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RAGA SCUSATEMI HO COMBINATO UN CASINO. INVECE DI ANNULLARE LA PUBBLICAZIONE DI QUESTO CAPITOLO (LO STAVO SOLO CORREGGENDO E HO CLICCATO PER SBAGLIO SU PUBBLICA) HO ANNULLATO LA PUBBLICAZIONE DELL'INTERA STORIA! MI STAVO SENTENDO MALE! HO DOVUTO RIPUBBLICARE DI NUOVO TUTTO. SCUSATE PER LE SESSANTA NOTIFICHE!!
POV DARIO
Appoggiato allo schienale di una panchina come ai vecchi tempi, guardavo il cielo imbrunire oltre le cime degli alberi.
Stavo fumando. Era da tanto che non lo facevo. Non l'avevo mai trovato interessante, avevo solo imparato a usarlo per darmi un tono, così come avevo visto fare a molti.
Per esempio, mi era sempre piaciuto l'aspetto che aveva Arben quando fumava. Sembrava uno tosto. Lo era, e la sigaretta lo ricordava al mondo anche quando il mondo, distratto, non se ne accorgeva.
Ora stavo facendo la stessa cosa.
Ad un tratto, notai un tizio fermo sul marciapiede che mi stava osservando. Lo conoscevo: lo chiamavano U Scuru, un vecchio ormai ridotto a uno scheletro, sdentato e con due fili di capelli in testa. Si avvicinò piano, ed io continuai a fumare, stringendo gli occhi con diffidenza.
"Il figlio dell'albanese, eh?" La sua voce era roca. Annuii con un rapido cenno. "Non ti si vede da un pezzo, quasi non ti riconoscevo con gli occhiali. Che fai, adesso?"
"Lavoro fuori."
"Ah sì? E cosa fai?"
"Un po' di tutto. Si tira avanti." Tagliai corto, lasciandolo sospettare quel che voleva.
U scuru annuì, ma poi il suo volto rugoso si incupì più del suo nome, lo sguardo si fece penetrante. "E tuo padre che dice?"
Sorrisi freddo, scrollando le spalle. "Tu ne sai più di me."
"Se lo sapevo, non te lo chiedevo." Mi mostrò il suo ghigno sdentato. "Mi deve un bel po' di soldi, quel bastardo."
"Non mi riguarda." Replicai schiacciando la sigaretta sul cemento. "Non ci parlo dal giorno dell'incidente. Per me può anche essere morto."
"Morto? No, no... l'erba cattiva non muore mai." Si accigliò ancora. "Beh, senti, avrei un lavoretto per te. Niente di che, solo qualcosa per rimediare a quello che mi deve tuo padre."
"Non faccio più lavoretti, men che meno per lui." Tagliai corto, irritato. Ma lui era deciso a provarci ancora.
"Il tuo amico Massimo partecipa." Aggiunse in tono subdolo, sicuro che quel nome avrebbe avuto effetto. "Se non ci credi, chiedilo a lui. Poi magari ci ripensi."
Il sangue mi salì alla testa. Quel tipo ricettava cocaina da anni, e tutti in zona lo conoscevano e diffidavano di lui, malgrado il suo aspetto da innocuo vecchietto.
Mi era facile immaginare che un giorno avesse ingaggiato anche mio padre, e che poi Arben fosse scappato con la refurtiva per non tornare mai più. Non sarebbero bastati diecimila euro per pagare quel debito, e io volevo solo starne fuori.
Massimo però non doveva finire in mezzo a quello schifo. Ora dovevo aiutarlo.
*
Aveva appena mandato via il ragazzo che lavorava per lui e ora stava per chiudere il garage. Gli feci segno di entrare, lui accese una piccola luce sul muro e tirò giù il basculante. L'odore tossico dell'officina mi riempiva le narici.
"Hai moglie e figli. Non ti disturba frequentare ancora certe persone?" Lo rimproverai, dopo avergli spiegato chi avevo appena incontrato.
Lui mise le mani in tasca, sorpreso da quel discorso. "Va tutto bene, ogni tanto gli faccio dei favori, è una brava persona. Coi suoi lavoretti ci ho pagato il latte in polvere a mia figlia, che non riusciva a stare attaccata alla tetta... Perché ti agiti?"
"Magari perché non mi fido di lui." Ci pensai. "Quando vai?"
"Stanotte, all'una. Alla stazione. Vieni anche tu? Sarà come ai vecchi tempi, ci guarderemo le spalle a vicenda dagli sbirri."
Ero deluso. Io e Massimo non ci capivamo più. Lui era rimasto schiavo di quella mentalità distruttiva che ci aveva formati.
*
La stazione abbandonata era in penombra. Un solo, triste, palo della luce, avvolto dagli alberi, schiariva la piattaforma, gettando ombre confuse sull'asfalto.
Avevo seguito Massimo di nascosto, e ora osservavo la scena dalla mia auto parcheggiata a diversi metri di distanza. Dovevo proteggerlo dalla sua stupidità. Lui era lì, pronto a concludere l'affare con il gruppo di africani che aspettava in silenzio. Qualche occhiata scambiata veloce e poi un cenno per passarsi la merce. Tutto filava liscio, finché qualcosa non si mosse tra i cespugli e tutti si misero in allarme; io stesso mi preparai ad aprire la portiera.
La tensione scoppiò insieme a una raffica di proiettili. Quando sentii il primo colpo riecheggiare nell'aria, mi abbassai per nascondermi dietro al volante, e Massimo si gettò a terra per cercare riparo.
Nel caos di quegli attimi concitati, fatti di urla e spari, notai un tipo sospetto muoversi nell'ombra. Approfittando della confusione, correva verso la borsa con le buste di cocaina che Massimo aveva lasciato cadere per terra. L'afferrò e fuggì, insultato in lingua straniera dagli africani, che non potevano inseguirlo, perché non lo avevano visto sparire dietro l'angolo della vecchia stazione.
Io però avevo notato ogni cosa. In un lampo, avevo compreso che quel furto avrebbe rovinato per sempre Massimo e la sua famiglia. E allora scattai.
Correvo veloce, come se i miei muscoli si fossero allenati soltanto per eccellere durante gli inseguimenti; le mie nozioni di matematica mi aiutavano a calcolare le distanze e le probabilità di raggiungere il ladro districandomi tra le erbacce e le stradine sterrate immerse nell'oscurità.
Quando lui si accorse che lo stavo seguendo accelerò, cercando di guadagnare terreno. Ma era solo, senza nessuno ad aspettarlo lì intorno. Doveva essersi perso.
In pochi secondi lo raggiunsi, lo afferrai per il colletto e lo buttai a terra. Tentò un pugno alla cieca, che schivai senza sforzo, poi gli assestai un gancio secco alla mascella. Urlò di dolore e si bloccò. Era troppo buio per capire chi fosse, ma dalla corporatura capivo che era giovane. Mi dispiacque di averlo colpito così forte.
"Chi ti manda?" Urlai, l'adrenalina che ancora mi pulsava in corpo. Lui rimase zitto. Poi, sollevando un braccio tremante, indicò qualcosa o qualcuno alle mie spalle.
Mi voltai, tenendo il ragazzo per il colletto. Ero lucido, concentrato, sentivo l'adrenalina pompare forte, e non mi sorpresi quando la sagoma del vecchio spacciatore emerse dai ruderi di una stalla, facendosi avanti.
"Che diavolo combini, Meta? Il tuo amico non ti ha avvisato che eravamo tutti d'accordo? A quanto pare no, e hai creduto di doverlo aiutare. Tu sei tosto come tuo padre... con la differenza che non sei anche uno sporco vigliacco."
Quindi il lavoretto da poco era un piano organizzato per derubare gli africani. Mollai il ragazzo, che scappò trafelato, abbandonando la refurtiva tra l'erba. Mi sembrò di riconoscere in lui il garzone di Massimo, ma non me ne curai. In quel momento, due loschi figuri stavano uscendo allo scoperto, facendomi gelare il sangue nelle vene.
"Non riavrò mai quei soldi. Ma qualcuno deve pagare. E sembra che tu ti sia precipitato tra noi proprio per saldare quel debito."
Riposi gli occhiali in tasca e osservai le loro ombre avanzare, attento a ogni passo, aspettando che attaccassero per primi. Il primo pugno mi stordì, ma reagii d'istinto, con tutta la furia che il pensiero di Arben mi accendeva dentro. Non avevo tempo per riflettere su come fossi finito in un altro guaio per colpa sua; c'era solo la rabbia che mi spingeva a colpire, menare, calciare. Ogni pugno liberava la rabbia e al tempo stesso la alimentava. Persi la cognizione di tutto, c'ero solo io con la mia furia, la voglia di vendetta e di rivalsa. Prima che me ne accorgessi, i due scagnozzi giacevano a terra, e io sentivo l'odore del sangue. Se fossimo stati su un ring, sarei stato dichiarato vincitore.
Inforcai di nuovo gli occhiali. U scuru era rimasto a guardare, e dalla sua postura capii che non si era aspettato niente del genere. Avanzai verso di lui, che indietreggiò, le mani in avanti, ripetendo no, no, come un povero vecchio indifeso.
"Credo che farò come avrebbe fatto mio padre." Calcolai che un colpo in testa lo avrebbe ucciso. Allora lo colpii allo stomaco. Il vecchio crollò a terra, ed io gli sputai addosso.
"Vedi di lasciarmi in pace." Lo avvisai. "Il conto è chiuso."
Lui non disse nulla. Se l'era cercata. Se non fosse sopravvissuto alla notte, non sarebbe stata colpa mia. Presi la merce e tornai in stazione. Lasciavo tre corpi agonizzanti nella campagna deserta, e non me ne importava nulla.
Non trovai nessuno alla piattaforma, a parte gli africani che ancora discutevano animatamente tra di loro. Guidando verso casa di Massimo, provai un brivido familiare: ero ancora in gamba, forse più di prima, con l'esperienza e tutti gli errori metabolizzati. A dispetto di ciò che avevo appena fatto, provavo un senso inspiegabile di orgoglio e una forte scarica di fiducia in me stesso.
Il mio amico stava camminando avanti e indietro sul marciapiede di fronte casa sua, le mani in tasca, visibilmente scosso. Mi avvicinai e gli consegnai la borsa intatta, pronunciando solo poche parole che spiegassero cosa fosse accaduto. Il modo in cui afferrò le mie braccia, stringendole, era il modo in cui espresse tutta la sua riconoscenza: nessuno avrebbe più reclamato quella borsa. Ora era sua.
Sarebbe diventato ricco spacciando quella cocaina costosa che era stata rubata due volte. Non cercai di impedirglielo; era il suo destino, e sapevo che un giorno se la sarebbe vista con la giustizia. Ma non a causa mia.
*
Non sentivo Nadia da due giorni, e non perché non ci avessi provato. Aveva spento di nuovo il cellulare. C'era stato un momento in cui l'avevo sentito squillare, poi nient'altro. L'aveva fatto apposta, voleva farmi infuriare. Soprattutto perché sapevo che era in giro con i suoi amici e che tra loro c'era Giamma.
Il pensiero mi faceva ribollire di gelosia. A tratti tornavo a convincermi che sarebbe stata più felice con lui, poi tornava solo la voglia di averla vicino, di tenerla con me e allontanarla da tutto il resto. Lei invece pensava solo a punirmi. Era convinta che fossi io a ignorarla, e magari un po' era vero: ma avevo bisogno dei miei spazi, non certo di cancellarla.
Quella mattina avevo appuntamento alla facoltà di fisica per continuare il lavoro coi miei vecchi professori. Ma rigirandomi nel letto, ancora nel buio, mi resi conto che non potevo più aspettare. La faccenda con Nadia andava chiarita subito, anche se significava lasciarla andare.
Così mi misi in viaggio fin dall'alba, fermandomi a fare colazione negli autogrill, la gente che mi guardava per il livido sulla mascella, ancora visibile, perché la barba non mi era cresciuta abbastanza. Quando mia madre l'aveva visto, si era messa a piangere. Le avevo spiegato perché era successo, e a quel punto mi aveva urlato che dovevo andarmene, che stare lì mi avrebbe distrutto. Anche Santino, in fondo, era d'accordo. Sapevo di aver deluso anche lui. Infatti nessuno mi aveva impedito di partire senza salutare.
Passai l'intera giornata ad aspettare Nadia sotto casa sua, appostato dall'altra parte della strada, alla giusta distanza per controllare il portone senza dare nell'occhio. Di lei, però, nessuna traccia. Di tanto in tanto, entravo nel bar vicino per tenermi occupato. Avevo visto uscire suo padre e la sua compagna, da soli e in momenti diversi, entrambi con un'aria cupa. Forse, pensai, c'erano dei problemi in casa.
Finalmente, verso il tramonto, una moto passò davanti al portone e si fermò di fronte a un piccolo garage. La riconobbi subito mentre scendeva, stretta al ragazzo che guidava. Ovunque fossero stati tutto il giorno, sembrava che nessuno dei due si fosse davvero divertito; avevano entrambi quell'espressione tesa e distante, lo stesso malessere che avevo colto nei loro genitori.
Scesi dall'auto e mi avvicinai a passo svelto, deciso ad affrontarli. Quando Nadia mi riconobbe, sbatté le palpebre più volte dalla sorpresa; il suo sguardo cupo si addolcì, la tensione sulla sua fronte si rilassò. Non fece in tempo a dire nulla che Giamma, con la moto ancora accesa fuori dal garage, si mise tra noi.
"Ti avevo detto che te l'avrei fatta pagare." Si faceva grosso con la sua arroganza, ma per me era solo un moscerino.
"Zitto, nullità." La mia voce era sicura, ma calma. Tuttavia, i due ragazzi rimasero di stucco. "Nadia, devo parlarti."
Lei avanzò verso di me, cedendo il casco a Giamma, che spense il motore, ma continuò a stare in mezzo.
"Anch'io devo parlarti." Mi disse lei, il suo sguardo era intenso, carico d'ansia. C'era anche il sollievo di potermi finalmente parlare. "Non l'ho fatto apposta, Dario. Il telefono, non l'ho spento, l'ho rotto. Per questo non ho potuto chiamarti! La mia SIM è andata, e non so il tuo numero a memoria. Cosa potevo fare? Chiedere a mia madre di avvisarti?"
La guardai meglio. Si era abbronzata, aveva le guance bruciate dal sole, e tra le spalle spiccava il segno evidente del costume da bagno. Era molto bella, malgrado l'aria stanca. D'un tratto, provai rabbia. La presenza di Giamma mi rendeva nervoso, le mie mani tremavano ricordando che Nadia avesse appena abbracciato un altro.
"Vedo che le difficoltà non ti hanno impedito di divertirti. Eravate da soli?"
Lei colse il pericolo nelle mie parole e si avvicinò, cercando la mia mano come per calmarmi. Toccarla dopo tanti giorni di lontananza era speciale. "No, c'erano altre persone! Ti prego, non fare il geloso, non c'è niente tra me e Giamma, lui sta ancora con Asia! Non sai cosa abbiamo passato, è stato un periodo difficile per tutti e due."
Il ragazzo mi fissava con aria di sfida. Sapevo bene che Asia fosse l'ultimo dei suoi pensieri. E quel plurale, noi, mi dava sui nervi: c'era un loro, e io avevo sempre saputo che ci sarebbe stato.
"Mi sa che avevo ragione." Dissi piano, le parole che uscivano da sole. "Noi due apparteniamo a mondi diversi. Tu hai bisogno della tua vita mondana, di un qualcuno a cui aggrapparti. Stare con me non ti fa bene. Non sei pronta per certe cose, non sei giusta per altre. Presto o tardi lo capirai anche tu, e io non sarò qui ad aspettare che succeda."
La guardai un istante, vedendo la tristezza farsi strada nei suoi occhi, ma proseguii senza lasciarmi fermare. "Mi è bastata l'esperienza con Eliana. È meglio se ci lasciamo, Nadia. Ognuno per la propria strada."
Nadia stava già piangendo prima che finissi la frase. Mi faceva male vederla così, e avrei voluto consolarla, dirle che presto sarebbe passato e che avrebbe trovato la sua strada. Ma sapevo che era necessario essere duro.
Anche io ne avevo bisogno. Lasciarla mi stava spezzando il cuore in un modo che non avevo previsto. Era la prima volta, dopo anni, che provavo un dolore simile per una donna.
"Come può essere meglio, se fa così male?" Si lanciò tra le mie braccia, abbandonandosi a un pianto disperato, incontrollabile, che fece girare tutti i passanti. Sentii le sue braccia stringermi, i singhiozzi che le scuotevano il corpo. "Perché non mi vuoi più? Cosa ho fatto di sbagliato? La mia vita va a rotoli e ora perdo anche te..."
"Non hai fatto niente di sbagliato." Sussurrai, con dolcezza. "Vedrai che tutto si aggiusterà. È giusto così."
Sfiorai la sua schiena. Ero concentrato sul suo tocco. Lei non mi lasciava andare, anzi, mi stringeva ancora più forte. E la sua disperazione mi stava logorando.
"Non è vero! Non lasciarmi." Mi supplicò tra le lacrime, la voce spezzata. Le sue dita si aggrappavano all'orlo della mia maglietta. "Io non ce la faccio senza di te. Ti prego, ti prego..."
Cercai di mantenere la calma, di non fare nulla di avventato. Il cuore mi batteva forte. Volevo rimangiarmi tutto. Ma al tempo stesso sapevo che separarmi da lei fosse la cosa più giusta per entrambi.
Senza farmi notare, inspirai il suo profumo. Sapeva di crema solare e salsedine. Mi sarebbe mancata da morire. "Devo andarmene comunque, ho tante cose da fare. Un giorno mi ringrazierai."
"Allontanati da lui, muoviti." Giamma si era di nuovo immischiato, imponendosi su di lei come se parlasse a un cane. "Non umiliarti, lascialo andare e basta."
"Vuoi che ti dia una lezione su come farsi gli affari propri?" Risposi, sentendo crescere la voglia di menarlo. Sapevo che qualcosa in me sembrasse diversa dal modo in cui Nadia si staccò e mi fissò stranita, gli occhi ancora arrossati dal pianto.
"Non trattarlo così." Disse, con un filo di voce. Sembrava rispettarlo per un motivo che non potevo conoscere, ma solo tirare a indovinare. "Che ti prende? Non sei mai stato così... aggressivo. Cos'hai in faccia?"
Mi ero quasi scordato del livido. Lasciai perdere, e scrutai Giamma, che sosteneva il mio sguardo con vigore. Immaginavo che per lui non fosse stato un grande sforzo, quello di approfittare dell'occasione giusta per rendersi indispensabile con lei. Avrà atteso quel momento da quando aveva saputo di noi. E in parte mi stava bene.
Anche se giocava a fare il duro, sapevo che volesse bene a Nadia. Proprio come il giorno in cui era venuto a parlarmi, mi resi conto che quel ragazzo era l'unica opzione valida per lei. Dovevano solo rendersene conto entrambi.
"Ricordi cosa ti ho detto quel giorno?" Gli chiesi, sfidandolo.
Lui fece una smorfia sprezzante, il suo mento si sollevò ad esprimere il suo senso di superiorità. "Ricordo solo un mucchio di stronzate."
"Ti ho detto che se fosse andata male sarebbe toccato a te prenderti cura di Nadia." Lo fissai severamente, guardandolo prendere coscienza del peso di quelle parole. "Metti la testa a posto e trattala come merita. D'ora in poi sarò io a controllare te."
Giamma rimase immobile, incapace di replicare, mentre Nadia guardava entrambi a bocca aperta. Trovai un modo per allontanarmi prima che Davide, tornando a casa, scoprisse che avevo fatto piangere sua figlia. Ma lei mi seguì fin davanti alla macchina.
"Allora è finita, mi hai scaricato a Giamma. Vi siete già accordati su quante mucche valgo?" Esclamò, ferita.
La osservai. Mi era sempre sembrato prematuro provare per lei qualcosa di forte in un periodo così complesso, mentre la mia vita cambiava in modi imprevedibili. Eppure, anche se non riuscivo ad amarla, e anche se negli ultimi giorni mi aveva mandato in collera, il mio cuore si sentiva legato a lei.
Affezionarmi a Nadia era uno di quei cambiamenti a cui non riuscivo ad abituarmi. Non avevo ancora compreso cos'era stata lei per me cosa e stava diventando. Dalla figliastra che mi odiava, alla mia amante. Pensarci mi faceva ancora girare la testa.
Mi ricordai che dovevo essere duro per costringerla a dimenticarsi di me. "Ci abbiamo provato, Nadia. Non è andata. Sei una ragazza dolce, ma forse non mi piaci abbastanza."
Un attimo dopo, la stavo baciando. Non ero riuscito a fermarmi. Non appena avevo visto i suoi occhi inumidirsi ancora, ero sceso su di lei senza pensarci, catturando le sue labbra dolci con la disperazione dell'ultima volta. L'assaporavo, intrecciando le mani ai suoi capelli impregnati di sale, mentre le auto per strada ci passavano accanto disturbandoci con l'odore dello smog.
Quando ci staccammo, eravamo entrambi tramortiti e senza fiato. "Non ti perdonerò mai per avermi costretta a rinunciare a questo." Sussurrò lei. Quando la guardai negli occhi, lambiti dallo stesso desiderio carnale che aveva acceso anche me, mi resi conto che era fatta: mi ero guadagnato il suo rancore.
Eccomi! Volevo specificare una cosa. A me piace scrivere quei piccoli momenti in cui Dario ha a che fare con un mondo poco raccomandabile, e infatti ce ne saranno altri, però sento anche la necessità di accorciare e semplificare, perché mi rendo conto non è questa la storia giusta in cui parlarne.
Tra l'altro, potete immaginare che non ho alcuna esperienza di spaccio di droga, quindi tutto quello che ho scritto è praticamente inventato e, nel mezzo, potrebbe esserci solo una briciola di verità. Però almeno sono scene funzionali a fare cambiare Dario, e a farlo diventare ancora più bad boy.
Quindi che dite? È davvero la fine per Dario e Nadia?
*
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