamato, o uno scroccone che vuole solo un passaggio gratis.
Sto ancora cercando di capire chi dei due io sia.
Nel frattempo, la macchina è già sfrecciata verso l'orizzonte. E poi ci sono io, che cammino a passo di lumaca verso una discesa infernale.
Non mi stupisco neanche di cotanta crudeltà. Sono appena stato abbandonato, se per "appena" ci si può riferire ad un lasso di tempo di almeno dieci ore.
Non credevo davvero che quella macchina si sarebbe fermata. E infatti, non è successo.
Vorrei poter urlare. La rabbia cresce dentro di me ad ogni minuto che passo a vagare per questa strada deserta. Non c'è nessuno, non c'è letteralmente anima viva.
No, non c'è.
La mia, di certo, non lo è più.
No, non lo è. Da almeno dieci ore.
Cammino, cammino, cammino. Sono così disperato che spero solo di poter morire prima ancora che le mie gambe si stacchino definitivamente dal resto del corpo. O forse, sto solo aspettando che accada, per poter finalmente morire in pace...
Ma che sto dicendo?
Cosa sto facendo?
Perché lo sto facendo?
Percorro questa strada, senza sapere dove mi porterà. E per di più, sperando che mi conduca al cospetto della Morte...
Ho già percorso non so quanti chilometri, e non so neppure se siano realmente definibili chilometri. Magari, solo solo quattro metri, o due centimetri. Oppure, un quarto di millimetro, un decimo di decimetro...
A me sembra di aver attraversato un intero continente.
In lontananza, scorgo una figura striminzita e in continuo movimento. Freme come se stesse per morire. Corro verso questa figura ignota, sperando che il Destino non mi riversi una brutta sorpresa.
Ecco, sono appena arrivato. Il fiatone comincia a farsi sentire.
Un gattino, uno scricciolo di appena qualche centimetro, è colto da violenti spasmi incontrollati. Accanto ad esso, spazzatura di ogni genere, forma e colore. Una scatola sporca di colori a tempera giace come un relitto sul fondo di un oceano.
Sarà anche meschino (e crudele), ma non posso fare a meno di pensare a lei. La donna che mi ha abbandonato su questa strada, e che amava dipingere alla follia. Era la seconda cosa che più amava fare al mondo.
Al primo posto, c'erano le coccole che mi dedicava quotidianamente.
Mentre io sono avvolto dai pensieri del mio passato, quel piccolo batuffolo di pelo secco, umido e pieno di sporcizia, lotta incessantemente, rinchiuso in un limbo tra la vita e la morte.
Cosa posso fare? Non so come aiutarlo.
E in fondo, come potrei farlo?
Così, me ne sto lì. In silenzio. Attendo che gli spasmi si affievoliscano, e regalo a questo piccolo angelo di pelo il beneficio di una compagnia sconosciuta nel giorno della propria morte.
Sempre sperando, che venga accolto in un posto dove non esistono colori a tempera e gatti ingenui abbandonati.
Un'immensa tristezza mi travolge, più veloce di una macchina in corsa sull'autostrada.
Mi chiedo di cosa sia fatta l'aria che respiro. Vedo soltanto dolore, ovunque io vada. Io sono il Dolore. Non posso guardarmi in faccia, ma penso che se lo facessi resterei inorridito. Il dolore mi ha cambiato, in un modo o nell'altro, storpiando la mia essenza, di cui non resta altro che cenere di memorie defunte. L'odore di lei aleggia ancora nella mia mente, accompagnato dall'intenso puzzo di combustione di carburante per auto.
Dopo, c'è solo la morte.
Dopo un abbandono, esiste solo la morte. Morte della vita, del ricordo della vita.
Morte di un'identità, soffocata dai silenzi.
Soffocata dagli stenti, imposti da una società malata che ti tende la mano, per poi sottrarla prima ancora che tu possa afferrarla.
Vagando nel buio deserto del mio inconscio, scorgo un esserino tremolante che implora di essere salvato. Chiudo a chiave il cassetto, e vado avanti. Vado avanti per questa strada, che è la vita, e che ti costringe a non pensare, se vuoi sopravvivere.
Accetta quello che ti viene offerto, e se pensi che sia poco... sai già dove l'uscita.
Anzi, no. Usa la porta di servizio sul retro. Te lo meriti, per essere stato tanto insolente e pretenzioso da mostrarti per ciò che sei, tirando fuori timidezze che qui dentro, in questo universo, non sono ammesse.
Viaggio con la mente, per sfuggire alla monotonia di questo tragitto eterno verso la dannazione.
Sono sempre più convinto che morirò su questa strada, proprio come quel gatto innocente. Rivedo ancora, immerso nelle iridi scure, quel corpicino rapito dalle convulsioni.
Mi viene quasi da vomitare. Anzi, togliamo pure il "quasi".
Dopo aver rigettato solo ed esclusivamente liquidi corporei, dal momento che non ricordavo neppure quando fosse stata l'ultima volta che avevo ingerito qualcosa di solido, riprendo stancamente il mio percorso.
Destinazione ignota, motivazioni altrettanto sconosciute.
Non so nulla di ciò che sto facendo, né di ciò che farò in futuro. Per un attimo, mi sono sentito quasi come se avessi persino dimenticato cosa mi fosse successo "poco" prima.
Perché sono qui, ora, su questa strada?
"Sei stato abbandonato"
Ah, giusto.
E cosa sto aspettando?
"Qualcuno"
Già, è vero.
Mi volto di scatto. Credevo ci fosse qualcuno dietro di me, ma mi sbagliavo.
Cammino, sempre più incerto, sempre più solo.
Non so quanto tempo sia passato, ma so che sto per svenire. L'unica buona notizia è che, finalmente, ho raggiunto una città. Non so che città sia, non so neppure cosa sia una città. Ne ho sentito parlare, e credo che una città sia proprio quella su cui adesso sto camminando col mio sudicio corpo puzzolente.
Vedo l'acqua solo nei miei sogni, così come vedo lei... solo nei miei sogni.
Percorro un paio di stradine sterrate, fino a ritrovarmi di fronte ad un cancello automatico, per mia fortuna, aperto. Mi infilo tra di esso, prima che si richiuda, e mi lascio alle spalle tutto il resto.
Dinnanzi ai miei occhi si staglia minacciosa la figura di un mastodontico edificio con uno, due, tre, quattro... sette piani.
Sì, credo siano sette piani.
In ogni caso, non fa alcuna differenza per me.
Un enorme spiazzale incornicia l'ingresso del palazzo. Ricco di fogliame, cartacce e cocci di vetro. Sto per attraversarlo, quando d'improvviso mi accorgo di tre strane presenze.
Tre minacciose presenze, che mi si avvicinano con fare sinistro. Mi guardo intorno terrorizzato. Il cancello è chiuso, ormai. Ed è troppo alto, per poterlo scavalcare.
Prima ancora che possa fare qualsiasi cosa, vengo attaccato con ferocia inaudita.
Graffi in ogni centimetro di pelle, morente in una pozza di sangue.
Lascio che dalla mia bocca si liberino guaiti di immenso dolore, mentre piango dalla disperazione. Quei tre mastini escono di scena trionfanti, non appena sentono il cancello riaprirsi.
E non si curano minimamente di controllare in quali condizioni mi abbiano appena abbandonato su questa zolla di terra.
I guaiti aumentano d'intensità, così come non diminuisce la sofferenza delle mie carni lacerate al sole.
Un uomo, dal terzo piano del palazzo, mi urla contro.
"Sta' zitto, cane!"
Abbasso il capo, stringo forte i denti, e il silenzio soffoca il mio cuore (canino) in un ultimo abbraccio.
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