falling ━[tribute]
Hai mai provato la sensazione
di essere lì, a bordo di un precipizio
e di non sapere che fare?
Tra fare un passo indietro e lasciarti andare,
scegli di lasciarti andare.
Se non ti è dato di trovare un solido terreno,
credimi, imparerai a volare.
(Stephen Littleword)
━ ☾ ━
«Comincio a pensare che non ti sveglierai mai più».
La prima cosa che registra è quella voce sconosciuta aleggiare nell'aria di fianco alle sue orecchie, distante e fine, che si infila nella cortina di nebbia e incoscienza che la avvolge, sottile come la coperta di un bambino ma resistente come un giubbotto anti proiettili. È una voce femminile, calda e rugosa come la carezza di una mano callosa, ma non riesce ad associarla a nessun volto. Non vede nessun volto.
La seconda cosa è il suolo di roccia ormai fredda sotto di lei, insieme al pulsare insistente delle sue tempie e al dolore costante alla testa, ancora appoggiata sul terreno liscio. La terza sono i capelli che si muovono nel vento solleticandole le guance, ma che non portano nessun profumo, nessun calore, nessuna vitalità.
Cerca di capire da dove provengano quelle parole, ma tutti i suoni le giungono ovattati e la sensazione di trovarsi immersa in un mare di cotone, chiusa al di fuori dal mondo esterno, non la aiuta a concentrarsi, rendendo solo più rumorosi i pensieri e le domande che le affollano la mente.
Non ricorda. Non ricorda dove si trova né ha idea di come ci sia arrivata. Non ricorda i suoi amici o i suoi familiari, non ricorda se ne ha mai avuti. Non ricorda il suo aspetto, il suono della sua voce. Non ricorda sé stessa.
«Sei viva?» insiste la voce, seguita da un tonfo, «Ok, domanda stupida» un sospiro, «se fossi viva non saresti qua».
Le sembra di cogliere un leggero strato di malinconia ad accompagnare il silenzio che le cala di nuovo intorno insieme ad una nuova consapevolezza che si infila leggera e silenziosa nella confusione che ha in testa e si fa strada tra i pensieri, chiara come una stella in mezzo al cielo notturno.
Se fossi viva non saresti qua. Se fossi viva. Non è viva.
Apre gli occhi e l'immensità del cielo che le si spalanca davanti la lascia senza fiato. Era stata nello spazio, o almeno così crede. Eppure davanti a sé le sembra ancora di vederli, veloci sprazzi di luce, i colori che le sfrecciano di fianco. Sente le voci, le risate, la serenità che le riempie il petto vuoto, prosciugato di ogni sensazione umana.
Percepisce le sue labbra stendersi in un sorriso, ma quando le sfiora delicatamente con la punta delle dita esse sono piegate verso il basso. Fa spinta sui gomiti e si tira a sedere, strizzando forte le palpebre quando una vampata di dolore improvvisa le attraversa la spina dorsale e risale fino alla base del cranio.
«Ci andrei piano se fossi in te. Hai preso una bella botta là sotto».
«Chi sei?» riesce a chiedere, e la voce le esce a fatica dalla gola riarsa. È bassa e roca, come se avesse appena smesso di urlare. Per quanto le riguarda, potrebbe anche essere vero. In ogni caso non lo ricorderebbe.
«Il mio nome è Gamora». Davanti a lei si materializza una donna vestita di nero, alta e magra, una mano allungata nella sua direzione in una muta offerta di aiuto. Esita un attimo prima di afferrarla. In passato non lo avrebbe fatto. Non ne ha la certezza, ma quella leggera sensazione allo stomaco è la cosa più vicina all'averne una. La scaccia, perché ora non importa più.
Si lascia sollevare e per un attimo barcolla nel tentativo di stare in equilibro sulle gambe tremanti, boccheggiando. Gamora la sostiene e le sembra di sentire ancora un calore sulla pelle che le è estraneo e così familiare allo stesso momento, un calore non solo fisico, un calore dimenticato.
Osserva la donna davanti a lei, le ciocche di capelli nere sfumate di fucsia che ondeggiano nell'aria come se non avessero nessun peso, gli occhi profondi, la pelle verde (si stupirebbe, ma è abbastanza convinta di aver visto cose ben più strane di quella). Vorrebbe presentarsi, (è buona educazione)(Gamora l'ha fatto), ma rimane bloccata rendendosi conto di non sapere il suo stesso nome.
«Stai tranquilla, tra poco starai di nuovo bene» si sente dire una volta che lei e Gamora si sono allontanate l'una dall'altra, «O qualcosa che ci assomiglia, se non altro».
«Dove siamo?»
Gamora fa schioccare la lingua contro il palato e si prende qualche secondo prima di rispondere, lo sguardo perso alle sue spalle. «Vormir. È un pianeta. È il pianeta dove-» si interrompe, inspira, espira, «è il pianeta su cui siamo morte».
Non si scompone (le hanno insegnato a non farlo, questo lo ricorda bene.), ma una piccola parte del suo cuore spento sprofonda. Non aveva mai sentito il bisogno di essere confortata da quel ritmo pulsante fino a quando non si era ritrovata ad affrontare il silenzio dato dalla sua mancanza. In fondo se lo aspettava. Lo aveva capito. O almeno è quello che si ripete.
«Tra qualche ora ricorderai» ancora una volta è la voce della donna a svegliarla dai suoi sproloqui mentali, «è successo anche a me».
«Come...?» le parole le muoiono in gola, fragili come le promesse che sa di non aver mantenuto.
Senza dire niente Gamora alza la testa verso la ripida rupe di roccia che si innalza imponente alle loro spalle, indicando con un dito la sporgenza che si affaccia sopra le loro teste. Non ha bisogno di parlare per farsi capire. Dev'essere stato un bel salto. Tra poco lo ricorderà.
Il vento si alza, le schiaffeggia le guance, ma lei non sente freddo. Non sente niente. Ribalta la testa all'indietro e lascia che le ciocche rosse dei suoi capelli le vortichino intorno alla testa come le fiamme si agitano sul rogo, bruciando e consumando tutto ciò che si mette sulla loro strada.
Gamora resta in silenzio, perché il silenzio funziona. Non c'è la necessità di intavolare una conversazione, di scambiarsi opinioni. Il silenzio fa bene ai ricordi, li aiuta a riaffiorare. E loro riaffiorano, lentamente, spezzando quella sottile barriera mentale che li rimanda indietro e invadendo la mente della donna, portando alla luce nomi, voci, urla, risate, sprazzi di volti sfocati che diventano più nitidi ogni minuto che passa.
«Natasha» sussurra, e il nome le rimane là sulla lingua, perfettamente al suo posto.
«Cosa?»
Sorride e lo sa, questa volta è per davvero. «Il mio nome è Natasha».
━ ☾ ━
«Dovrebbe essere ancora qui» dice Natasha guardandosi intorno. Il vento è sempre più forte e ora i capelli rosso fuoco le sbattono in faccia nonostante i suoi continui tentativi di spostarli dagli occhi per vederci qualcosa.
Gamora compie un giro su sé stessa lottando con le ciocche rosa che le entrano in bocca e non può fare a meno di dischiudere le labbra, inalando tutta l'aria fresca di cui i suoi polmoni non hanno più bisogno.
Se chiude gli occhi le sembra ancora di sentire la stretta di Thanos che si fa improvvisamente inesistente, il vento che le sferza le guance, il vuoto nel petto, il colpo.
Natasha era già lì prima di lei, anche se al momento della caduta non era riuscita a vederla [1]. Quando si era svegliata era semplicemente là, sdraiata di fianco a lei, immersa in una pozza di sangue ormai secco. Non sapeva quanto tempo fosse passato, forse giorni, mesi, addirittura anni. E Natasha era lì, così piccola, e non si svegliava. Gamora non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma il pensiero che non potesse aprire gli occhi per un attimo l'ha terrorizzata. Perché ha capito che da quel momento sarebbe stata l'unica persona con lei e, anche se ancora non la conosce, non può permettersi di perderla.
Nel silenzio sente un urlo, e quando si gira Natasha sorride mentre indica con la mano una navicella nascosta tra le rocce. A Gamora basta un secondo per analizzarla, e la ricorda, la ricorda molto bene.
La Milano [2] non le è mai sembrata più spenta e priva di vita. Niente più musica massimo volume, niente più voci che si sovrappongono, neanche il fastidioso bip bop del videogioco di Groot. Non ci sono più nemmeno le cassette di Peter, chissà dove sono finite.
Peter. Il suo cuore immobile si stringe in una leggera morsa di ferro, ma dura un attimo. Si costringe ad alzare la testa, comportarsi normalmente, ma è difficile non pensare all'uomo che le ha cambiato la vita.
Forse è ancora in giro per la galassia con Groot, Rocket, Mantis e Drax. Forse è tornato sulla terra a cercare le suo origini. Forse... Gamora non vuole nemmeno pensare alla terza opzione.
Soffoca la paura e osserva Natasha aggirarsi circospetta tra i sedili contemplando attentamente tutto ciò che le capita a tiro, senza riuscire a trattenere un sorrisetto quando la donna si ferma davanti alla poltrona di Star Lord e resta incantata ad osservare gli innumerevoli pulsanti e manopole.
«Immagino che sia una delle tue prime volte su una navicella» si decide a rompere il silenzio, incrociando le braccia al petto.
Natasha si stringe la testa tra le spalle e annuisce piano. «In realtà è la terza volta che ne vedo una, ma non avevo mai avuto l'opportunità di osservarla da vicino. Sai, ora è diverso... Mi sembra di avere tutto il tempo del mondo».
Gamora capisce, ma non risponde, riportando la conversazione al motivo principale di tutto quello. «Quindi mi hai detto che devi andare sulla terra?»
«In America. A New York, per la precisione. I miei compagni dovrebbero essere là».
Gamora non ha la più pallida idea di cosa sia l'America né tanto meno New York, ma si siede ugualmente al posto di guida (al posto di Peter) e prende i comandi mentre Natasha si siede nel posto alla sua sinistra.
I motori scoppiettano tentennanti per qualche secondo, ma alla fine si accendono definitivamente e la navicella si solleva.
Con la coda dell'occhio Gamora vede Natasha conficcare le unghie nel bracciolo del sedile, decisamente poco a suo agio.
«Allora, nessuno di speciale a terra?» chiede con un sorriso, ma lo nasconde subito quando Natasha strige le labbra e socchiude gli occhi, improvvisamente cupa.
Scende di nuovo il silenzio, uno di quei silenzi carichi di imbarazzo che hanno bisogno di essere spezzati.
«Sai...» comincia a dire indecisa, «Prima di... beh, prima di Vormir... c'era un ragazzo. Si chiamava Peter, era un gran pirla alle volte, devo ammetterlo. Eppure-»
«Gamora, senti, ho capito dove vuoi arrivare, davvero. É che preferirei non parlarne al momento» la interrompe Natasha guardando oltre al vetro davanti a sé i colori risucchiarle nello spazio come un vortice.
Le parole restano tra di loro, aspettano il loro momento di uscire, di farsi sentire.
Ma fino a quel momento procedono nella quiete, tra le luci del cielo, a dividerle solo i segreti, il passato e lo schermo tra i sedili che riporta la data di quel giorno.
24 aprile 2023. [3]
━ ☾ ━
Non ha mai pensato al suo funerale prima di allora. O meglio, ci ha pensato, quando era ancora semplicemente Tony Stark, il miliardario playboy filantropo che nella vita non si faceva mancare nulla.
Se l'era immaginato grande, enorme in realtà, qualcosa di degno di uno come lui. Magari al centro di New York, con tutta la città a piangerlo e ad onorarlo, con parate e cerimonie che sarebbero durate giorni.
Di certo non si sarebbe immaginato di assistervi, totalmente impotente, guardare le lacrime delle persone a lui care, perché alla fine quella cerimonia in riva al lago è tutto quello che dalla sua vecchia vita non si sarebbe mai aspettato.
Pensa che in fondo è cambiato, e sa di aver ragione a pensarlo. Il Tony Stark di cinque anni prima non avrebbe mai avuto il coraggio di scagliarsi contro Thanos, prendere quelle maledette gemme e schioccare le dita. Nella sua mente rivive quel breve attimo in cui il suo sguardo ha accarezzato il panorama intorno a sé e si è fermato là, su quell'unico dito alzato. 1 su 1400605. Era poco, ma a Tony era bastato.
Ci sono tutti al funerale. Non è più il tutti che avrebbe inteso prima, è il tutti che desidera ora. Ci sono Pepper e Morgan, inginocchiate davanti a tutti, le lacrime agli occhi. Ci sono Rhodey e Happy, uno di fianco all'altro, e Steve, lo sguardo di chi si sta trattenendo per non scoppiare. Vede il ragazzo, Peter, con sua zia May, Thor, il dottor Hulk, anche Strange è là, le mani unite compostamente, affiancato dal suo compagno Wong. Sparsi dietro di essi non mancano nemmeno i Guardiani della Galassia, stretti uno affianco all'altro, impegnati probabilmente a tenere insieme i pezzi per un'altra perdita per loro altrettanto importante. La famiglia Pym, i sovrani di Wakanda, i Barton, sono tutti là per lui. Sam, Wanda, Bucky, la HIll, Fury e persino Carol Danvers, quella supereroina che non avrà mai l'opportunità di conoscere come si deve. Scorge la testa di un ragazzo, e vi riconosce Harley, il ragazzino (ormai cresciuto) con l'orologio limited edition di cui non potrà mai dimenticarsi.
Cammina intorno alla lunga fila senza avere la forza di passarvi in mezzo, di avvicinarsi a chi ha bisogno solo di sentire la sua voce, perché troppa è la paura che ha di realizzare di essere effettivamente morto, di non poter fare più nulla per lenire il dolore.
La zattera con il suo cuore immerso nei fuori si allontana, barcollando tra le onde placide del lago su cui si affaccia la sua casa con la calma di chi sa di avere l'eternità che le si apre davanti, un piccolo puntino nell'immensità della distesa d'acqua.
La folla si dirada, alcuni se ne vanno, alcuni restano, si consolano, si cercano. Cercano coloro che non possono più avere, i loro sguardi si perdono dietro sprazzi di ricordi che non sono altro che illusioni, i cuori sprofondano, le lacrime scendono.
Il ragazzo (il suo ragazzo) si avvicina alla riva, solo, si piega afferrandosi le ginocchia e le stringe forte al petto come se fossero il suo unico modo di tenere insieme i pezzi, il volto contratto. Tony gli si accosta, invisibile, silenzioso come un ricordo, e Peter piange, la testa tra le ginocchia, le spalle che tremano sotto al peso dei singhiozzi che lo prendono al petto, là dove il cuore batte impetuoso, giovane e forte, intriso di nostalgia.
Tony guarda di nuovo il cesto di fiori, ormai lontano, e capisce che è là, eccola la prova. Se n'è andato davvero, e non c'è modo per lui di tornare indietro.
━ ☾ ━
Camminano in silenzio nel bosco, una accanto all'altra, evitando i rami sparsi sul sentiero che porta alla tenuta di Tony Stark. A quanto pare New York non era mai stata la meta giusta, Natasha l'aveva capito dal primo momento in cui vi avevano messo piede.
Era di nuovo quella di un tempo, brulicante di vita, la città che non dorme mai. Ce l'hanno fatta, aveva pensato, e il suo cuore si era fatto più leggero, ma quando erano arrivate davanti alla Tower era troppo silenziosa, e Natasha aveva capito che qualcosa non andava.
Salta leggermente per evitare una radice, pensando che Tony non avrebbe mai rinunciato ad una festa dopo aver vinto, o che se non altro non avrebbe mai perso l'occasione di mostrare al mondo le sue imprese.
«Siamo quasi arrivate» comunica a Gamora dopo circa dieci minuti da quando sono partite. Hanno lasciato la Milano (Natasha ha scoperto che è quello il nome della navicella) nascosta tra gli alberi, a debita distanza dalla casa per evitare che qualcuno la vedesse o che si facesse domande su come una nave spaziale potesse essere arrivata senza nessun guidatore.
«Sicura che siano qui?»
«Se non sono qui allora non so dove altro cercare» sospira, ripensando brevemente all'Avengers Facility, la sua casa per cinque anni, ridotta ad un cumulo di macerie.
Quando arrivano alla casa di Tony il sole è ancora alto, ma quando la colpisce Natasha non ne sente il calore. La porta è chiusa, le luci spente, ma quella è la sua ultima opzione e devono essere là. Ha bisogno di rivederli tutti almeno un'ultima volta, Clint, Tony, Steve.
Deglutisce, lancia uno sguardo a Gamora e comincia a girare intorno alla casa seguita dalla donna, improvvisamente spaventata da ciò che potrebbe trovarsi davanti. Svolta l'angolo rimane paralizzata.
Il giardino dietro casa Stark è pieno di persone, i suoi amici, alcune facce che non riconosce, alcune solo un ricordo sfocato. La tristezza del luogo la invade come una folata di vento, e quella la sente scivolarle sulla pelle, gelida. Ci sono tante, troppe giacche nere, neanche lei ne ha mai viste così tante in vita sua. Le giacche nere vogliono dire una sola cosa, e Natasha lo sa che quel funerale non è per lei.
Le basta vedere la piccola Morgan sul pontile, stretta tra le braccia di Pepper, e si deve appoggiare alla staccionata per non cadere a terra. Gamora, alla sua sinistra, trattiene il fiato quando fa scorrere lo sguardo sui presenti, e a Natasha non serve molto per capire chi ha visto.
Respira forte, rimettendosi in piedi barcollante. «Vai da lui».
«Stai bene?» le chiede Gamora lanciandole uno sguardo preoccupato, e lei annuisce. È brava a mentire, si stampa un sorriso in faccia, piega la testa di lato, annuisce di nuovo.
«Vai da lui» ripete, e questa volta la donna se ne va senza darle le spalle fino a quando non è ormai lontana, lasciandola sola. Quando è sicura che nessuno possa vederla (e con nessuno intende Gamora)(perché in fondo nessun altro oltre a lei può vederla per principio) si lascia scivolare con la schiena contro il legno fino a quando non tocca l'erba umida.
Resta là, immobile, incapace di pensare a niente. Non ha nessuno da cui andare in fondo, o forse non ha la forza di ritrovarsi faccia a faccia con i fantasmi della sua vita.
Non ha la forza di andare da Clint, guardare i suoi occhi pieni di sensi di colpa, non riesce a sentire i singhiozzi di Lila, attaccata a Laura con tutte le sue forze in cerca di conforto. Non vuole vedere il dolore nell'espressione di Steve, perché sa che non è capace di nascondere ciò che prova e che in parte quel dolore è anche colpa sua.
Sente gli occhi bruciare e per la prima volta non vi da peso, lasciando che alcune delle tante lacrime che vorrebbe (che dovrebbe) piangere le scivolino giù per le guance pallide. Tiene lo sguardo avanti senza davvero guardare qualcosa, gli occhi liquidi che vagano tra i volti ma che non li vedono.
Non si accorge neanche dei passi alle sue spalle, quel ritmo zoppicante che con gli anni riuscirebbe a riconoscere ovunque.
«Wow, la famigerata Vedova Nera ha anche dei sentimenti» sente dire all'improvviso, e non può fermare quel debole sorriso che nasce spontaneo sulle sue labbra.
«Sicuro? Potrebbe essere un'illusione ottica». Lo guarda in faccia e non pensa neanche ad asciugarsi gli zigomi umidi perché Tony non li sta guardando. Guarda la riva del lago, perso anche lui nei suoi pensieri, gli occhi lucidi che fanno da specchio alle acque limpide.
Gli si avvicina titubante e lui non si sposta. Anzi, quando si accorge di lei così vicina le passa un braccio sulle spalle, come se fosse lei quella che ha bisogno di conforto. Un gesto veloce, semplice, ma sa che è il massimo che può offrire, e in fondo non desidera niente di più di quello.
«Cosa faremo ora?» le chiede Tony con un fil di voce.
«Suppongo che sia il momento di scomparire davvero».
Si schiarisce la gola mentre il petto di Tony trema sotto la sua testa, ma si trattiene dal girarsi, sa che non lo apprezzerebbe. Restano in piedi e aspettano che sia il loro momento di andare, di scomparire per sempre.
Anche Gamora torna, le lacrime agli occhi e un sorriso che le illumina il volto. Si guardano e lo sanno senza doverlo dire ad alta voce. È l'ora di andare. Salutano tutti con lo sguardo, senza fiatare, e si voltano, camminando insieme nel bosco, si allontanano, con un sorriso salato che è l'ombra di quello che sono stati.
━ ☾ ━
[1] in realtà nel film di Endgame finito non si vede, ma nella scena alternativa della morte di Nat c'è un breve momento in cui in lontananza si vedono apparire Thanos e Gamora, per cui ho dedotto che temporalmente potesse essere così anche nel film originale.
[2] non sono sicura che sia la Milano la navicella con cui Natasha e Clint sono arrivati su Vormir, anzi sono abbastanza convinta che non lo sia, però essendo più "vicina" a Gamora ho pensato di metterla.
[3] nessun riferimento al film, solo che volevo mettere una data e allora ho scelto quella dell'uscita di Endgame al cinema.
io ci ho provato a non deprimermi ma ehi, that's me ;-;
non so quando aggiornerò di nuovo questa storia, probabilmente quando mi verrà in mente qualcosa di un po' più romanogers e un po' meno deprimente, anche perché in questo momento avrei voglia di suicidarmi ma ovviamente non l'ho detto altrimenti Mike051607 mi ammazza.
e già che ci siamo ringrazio romxnogerx perché sennò col cavolo che la posterei sta storia, luv u.
━giuls
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