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Past (1)

Quel giorno era un venerdì pomeriggio di metà luglio, un giorno di vacanza estivo come tanti altri, e io, stipato in quella stanza angusta dalle otto del mattino, privo di aria condizionata o ventilatori e circondato da polvere e muffa, ero intento a valutare quale dei tanti ventagli decrepiti in vendita fosse il più adatto per salvarmi dallo scioglimento.
Purtroppo, nessuno.
Alla fine dovetti accontentarmi del volantino di un ristorante thailandese, lasciato proprio quella mattina nella cassetta delle lettere.

Infatti già allora lavoravo part time in quel negozio di antiquariato.
In particolar modo in quel periodo, in cui non ero occupato a causa della scuola, passavo quasi tutte le mie giornate chiuso lì dentro.
Dal lunedì al mercoledì era dalle due del pomeriggio fino alle sette e mezza, invece il giovedì e il venerdì facevo orario continuato, iniziando alle otto del mattino con una pausa di un'ora dall'una alle due.
A settimane alterne lavoravo anche di sabato, ma solo la mattina.

Insomma, diciamo che d'estate quel posto diventava la mia seconda casa.
E diciamo che, non fosse stato per il fatto che lì dentro si soffocava, non sarebbe stato neanche chissà quanto male.
Dopotutto, di clienti non ce n'erano quasi mai. Se le cose andavano proprio bene, nell'arco di tutta una giornata ne entravano cinque.
E così passavo tutto il tempo ad ascoltare musica alla radio, giocare alla Nintendo e curiosare in giro, alla ricerca di qualcosa di un po' più interessante di vecchi mobili divorati dalle tarme e quadri antichi dal dubbio gusto estetico.

L'età media dei nostri clienti era di sessantacinque anni e così, o perché non ci sentivano o perché facevano fatica a parlare, non dovevo neanche sforzarmi più di tanto di intavolare una conversazione con loro o intrattenerli in alcun modo.
Entravano, mi chiedevano quello che volevano o si mettevano semplicemente a girare per un po' alla ricerca di qualcosa, poi mi indicavano l'oggetto desiderato, io lo incartavo, prendevo i soldi, davo lo scontrino e "arrivederci, a presto".

Certo, quella non sarebbe stata un'estate memorabile, ma non mi lamentavo.
Per essere felice mi bastava avere la mia console, la mia radio e la consapevolezza di avere davanti a me un altro mese e mezzo di astinenza da qualsiasi tipo di interazione sociale che non riguardasse la signora Perez, i miei cinque clienti giornalieri ultrasessantenni, mia madre e il mio procione.

O almeno questo era ciò che pensavo.
Infatti quella situazione così monotona, quasi di limbo, ebbe vita breve. Per la precisione, durò fino a quel venerdì pomeriggio di metà luglio.

Dovevano essere circa le quattro, perché il caldo stava iniziando a rendere il negozio quasi asfissiante, quando sentii il classico tintinnio del campanello appeso alla porta d'ingresso.

Alzai lo sguardo dalla Nintendo.
Scusami Link, solo un momento e sarei tornato da te. Nel frattempo, vedi di non farti ammazzare.

- Buongiorno. -

Salutai, infilando subito la console in uno dei cassetti del bancone e sollevando lo sguardo verso il nuovo cliente.

Alzai lo sguardo verso l'ingresso e lui diresse il proprio verso di me.
Ci osservammo in silenzio per alcuni istanti, senza dire nulla.
Eravamo rimasti entrambi spiazzati.

In tanti mesi di lavoro, non avevo mai visto, neanche per sbaglio, un adolescente che non fossi io mettere piede lì dentro.
Quasi stavo per dare voce a quel pensiero, quando lui mi precedette:

- Wow. Pensavo che qui ci lavorasse una specie di Babbo Natale in ferie... E invece c'è uno dei suoi elfi. Ti hanno chiuso qui come punizione per aver esagerato con latte e biscotti? -

Commentò con un sorriso sghembo un Austin Richmond quattordicenne.

Il cliente ha sempre ragione, Nicholas.
Ricorda che il cliente ha sempre ragione.
Ora sorridi e annuisci. Sorridi e annuisci. Non fare nulla che non sia sorridere e...

- Ebbene, è proprio così che è andata. Sei proprio arguto, Ken. Un momento, ma tu sei proprio il Ken che il boss stava cercando ieri sera! Per caso hai visto in giro la Barbie cavallerizza? Ci sono alte probabilità che questo Natale una bambina vi chieda in coppia, così ci stiamo portando già avanti con il lavoro. -

Ottimo lavoro, Nicholas. Davvero molto maturo da parte tua.

Il biondino però non sembrò offeso o scandalizzato da quella risposta. In un primo momento si limitò ad osservarmi interdetto, sorpreso che gli avessi risposto per le rime. Poi però, di punto in bianco, tutto il suo viso si contrasse e lui scoppiò in una fragorosa risata.

Il suo sorriso, unito alla risata, non aveva nulla di particolarmente rilevante. Di certo non era il più contagioso che avessi mai visto, nè il più bello, il più fastidioso, il più autentico o il più falso.
Eppure, per qualche motivo al momento a me sconosciuto, non appena la sua risata si esaurì e gli angoli delle sue labbra tornarono lentamente alla loro posizione neutra, provai il forte desiderio di dire qualcos'altro che lo divertisse al punto da farglielo rifare.

Invece non dissi nulla e attesi che lui si avvicinasse al bancone.

- Sono venuto su ordine di mio padre. - Mi spiegò. - Dovrebbero essere arrivati dei dischi in vinile che aveva ordinato. Si chiama Spencer Richmond. -

- Un momento, vado a vedere se sono sul retro. -

Dissi, allontanandomi dal bancone e scomparendo dietro la porta che conduceva a un piccolo stanzino, ingombro di scatoloni e oggetti troppo rovinati per essere messi in vendita prima di averci fatto una restaurazione come si deve.

- Trovato. -

Dissi solo un paio di minuti dopo, uscendo trionfalmente dallo stanzino con un pacchetto tra le mani con su scritto il nome del padre del ragazzo.

- Ci sono tutti e cinque? -

Chiese il biondino, mentre io gli porgevo il malloppo.

- Ehm... Non saprei. Meglio se controlli. - Mormorai. - Comunque tuo padre li ha già pagati tutti al momento dell'ordinazione, quindi se manca qualcosa lo avvertiremo appena arriva. -

Il ragazzo aprì subito il pacchetto e si mise a contare uno ad uno gli enormi dischi contenuti al suo interno.

- Uno, due... - Lo sentii mormorare tra sè e sè. - Tre... E quattro. Sì, ne manca uno. -

Concluse, sollevando lo sguardo.

- Allora appena arriverà manderemo un messaggio a tuo padre. -

- D'accordo, glielo dirò. -

Disse, facendo come per dirigersi verso l'uscita. Ma, compiuti solo un paio di passi, si voltò di scatto verso di me e disse:

- Dato che probabilmente verrò di nuovo mandato io a ritirarlo, per la prossima volta vedi di mettere un ventilatore. Qua dentro si schiatta, sembra di stare in una sauna! -

- E se a me le saune piacessero? -

- Allora me ne farei una ragione. - Rispose con una scrollata di spalle. - Sia della sauna, sia del fatto che ci tieni ad avere sempre l'ultima parola. -

- Ehi, questo non è vero! -

Replicai, guardandolo stizzito.

Lui rispose con una risatina, quindi, proprio quando stava per andare via una volta per tutte, si voltò nuovamente verso di me, così di scatto da farmi sussultare.

- Un attimo! - Esclamò, riavvicinandosi al bancone. - Mio padre vi ha dato il suo nuovo numero, vero? -

Scossi il capo. Poi però, dato che forse poteva averlo fatto in un momento in cui al negozio c'era solo la signora Perez, presi dal cassetto più in basso l'agenda che lei usava per appuntare i numeri di telefono dei clienti e ne scorsi le pagine fino ad arrivare alla lettera R.

- C'è solo questo. -

Dissi mostrando la pagina al ragazzo, mentre indicavo il numero in questione.

Lui lo osservò per mezzo secondo, quindi scosse il capo e prese una matita dal contenitore posto sul bancone.

- Adesso è questo qui. -

Mormorò, mentre scriveva un numero subito sotto quello sbagliato, per poi scarabocchiare su quest'ultimo fino a renderlo illeggibile.

- Oh, d'accordo. Grazie. -

Dissi, osservando la sua mano sottile e abbronzata mentre riponeva la penna  nel contenitore insieme alle altre.

- Allora a presto! -

Esclamò, raggiungendo finalmente l'uscita.
Io risposi con uno "speriamo di no" appena borbottato. Qualcosa però mi disse che, nonostante l'avessi detto a bassa voce, lui fosse riuscito a sentirlo, dato che, un attimo prima di mettere la mano sulla maniglia, si voltò verso di me e sorrise.
Poi sparì dietro la porta a vetri, con il fastidioso tintinnio di quella campanella come sottofondo.

Sinceramente non pensavo che sarebbe tornato davvero. Fossi stato in lui, pur di non incontrare nuovamente quello scorbutico del cassiere, avrei convinto mio padre (non appena avesse finito di prendere il tè con gli alieni, ovviamente) di andarseli a prendere da solo i suoi dischi in vinile.
Ero convinto che quello sarebbe stato il nostro primo e ultimo incontro.
Che magari in futuro ci sarebbe capitato di incrociarci per strada, e allora noi, riconoscendoci, ci saremmo semplicemente rivolti un piccolo cenno con il capo, per poi proseguire per le nostre rispettive strade.

E in effetti un giorno sarebbe andata proprio così, tuttavia, prima che quel momento arrivasse, ne sarebbero trascorse di settimane.
Settimane piene di battibecchi e frecciatine, di battutacce e commenti idioti, di dischi in vinile e fastidiosi scampanellii.

Quell'estate l'età media dei clienti del negozio di antiquariato scese drasticamente (da sessantacinque a cinquantacinque, più o meno) e il numero massimo di persone che facevano il loro ingresso nell'arco della giornata aumentò da cinque a sei.
Ci misi circa un mese per scoprire che in realtà la busta che quel giorno avevo consegnato a Richmond Junior conteneva tutti e cinque i dischi ordinati da Richmond Senior e che il numero di telefono che il quattordicenne mi aveva scritto sull'agenda non era affatto quello del padre, ma il suo.
E sì, anche se non mi sarei mai sognato di dirlo ad alta voce (men che meno a lui), devo ammettere che all'epoca queste due scoperte mi fecero un po' (giusto un po', eh) piacere.

- Che scuola frequenterai a partire da settembre? -

Mancava poco più di una settimana alla fine delle vacanze estive quando Austin mi fece questa domanda.

- Alla Dawson. -

Risposi, aggrottando la fronte perplesso quando lo vidi arricciare le labbra, come se non fosse soddisfatto della mia risposta.

Fu questione di un attimo, però, perchè subito tornò a rivolgermi uno dei suoi soliti sorrisi placidi e rilassati, dicendomi che anche lui sarebbe andato lì.

Al momento non diedi troppo peso alla sua reazione iniziale, ma con il passare del tempo iniziai a ripensarci sempre più spesso, rumurginandoci su come se studiando mentalmente la sua espressione indispettita prima o poi sarei riuscito a coglierne il significato. In particolar modo mi scoprii a pensarci piuttosto di frequente nei giorni subito precedenti al mio debutto nella scuola superiore.

- Ehi, ci sei? -

Sette in punto di venerdì sera.
Due giorni all'inizio della scuola.

- Come? -

Replicai, strabuzzando gli occhi nel momento in cui lui schioccò le dita davanti al mio viso.

- Ti avevo detto di alzarti un attimo. Potrebbe esserci qualcosa di interessante in quella cassa. -

Spiegò, indicando il contenitore in legno su cui mi ero seduto.

Eravamo sul retro, alle prese con i nuovi arrivi.
Solitamente quello era un lavoro di cui si occupava la signora Perez, frugare negli scatoloni appena arrivati e decidere cosa mettere subito in vendita e cosa invece necessitare prima di una restaurazione, tuttavia per quella volta aveva affidato a me il compito.
Di conseguenza, non appena Austin si era affacciato e lo aveva scoperto, si era offerto per darmi una mano.

Io avevo accettato il suo aiuto di buon grado. Non avevo idea di cosa fosse esattamente a renderlo così entusiasta all'idea di mettere il naso tra vecchi mobili polverosi, ma finchè poteva liberarmi da un po' di lavoro extra, andava più che bene.

- Certo. -

Borbottai, alzandomi in piedi con uno sbuffo. Mi stavo davvero sciogliendo.
Altro che sauna, quel caldo proveniva direttamente dalle fiamme dell'inferno.

- Sai, non ti farebbe male buttare giù un po' di ciccia. -

Commentò, forse notando la mia aria affaticata.

Aveva ragione. Sapevo perfettamente che aveva ragione. Se la mia bilancia avesse avuto fattezze umane, in quel momento si sarebbe messa a fischiare, lanciando ad Austin fiori e coccarde. Tuttavia, al tempo stesso sapevo perfettamente che solo mia madre poteva permettersi di dirmi una cosa del genere.

- Questa non è ciccia. È personalità. Ne ho così tanta che straborda da tutte le parti. -

Esclamai, agguantando con entrambe le mani un rotolo di ciccia della pancia e rimirandomelo come se fossi soddisfatto del mio operato.

- Stai forse insinuando che io ne sia privo? -

Ribattè il cretino, portandosi una mano al petto con uno sguardo mortificato in volto.

- Sto insinuando che se continuiamo questa conversazione, presto potrei non rispondere più delle mie azione. -

- Quindi... È un no? -

- Se tu mi promettessi in cambio di permettermi di cucirti la bocca con ago e filo, potrei farci un pensierino. -

- È un no. -

Ripetè, questa volta come affermazione, schioccando la lingua indispettito.

Di cosa esattamente fosse indispettito, però, lo sapeva solo lui.

Ad ogni modo, avendo ormai chiuso la questione, smisi di pensarci e mi abbassai sulle ginocchia per vedere cosa ci fosse nella cassa che Austin aveva appena aperto.

Nulla di che: una decina di piccoli libri dalle copertine logore in pelle, una scatola di latta contenente gingilli vari e poi, quasi un pugno in un occhio in mezzo a tutta quella roba antica, una grande busta di plastica del supermercato, argentea e gonfia proprio come una zecca.

- Vediamo cosa c'è qui... -

Mormorò lui, tirando fuori la busta e guardando al suo interno.
Vidi i suoi occhi sgranarsi dalla meraviglia e subito ruotò la busta, mettendola a terra orizzontalmente.

- Cos'hai trovato? -

Chiesi, provando ad affacciarmi oltre la sua spalla.

Senza dire nulla, Austin infilò una mano nella busta e con l'altra ne strinse il bordo, iniziando a sfilare qualunque cosa si trovasse al suo interno.

Viste le premesse, mi aspettavo qualcosa di sorprendente, a dir poco mozzafiato. Una sorta di reperto antico, talmente importante e prezioso che quasi si sarebbe potuta valutare l'idea di donarlo al museo locale.

Invece era solo un giradischi.

- Ma che figata! - Esclamò il biondo, rimirandoselo a dir poco entusiasta. - È un grammofono! -

Ruotai gli occhi.
Certo, non si poteva negare che i grammofoni avessero un certo fascino, tuttavia non erano chissà quanto rari. Lì in negozio ne avevo almeno altri due quasi identici a quello. Ma poi, vista la passione del signor Richmond per i dischi in vinile, com'era possibile che Austin si emozionasse tanto per una cosa del genere? Non doveva essere la norma a casa sua?

- Mio padre ha dei giradischi, ovviamente. - Disse, non appena notò il mio sguardo perplesso. - Ma sono tutti un tantino più moderni di questo. Sono tipo a scatola, hai presente? Non hanno il... Questo coso qui... L'imbuto, insomma. -

Non ero un esperto di giradischi, ma qualcosa mi disse che tra un imbuto e quello che Austin stava indicando ci fossero più differenze che punti in comune. Tuttavia, per non iniziare l'ennesimo battibecco, non dissi nulla.

- Credo che a mio padre potrebbe interessare. - Disse rimettendolo a terra con cura. - Pensi che funzioni ancora? -

Alzai le spalle. Anche se lavoravo lì da parecchi mesi, non significava che avessi preso dimestichezza con gli oggetti in vendita. Solitamente i clienti con cui avevo a che fare ne sapevano molto di più di me.

- Fa niente, lo prendo lo stesso. - Decise con una scrollata di spalle. - Sono certo che almeno apprezzerà il pensiero. Sai, tra qualche giorno è il suo compleanno. -

Aggrottai la fronte.
Se era un regalo, significava che l'avrebbe pagato lui, no?

- Sai... Non credo abbia molto senso regalargli qualcosa comprato con i soldi che lui stesso ti avrà dato tramite paghette e regali vari. -

Commentai.

Lui alzò lo sguardo al cielo.

- Come ho già detto: apprezzerà il pensiero. - Quindi lo rimise nella busta e si alzò in piedi. - Quanto costa? -

- Di solito i grammofoni si aggirano sui cento dollari. Ma alcuni arrivano anche a duecento. -

Per un attimo temetti che avrebbe lasciato cadere la busta a terra.
Per fortuna però si accorse in tempo dell'errore che stava per commettere e si affrettò a rinforzare la stretta sul manico.

- D'accordo... - Mormorò, facendo un respiro profondo. - Allora chiedi al boss il prezzo esatto e poi fammi sapere. -

Mi veniva sempre da ridere quando lo sentivo riferirsi alla signora Perez come al "boss". Le dava quasi un'aria minacciosa. Inconciliabile con la dolce vecchietta che era in realtà.

Ad ogni modo, annuii e gli promisi che glielo avrei chiesto appena possibile.

Quella fu l'ultima volta in cui ci incontrammo all'interno di quel negozio. L'ultima volta che lo vidi prima che arrivasse quel giorno. Il giorno in cui venne segnata la fine di quello strano, quasi surreale, periodo della mia vita. Il giorno in cui tutto cambiò e finalmente vidi Austin Richmond per ciò che era davvero.
Improvvisamente smise di essere il bel biondino fastidiosamente simpatico dal senso dell'umorismo osceno e la risata angelica per il quale, già da un po' di tempo, avevo capito di avere una cotta e si presentò ai miei occhi semplicemente come ciò che era in realtà: un emerito stronzo.

Quel giorno era domenica sera e, evento più unico che raro, io ero uscito di casa. Certo, solo per andare a prendere da mangiare al fast food dietro casa, ma l'importante era solo quello: il fatto che io fossi uscito.
Quante possibilità ci potevamo essere che, la prima volta che uscivo di casa di sera nel corso degli ultimi due mesi e per fare un tragitto di appena cento metri andata e ritorno, incrociassi proprio le uniche persone che non avrei assolutamente dovuto incrociare?
Mi verrebbe da dire: "infinitamente basse", ma il mio cognome ha un'opinione diversa al riguardo.
Se può accadere qualcosa di brutto, allora accadrà di sicuro, indipendentemente da quanto possano essere basse le probabilità.

Ebbene, incrociai Austin. Ma non solo lui. Intorno al biondino c'era un piccolo sciame di ragazzi, due maschi e due femmine, che gli ronzavano intorno come le falene con una lampadina.

Non appena lo vidi mi illuminai (sempre rimanendo in tema con la lampadina) e mi ricordai che ancora dovevo dargli una risposta per quanto riguardava il prezzo di quel grammofono. Infatti la signora Perez ci aveva messo più tempo del previsto a valutarlo e alla fine, dopo aver constatato che non fosse più funzionante, aveva decretato che il suo prezzo fosse di trentacinque dollari.
Dovevo assolutamente dargli la notizia il prima possibile.

Così mi diressi verso di lui senza pensarci due volte.
Per un attimo lui incrociò il mio sguardo, ma non ebbe alcuna reazione e subito tornò a rivolgersi alla biondina che gli stava accanto.

Pensai che non mi avesse notato, dopotutto si stava facendo buio, così mi avvicinai ulteriormente.

- Ehi, Austin! -

Esclamai.
Ma lui, anzichè fermarsi o dare un qualsiasi altro segno di aver notato la mia presenza, continuò a camminare.
Mi passò accanto e mi superò, senza battere ciglio.

- Ehi. - Attirò la sua attenzione un ragazzo, provando a fermarlo mettendogli una mano sulla spalla. - Quel tipo non ti ha appena chiamato? -

-  Si sarà confuso o semplicemente non ce l'aveva con me. - Replicò lui, divincolandosi dalla stretta dell'amico e proseguendo. - Io non lo conosco. -

Improvvisamente mi fu chiaro il perché di quell'espressione sofferta quando aveva scoperto che avremmo frequentato la stessa scuola.
E anche perché qualche giorno prima mi avesse proposto, presentandolo quasi come una semplice presa in giro, di liberarmi di un po' della mia ciccia.

Ma certo, come avevo fatto a non capirlo prima?
Si vergognava di me, ovviamente.
Finchè eravamo in quel negozio di antiquariato non c'era alcun rischio, perchè lì nessuno che non fosse un piccolo manipolo di vecchietti avrebbe potuto vedere il bellissimo e popolarissimo Austin Richmond divertirsi con uno sfigato qualunque.
Ma fuori di lì, per strada, e per giunta in presenza dei suoi amici... Oltraggio alla corte! Chi mi aveva dato il permesso di rivolgergli la parola?

Lunedì mattina, prima di andare a scuola, passai davanti a casa Richmond e lasciai vicino alla cassetta delle lettere un pacco.
Conteneva il grammofono e un biglietto, in cui dicevo che avrebbe potuto darmi i trentacinque dollari tramite suo padre e che quel giorno, anziché a scuola, se voleva poteva contattarmi per farsi portare in un'altra località a sua scelta tra "quel paese" e "fanculo".

La cosa positiva è che non mise mai più piede nel negozio di antiquariato.
La cosa negativa è che un po' (ma giusto un po', eh) mi dispiacque.

Ero convinto che da quel momento in poi il nostro rapporto, di qualunque cosa si fosse trattata, si fosse definitivamente troncato.
Ma poi, intorno a febbraio, Grace pensò bene di dare una festa e invitare tutte le matricole.
E io pensai bene di partecipare.

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