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Hester Foster

Se un albero cade in una foresta dove non c'è nessuno che lo può sentire, fa comunque rumore?

Se quando passi nessuno si volta per salutarti, se quando parli nessuno ti sente, se quando ridi, piangi o compi un qualsiasi altro tipo di azione nessuno lo nota... Esisti lo stesso?

È stupido avere paura di guardarsi allo specchio?
Sento sempre uno strano brivido quando mi accingo ad osservare il mio riflesso, perché temo che non sarà mia l'immagine che mi ritroverò davanti. E in effetti, ogni singola volta, è proprio questa l'impressione che ho: che quel volto, o meglio, che tutto quel corpo non mi appartenga.
Anche se ovviamente so bene che in realtà non è così, non riesco comunque a togliermi questa convinzione dalla testa.
Altre volte invece, temo semplicemente di non trovare nulla. Di sporgermi davanti allo specchio del bagno e vedere riflessa, anzichè quella faccia, la parete alle mie spalle.

Ogni tanto mi capita di sognarlo: io che mi specchio e vedo il mio riflesso scomparire lentamente, dissolversi diventando pulviscolo e poi disperdersi nell'aria.
Anche se il più delle volte mi sveglio con il cuore a mille da incubi di questo tipo, credo che, dopotutto, siano proprio i miei sogni preferiti...

- Hester, se non spegni subito quella lagna e non ti sbrighi a finire le tue cose, giuro che ti spacco il cellulare! -

Sussultai nel sentire quella sfuriata, accompagnata da un violento bussare sulla porta del bagno.
Si trattava di Judith, la mia adorabile sorellina di dodici anni.

- Se ti rimangi il modo in cui l'hai definita, potrei considerare l'idea di abbassare il volume. -

Replicai a gran voce, anche se già stavo allungando la mano verso il cellulare per togliere la musica. Effettivamente non ce n'era poi così bisogno in bagno, l'avevo lasciata semplicemente perchè la stavo ascoltando quando ci ero entrato.

- In che altro modo dovrei definire una canzone così lagnosa da essere diventata il meme per eccellenza delle situazioni deprimenti? -

All'udire quelle parole, il mio pollice si fermò a mezz'aria sopra il pulsante per chiudere l'applicazione, per poi spostarsi andando ad alzare ulteriormente il volume.

- And I find it kinda funny, I find it kinda sad. The dreams in which I'm dying are the best I've ever had... -

Sentii Judith emettere un buffo lamento di frustrazione dall'altra parte del corridoio, ma ormai il mio cellulare stava riproducendo "Mad World" ad un volume così alto che non sentii nè il rumore della maniglia che si abbassava, nè lo scalpiccio di quei piccoli passetti che si avvicinavano a me.
Se mi fossi reso conto di quell'intrusione, avrei sicuramente fatto qualcosa per rimediare alla strana posizione in cui mi trovavo: in piedi a gambe divaricate davanti alla tazza, alla ricerca dell'angolazione giusta in cui inclinare il bacino per farci entrare il getto, non avendo di fatto alcun pene da manovrare per lo stesso scopo.

Gridai dalla sorpresa quando d'un tratto sentii la mano di mia sorella infilarsi nella mia tasca, andando alla ricerca del cellulare.
Peccato solo che, sapendo che io mi sarei ribellato in fretta, lei agì così frettolosamente che alla fine, anzichè premere il pulsante di spegnimento, tenne premuto quello per alzare ulteriormente il volume, finchè non diventò qualcosa di insostenibile.

Fu proprio in quel momento, mentre lei urlava e scalpitava per raggiungere il cellulare da me appena alzato oltre la sua portata e io, con ancora i pantaloni calati, le urlavo contro di rimando, riuscendo a trattenerla a stento, che la porta si spalancò di scatto e ne fece capolino un undicenne dalla scompigliata chioma corvina.

- La volete smettere? - Si lamentò Jasper. - Danno più fastidio le vostre grida di questo lamento funebre! -

Judith scoppiò a ridere all'udire quella definizione, io invece sbuffai e finalmente tolsi la canzone.

- Ma perchè a lui dai retta e a me no? -

Mi chiese mia sorella, sgranando gli occhi incredula.
Le risposi con una scrollata di spalle e nel mentre strappai un pezzo di carta igienica per pulirmi, così da potermi finalmente tirare su i pantaloni.

Adesso che la situazione si era sistemata, iniziavo a scorgere qualcos'altro negli sguardi dei miei fratelli oltre allo scombussulamento dovuto a ciò che era appena successo. In particolar modo potevo vederlo negli occhi di Jasper, che sembravano dire "mettendo da parte il fatto che per qualche strana ragione si stava ascoltando quella lagna in bagno, cosa cavolo ci faceva mia sorella in piedi davanti al cesso con i pantaloni calati fino alle caviglie?".
Ma, senza neanche provare a dare loro un qualsiasi tipo di spiegazione al riguardo, a quel punto tirai lo sciacquone e, mentre mi lavavo le mani, dissi semplicemente:

- Adesso esco. -

Quindi, prima che loro potessero fare domande o reagire in alcun modo, uscii dal bagno, per andare a prendere giacca, cappello, scarpe e skateboard.

Una volta fuori di casa, infilai per quanto possibile i capelli nel cappello di lana e salii sullo skate, raggiungendo il parco nel giro di pochi minuti.
Come avevo previsto, a quell'ora era completamente deserto.
D'altronde, era raro che ai bambini fosse permesso di rimanere fuori intorno all'ora del tramonto e di venerdì sera gli adolescenti preferivano andarsene per locali piuttosto che stare in quel piccolo parco così lontano dal centro città.

Mentre facevo qualche giro in pista, ripensai a quello che era accaduto poco prima con Judith.
Ovviamente non ce l'avevo con lei per una sciocchezza del genere, però non potevo negare che mi avesse dato un po' fastidio, sia per come si era comportata lei, sia per come avevo reagito io.

Ultimamente mi accadeva sempre più spesso di perdere la pazienza per delle scemenze, senza quasi che io stesso ne comprendessi il motivo.
Forse però, era proprio lì che stava il problema. In quel "io stesso".
Fino a poco tempo prima, avevo sempre pensato alla mia famiglia come alle uniche persone con le quali riuscivo ad essere completamente me stesso, ma ormai mi era chiaro che non fosse così. O meglio, in realtà andava avanti già da quattro anni, ovvero da quando avevo finalmente preso consapevolezza del perchè mi riuscisse così difficile accettare il mio riflesso sullo specchio.
Tuttavia, avevo sempre pensato che alla fine, che mi sentissi maschio o femmina, questo non aveva nulla a che vedere con il mio rapporto con i miei fratelli o con i miei genitori.
A loro cosa cambiava saperlo o meno? Se l'avessero scoperto, le cose tra noi sarebbero cambiate in qualche modo?
Avevo sempre pensato che la risposta fosse no e per anni avevo usato questa convinzione come giustificazione per non dire nulla, ma negli ultimi tempi avevo iniziato a comprendere che forse il motivo per cui ancora non mi decidevo a dire loro di essere trans, era il fatto che avevo paura di scoprire quale sarebbe stata la loro vera reazione.

Distratto da questi pensieri, feci appena in tempo a mettere il piede a terra per frenare, prima di schiantarmi contro uno dei pali dell'impalcatura delle altalene.

- Per un pelo. -

Commentò la voce di un ragazzo, subito seguita da un fischio, come di ammirazione, anche se non riuscii a capire se fosse sarcastico o meno.

Io sussultai dalla sorpresa a quell'intervento e subito balzai giù dallo skateboard.
Sollevai lo sguardo verso le altalene.
Come avevo fatto a non accorgermi che ci fosse qualcuno?
Alla sorpresa di aver scoperto che il parco non fosse poi così deserto, però, presto subentrò la sorpresa dovuta a un secondo piccolo particolare.

- Ma tu sei...? -

Lui sollevò impercettibilmente gli angoli delle labbra in un lieve sorriso, facendomi capire che anche lui mi aveva riconosciuto all'istante.

Proprio quella mattina a scuola, mentre mi trovavo nel bagno dei maschi, lui aveva aperto la porta della cabina in cui mi trovavo, pensando che fosse libera. Fortunamente non mi aveva sorpreso a pisciare in piedi come era appena successo con Judith e Jasper, dato che in quel momento non avevo neanche i pantaloni calati, ma questo non aveva reso la situazione meno strana, considerando che mi aveva trovato con le forbici in una mano e una ciocca di capelli stretta nell'altra. Ormai era da circa un anno che lo facevo: ogni giorno scolastico durante la pausa pranzo mi chiudevo in bagno e mi tagliavo un millimetro di capelli. Solo un millimetro, così poco che ogni volta ricrescevano prima che si notasse qualche cambiamento. Lo facevo semplicemente perchè era rilassante, mi dava una bella sensazione, si trattava solo di una sorta di anti stress, nulla di più, tuttavia mi metteva a disagio il pensiero che uno sconosciuto mi avesse sorpreso proprio in quel momento. Per di più considerando che mi trovavo nel bagno dei maschi.
Che avesse collegato i tasselli del puzzle e mi avesse scoperto?
In quell'occasione non ero riuscito a capire se avesse intuito qualcosa o meno, dato che, subito dopo avermi chiesto cosa ci facessi lì, aveva notato le forbici e i piccoli ciuffetti bianchi sparsi per il pavimento, per poi rivolgermi uno sguardo perplesso, farsi indietro e richiudere in fretta la porta, senza aggiungere altro, nè aspettare la mia risposta.

Ma tornando al parco, dopo aver chiarito di esserci riconosciuti a vicenda, tra noi calò il silenzio.
In un primo momento sentii l'impulso di giustificarmi per ciò che era accaduto quel pomeriggio a scuola, ma alla fine serrai le labbra e non emisi un singolo suono. Dopotutto, cosa avrei potuto dirgli? Ma poi, aveva davvero un senso provare a giustificarsi? E di cosa? D'altronde io non lo conoscevo neanche quel ragazzo, non gli dovevo spiegare proprio nulla.

A quel punto vidi il suo sguardo spostarsi per un istante in direzione dell'altalena accanto a quella su cui si era seduto lui. Non ero sicuro al cento per cento che si trattasse proprio di un invito, ma alla fine cosa poteva andare storto? Dopotutto era altamente probabile che, così come prima di quel giorno non ci eravamo mai incontrati, allo stesso modo dal giorno seguente in poi avrei potuto perdere completamente le sue tracce.
Così alla fine lasciai lo skateboard lì dov'era e mi andai a sedere sull'altalena accanto a lui.
Nessuno di noi due disse una parola per tutto il tempo che passammo lì a dondolarci, eppure in qualche modo fu piacevole passare del tempo insieme. Quando andai via dal parco, mi resi conto di non sapere neanche quale fosse il suo nome e, per qualche motivo che allora mi era ancora sconosciuto, provai un po' di dispiacere al pensiero che probabilmente da quel momento in poi non lo avrei rivisto mai più.

Quello fu, come si suol dire, l'ultimo pensiero famoso...

Lunedì.
Una settimana e due giorni dopo.
Chiuso nella solita cabina del bagno dei maschi, mi accingevo ad iniziare la mia opera, la forbice già stretta nella mano destra, quando all'improvviso la porta si aprì.

Strabuzzai gli occhi. In un primo momento non riuscii quasi a crederci e mi lasciai sfuggire una piccola risata.

- Quando imparerai a bussare? -

Chiesi io, ma lui non mi rispose.

I suoi piccoli occhi castano chiaro sfrecciarono rapidamente dal mio volto alle mie mani e le labbra si strinsero in una linea sottile.
Volse un rapido sguardo alle sue spalle, per assicurarsi che non ci fosse nessuno, quindi entrò, costringendomi a sedermi di lato sul bordo della tazza per non stare troppo stretti. Chiuse subito la porta e, prima che io potessi realizzare cosa stava accadendo, aveva sfilato la forbice dalle mie mani e mi aveva afferrato delicatamente il mento per indirizzare il mio volto verso la parete in fondo, così che gli rivolgessi le spalle.

Mi sentii percorrere da un brivido quando sentii le sue dita scorrere lentamente tra i miei lunghi capelli bianchi, per poi afferrarne una ciocca e...

- Aspetta, non esagerare! -

Ma non feci in tempo a finire la frase, che lui aveva già fatto.

Mi voltai verso di lui di scatto e quasi mi venne da ridere nel vedere i suoi occhi sgranati dallo stupore, mentre stringeva nella mano sinistra circa tre centimetri di capelli.

Un intero mese di lavoro svolto in un battito di ciglia.

- Non... Non pensavo che... - Iniziò lui, rivolgendo lo sguardo allarmato da me ai capelli che mi aveva appena tagliato. - Mi dispiace, io... -

- Fa niente. - Sospirai, scuotendo leggermente il capo mentre tornavo a voltarmi dalla parte opposta. - Su, continua. -

- Continua? -

Ripetè lui, incredulo.

- Certo. - Replicai alzando le spalle. - Non puoi mica lasciarli così. A questo punto li devi tagliare tutti alla stessa altezza. -

Senza dire nulla, lui si rimise all'opera, riuscendo a concludere nel giro di cinque minuti.
Anche se mi aveva tagliato molto di più del mio solito, mi consolai al pensiero che, avendo i capelli lunghi quasi fino alla vita, nessuno se ne sarebbe reso conto.

- Io sono Hester Foster. -

Dissi di getto nel momento in cui lui aveva già la mano sulla maniglia della porta, per uscire dal bagno.

Il corvino ebbe un lieve sussulto, ma poi si voltò verso di me e sorrise.

- Axel Clark. -

Disse semplicemente, per poi rivolgermi un piccolo cenno di saluto e andare via.

Le settimane seguenti trascorsero in modo frenetico.
Ce ne misi di tempo ad abituarmi al fatto che adesso, quando a scuola camminavo per i corridoi, ci fosse qualcuno che si accorgeva del mio arrivo e mi rivolgeva un saluto.
Le prime volte ne rimasi talmente sorpreso, che neanche risposi. O meglio, lo feci, ma così in ritardo che Axel era già andato via, trascinato in classe dai suoi amici.

Tuttavia, i nostri veri incontri continuavano ad avvenire solo durante la pausa pranzo, sempre lì, nella seconda cabina del bagno maschile del primo piano.

Un giorno, mentre mi stava tagliando i capelli, si interruppe di colpo e, posandomi di scatto le mani sulle spalle, disse:

- Ti devo far vedere una cosa. -

- Che cosa? -

- Un posto. -

Aggrottai la fronte nel vederlo dirigersi, anzichè verso la porta, verso la parete in fondo e quasi mi presi un colpo quando d'un tratto ci sferrò contro un calcio.

Già ero pronto a correre in infermeria, quando notai un piccolo particolare: le mattonelle che aveva colpito si erano ritirate, svelando una sorta di tunnel.

In seguito scoprii che era stato proprio grazie a quella stanza segreta se io e Axel ci eravamo incontrati.
L'aveva scoperta un paio di mesi prima (tra l'altro, proprio sferrando un calcio contro la parete per sfogarsi) e, da quel momento, aveva preso l'abitudine di usarla per marinare la scuola o anche solo per passare i pomeriggi in tutta tranquillità. E anche per...

- Ma cosa ci fa qui? -

Chiesi, non riuscendo a trattenere una piccola risata alla vista di quello strano strumento musicale, nascosto in un angolo della stanza tra una libreria completamente vuota e una scatola di cartone.

- Ah boh. - Replicò lui, senza neanche degnarsi di rivolgergli uno sguardo, mentre si andava a sedere dalla parte opposta della stanza. - Non ho idea di chi abbia portato qui quella fisarmonica. -

Nel momento in cui si voltò verso di me, però, nel vedere le mie sopracciglia inarcate, si lasciò sfuggire un piccolo sbuffo e non appena io scoppiai a ridere, si unì subito a me.

- Prima o poi voglio sentirti suonare qualcosa. -

- Contaci. -

Replicò lui, in un tono di voce che lasciava intendere fosse ironico, anche se dal suo sguardo riuscii a intuire che dopotutto non fosse poi così restio all'idea.

Da quel giorno, diventò quello il nostro luogo d'incontro e, poco per volta, iniziammo a incontrarci sempre più spesso, fino a passare interi pomeriggi chiusi lì dentro.

Scoprii che Axel viveva con sua sorella di ventisei anni e che i loro genitori erano morti cinque anni prima, in un incidente stradale.
Scoprii che quella fisarmonica era appartenuta a suo nonno e che, anche se tra loro non c'era mai stato un legame particolarmente forte, lui aveva sempre amato sentirlo suonare, al punto tale che, dopo aver ereditato lo strumento al momento della sua morte, aveva deciso di imparare a suonarlo da autodidatta.
Scoprii che avevamo gli stessi gusti musicali, che non gli piaceva leggere, ma apprezzava alcuni autori di poesie, che gli piaceva lo sport in sè, ma non lo praticava perchè trovava troppo difficile il gioco di squadra, che considerava suoi amici Simon, Austin, Katherine e Britney, ma che lo stesso non valeva affatto per i ragazzi con i quali lo vedevo girare di solito per i corridoi.
E infine, per chiudere in bellezza, scoprii che Axel era ottuso. Incredibilmente ottuso. Probabilmente la persona più ottusa che io avessi mai incontrato in tutta la mia vita. Così ottuso che, dopo aver scoperto che ogni giorno mi chiudevo nel bagno dei maschi per tagliarmi i capelli e dopo aver notato (e spesso anche riso) quelle volte in cui io, senza pensarci, parlando con lui mi ero riferito a me stesso al maschile... Ancora non lo aveva capito.
Non aveva neanche il più piccolo presentimento.
Inizialmente ero certo di sbagliarmi, ma presto mi fu chiaro che Axel non avesse davvero la più pallida idea di cosa ci fosse veramente dietro il mio comportamento o quelle gaffe continue.
E se da una parte quel pensiero mi rassicurava, dato che non potevo sapere come avrebbe potuto reagire ad una cosa del genere, dall'altra invece era incredibilmente frustrante. Perché quella era la prima volta in tutta la mia vita che qualcuno di estraneo alla mia famiglia riusciva a farmi sentire talmente a mio agio da farmi perdere completamente la mia facciata da "fantasma", e il pensiero che gli stessi nascondendo qualcosa di così importante, quando invece lui mi diceva sempre tutto ciò che gli passava per la mente ogni volta che gli chiedevo qualcosa, mi faceva sentire incredibilmente in colpa.
Soprattutto perchè sotto sotto io volevo che lo scoprisse. Me ne resi conto un pomeriggio in cui, parlando con Axel, compii per errore l'ennesima gaffe, riferendomi a me stesso al maschile. In quel momento mi chiesi come fosse possibile che a casa con i miei genitori o i miei fratelli questa cosa non accadesse mai, mentre con lui succedeva di continuo.
Fu allora che realizzai di desiderare davvero che lui lo sapesse.

Era giunto il momento che risolvessi i miei di problemi.
Infatti solo poco tempo prima, Axel mi aveva aiutato a trasformare quella stanza segreta in un piccolo studio di registrazione, per dare vita al mio programma radio, grazie al quale ero in grado di sfogarmi e aiutare le altre persone a risolvere i loro problemi. Grazie a Radio Phoenix avevo scoperto che, dopotutto, non esistono problemi irrisolvibili. E adesso, dopo settimane passate a dispensare consigli e scervellarmi nel tentativo di risolvere i problemi altrui, sentivo che fosse arrivato il momento di dare una svolta alla mia di vita.
Ora basta nascondersi.

- Axel, ti devo dire una cosa. -

Accanto a lui smettevo di sentirmi un fantasma. Quando stavamo in silenzio, semplicemente seduti a terra in angolo della nostra stanza segreta, spalla a spalla, con le ginocchia strette al petto, chiudevo gli occhi e mi concentravo sul battito del mio cuore, finchè non sentivo anche il suo che si sovrapponeva al mio e finalmente, nel sentire quel piacevole calore sprigionarsi dal mio petto e pervadermi da capo a piedi, mi sentivo davvero vivo.

- Anche io. -

Replicò lui e nel vedere il suo sguardo deciso, non potei che riempirmi di determinazione a mia volta.

- Prima tu, allora. -

- No, tu l'hai detto per prima. -

- Ma anche quello che devi dirmi tu è importante? -

- Sì, molto. -

- Allora diciamolo insieme. -

Lui era l'unico con il quale riuscivo ad essere davvero me stesso. Era giusto che sapesse, o meglio, io volevo che sapesse.

- D'accordo. Allora al mio tre. -

D'altronde...

- Uno. -

...cosa sarebbe...

- Due. -

...mai potuto...

- Tre! -

...andare storto?

- Hester, ti amo! -

- Axel, sono trans! -

Non l'avessi mai detto.

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