51
Mi risvegliò il calore del sole che sorgeva dal mare, colorando il cielo di arancione. Era solo l'alba, ma faceva già caldo. Mi staccai dall'abbraccio di Giamma per sfilarmi la felpa di dosso.
Lui dormiva ancora accanto a me, nella stessa posizione in cui si era addormentato durante la notte, il respiro profondo e regolare, interrotto solo da un leggero ronzio. Sembrava così innocente. Notai piccoli puntini rossi sparsi sulla sua pelle e guardai le mie braccia: anche io ne ero coperta. Le zanzare avevano banchettato su di noi per tutta la notte.
Mi sedetti e rimasi lì, osservando la spiaggia e l'orizzonte risvegliarsi con noi. Piccoli granchi correvano qua e là, confondendosi con la sabbia; il canto degli uccellini e il ritmo della risacca erano gli unici suoni intorno a noi. Bastò un attimo perché i ricordi della giornata precedente riaffiorassero, e il pensiero di Dario tornasse a frustrare la mia mente.
Cercai il cellulare, che avevo lasciato da qualche parte sul telo. Per poco non era scivolato sulla sabbia. Con il cuore in gola, lo accesi; quegli interminabili secondi di attesa sembrarono un'eternità.
Mi stropicciai gli occhi, avevo la vista offuscata. I messaggi di Dario arrivarono uno dopo l'altro e mi fecero battere il cuore. Ce n'erano tanti, ma il mio sguardo si focalizzò sull'ultimo:
"Hai spento il telefono. Non ho l'età per giocare, Nadia. Sono stato impegnato, e mi dispiace, ma sarei tornato per il tuo compleanno, se me ne avessi dato l'opportunità. Tu invece ti comporti da bambina, complicando tutto ciò che potrebbe essere affrontato diversamente. Temo che tu sia più simile a tua madre di quanto avessi sperato. Se le cose stanno così, forse tutto questo è stato uno sbaglio, e dovremmo tornare entrambi sui nostri passi."
Quelle parole mi gelarono. Sentii un nodo serrarsi in gola, mentre il panico cresceva a dismisura. Era finita? Mi stava lasciando... proprio oggi?
Mi alzai di scatto, il respiro affannato, e iniziai a camminare sulla sabbia, cercando di scaricare l'agitazione ad ogni passo, ma non facendo altro che aumentarla.
Poi, improvvisamente, il cellulare vibrò. Mi mancò il fiato. Guardai lo schermo: era lui. Dario. Mi stava chiamando. Ed erano ancora le sei di mattina.
Presi un respiro profondo, cercando di calmarmi, anche se le mani mi tremavano mentre accettavo la chiamata.
"Dario?" Pronunciai il suo nome con un sospiro fatto d'odio e d'amore.
Notai subito che la sua voce fosse alterata. "Ti sto cercando da tutta la notte. Non mi hai lasciato dormire neanche un secondo."
Con l'agitazione che mi scorreva nelle vene e mi impediva di dire qualcosa di sensato, pensavo soltanto a quanto fosse bello che Dario si fosse preoccupato per me. Era ciò che volevo, c'ero riuscita. Peccato che lui si fosse arrabbiato.
"Auguri, comunque." Aggiunse, con voce più calma. "Non mi ero dimenticato del tuo compleanno. Sono uscito dall'università dopo sei ore di lavoro; avevo a malapena pranzato con un boccone alla mensa, quando ho trovato il tuo audio. Ti ho risposto, ho iniziato a chiamarti, ma tu avevi già spento il telefono. Non sapevo cosa pensare. Non mi hai dato modo di chiarire, e avevo mille cose da fare, ma ormai non riuscivo più a concentrarmi, perché ero terrorizzato dall'idea che ti fosse successo qualcosa."
"Non sgridarmi, Dario. Non è giusto!" Esclamai, sentendomi soffocare dalla sua cascata di parole. I suoi discorsi avevano una logica che non riuscivo a seguire. "Le cose vanno male da giorni, e non per colpa mia. Ormai mi rispondi solo quando ti va. Ieri avevo l'esame, e tu non mi hai scritto una parola per tutta la mattina..."
"Non ho mai dato un esame credendo di dovermi aspettare il sostegno morale di qualcuno. Lo studio è una cosa tua, privata, che dipende soltanto da te. Non sei una bambina che ha bisogno di essere seguita ad ogni passo..."
"Forse invece lo sono!" Lo avevo detto per sfidarlo, un modo contorto di fargli capire che tenevo a lui. Ma avevo intuito subito che fosse una pessima idea.
"Sì. Ed è questo il problema." Ribatté lui, con una freddezza che mi sconvolse. "Non mi piace come ti comporti da quando sono qui. Così non può funzionare. Io voglio una persona matura che sappia affrontare i problemi a viso aperto, non una ragazzina che scappa per attirare l'attenzione. Non sono stato a questo gioco neanche quando ero più giovane. La verità è che ti vedo troppo infantile per stare con me."
Caddi in ginocchio sulla sabbia. Mi sentivo svuotata, quelle parole mi avevano prosciugato di ogni forma di energia. Tutto ciò che potevo fare, era lasciarmi andare a un pianto disperato. "Me l'avevi promesso." Singhiozzai, gli occhi chiusi, impastati di lacrime. "Mi avevi detto che non sarebbe cambiato nulla!"
Dario sentiva il mio pianto, ma rimaneva in silenzio, come se non gli importasse abbastanza. "Vorrei aiutarti, Nadia, davvero. Ma ora ho altro a cui pensare."
"Quindi... è finita? Mi stai lasciando?" Trattenni il fiato, temendo la risposta. Mi sentivo come se il mondo stesse crollando.
Lui sospirò, come se quelle parole pesassero anche a lui. "Non voglio prendere delle decisioni affrettate. Prendiamoci una pausa, sono troppo stanco e arrabbiato per decidere adesso. Oggi pensa solo a festeggiare, cerca di rilassarti e divertiti. Io proverò a calmarmi. Ne riparleremo domani."
Il cuore mi batteva all'impazzata. Più capivo di perderlo, più l'istinto mi diceva che dovevo provarle tutte per cercare di tenerlo con me. "Io ti amo. Voglio stare con te, non riesco nemmeno a immaginare di poterti perdere."
"Parliamone domani, Nadia." Rispose, più freddo di quanto avessi sperato.
"Dario, aspetta!" Esclamai ancora, disperata, cercando qualcosa a cui aggrapparmi. "Ho deciso di lasciare Lettere." Evitai di parlargli di come avessi urlato davanti a tutti all'esame. "Pensavo... se mi iscrivessi a Fisica, ci vedremmo tutti i giorni. Però dovrai anche aiutarmi a capirci qualcosa."
La linea rimase in silenzio per qualche istante, poi lo sentii sospirare, in un misto di tenerezza e rimprovero. "Se ti iscrivi a Fisica, sarai una mia studentessa, e non potrò fare a meno di aiutarti. Ma Nadia... non farlo per me. Fai questa scelta solo se lo vuoi davvero, perché non basterà a cambiare quello che non funziona tra di noi."
"Ma tu saresti contento?" Chiesi, cercando una risposta che mi desse solo un po' di speranza, che scacciasse almeno in parte la devastazione che si irradiava in me dallo stomaco verso tutto il corpo.
"Sarei contento se tu avessi davvero trovato la tua strada. Se questa fosse una tua scelta, e non un tentativo di tenerci insieme."
Dario mi lasciava un vuoto profondo e un dolore che non riuscivo a contenere. Quando riattaccai, le lacrime ripresero a scorrere e, in un impeto di rabbia e frustrazione, non sapendo con chi altri prendermela, scagliai il cellulare in mare.
Me ne pentii subito. Credendo di poterlo recuperare, entrai in tutta fretta nell'acqua fredda del mattino. Mi bagnai fino alle ginocchia, ma lo trovai, e tentai di asciugarlo contro la maglietta. Avrei provato ad asciugarlo al sole, ma intanto mi diedi della stupida, perché avevo distrutto il mio unico mezzo di comunicazione con Dario. Non c'era modo di comprarne subito un altro, non avendo né abbastanza soldi, né un centro commerciale nel raggio di chilometri.
Ora crederà che l'ho spento e si arrabbierà, pensai, disperata. E quando saprà che l'ho gettato in acqua, tornerà a dirmi che sono immatura. Lo sto perdendo... lo sto perdendo... Che sia solo un incubo?
Giamma intanto si era svegliato. Non disse nulla, non chiese spiegazioni, semplicemente si avvicinò a me che uscivo dall'acqua e mi abbracciò, lasciandomi il tempo di calmarmi. Lo abbracciai anch'io e chiusi gli occhi sul suo petto, il telefono bagnato ancora stretto in mano. Era incredibile come fosse sempre presente ogni volta che avevo bisogno di pace.
Fu allora che una voce spezzò il silenzio. "Giamma!" Era Ciccio, che si era arrampicato sul muretto di casa e lo chiamava, sventolando un cellulare. "Che fai ancora qui? Tua madre ti sta chiamando, è incazzata! Sali subito in moto!"
Sciolsi l'abbraccio e guardai Giamma, confusa. "Che sta succedendo?"
Lui distolse lo sguardo, imbarazzato. "Oggi è il giorno della partita." Spiegò a bassa voce. "Quella partita... è alle nove. Non sarei dovuto partire, ieri. O almeno, avrei dovuto tornare entro sera. Invece sono rimasto."
Rimasi a bocca aperta, realizzando il motivo della sua rinuncia - io - e cosa questo significasse. Aveva messo in repentaglio il suo futuro per me.
Senza pensarci, lo abbracciai forte, grata e commossa. "Non dovevi farlo, Giamma."
"Invece sì." Mi strinse più forte.
"Così mi fai piangere di nuovo." Risposi, cercando di trattenere le lacrime. Ero sorpresa e delusa da me stessa: "Non ho pensato neanche una volta alla tua partita. M'importava solo di me." Era giunto il momento di svegliarmi e crescere. Lo guardai negli occhi, mentre lo abbracciavo. "So quanto è importante. Entra in squadra. Fallo per me, Giamma."
Lui appoggiò la sua fronte alla mia, il naso che sfiorava il mio, cullandomi dolcemente senza cercare di baciarmi. Le sue mani erano ferme attorno ai miei fianchi.
"È valsa la pena di rischiare, solo per poterti avere qui, ora." Sussurrò. "Sono stato il tuo eroe, e so che d'ora in poi mi guarderai così. Io ero quello che c'era quando non c'era nessun altro."
"Diventerai anche il mio più grande senso di colpa, se non ti sbrighi ad andare." Gli dissi, cercando di reprimere quella strana emozione che si stava impadronendo di me.
Provavo nei suoi confronti un desiderio fisico e contorto; tutto ciò che volevo era che mi toccasse, che insinuasse le sue mani su di me e si prendesse ciò che voleva. Sembrava un modo valido per ripagarlo delle sue attenzioni, ma anche l'unico rimedio al dolore che provavo per Dario.
Ma Giamma si staccò da me, prima che potessi anche solo pensare di volerlo fare davvero, e andò via. Era deciso a farcela. E io sperai che almeno lui potesse ottenere dalla vita quella felicità che a me mancava.
*
POV GIAMMA
Stavo correndo in moto verso Catania, ma l'autostrada era un inferno. Incontravo soltanto delle lunghe file di macchine, piene di vacanzieri impazienti, sempre troppo lenti o ingombranti per lasciarmi passare. Avrei voluto correre più veloce, ma il traffico rendeva tutto complicato. Ad ogni minuto che passava, sentivo l'ansia scavarmi dentro.
Quando finalmente arrivai al campo, erano già le nove e mezza. Frenai davanti allo stadio, ma nella fretta sbagliai manovra e la moto scivolò sulla cenere lavica accumulata per strada, trascinandomi giù con lei. Mi rialzai di scatto, ignorando il dolore che sentivo alla coscia; ero sporco, i pantaloncini si erano strappati e la gamba pulsava, ma nel complesso nulla di grave. Lasciai la moto dov'era, senza neanche badare ai danni, e corsi verso il campo.
Appena oltrepassati i cancelli, vidi mia madre e Davide in attesa vicino al bordo campo, entrambi nervosi, le braccia incrociate. Non lontano da loro c'era Salvo, il presidente della squadra, che mi fissava con un'espressione di puro disappunto. Mi venne la nausea: solo adesso capivo di avere fatto una cazzata.
I ragazzi della squadra mi salutarono con maggiore disinvoltura, perché quelli in esame non erano loro; erano soltanto curiosi di conoscere questo ragazzo - il figlio della segretaria, allenato da Davide Salemi - che nel giorno della sua possibile ammissione si permetteva di arrivare in ritardo, con le scarpe giuste, ma i pantaloncini strappati.
"Che hai fatto?" Domandò mia madre, fulminandomi col suo sguardo teso. Si era accorta di un ematoma che iniziava a formarsi sulla mia coscia.
"Sono scivolato dalla moto mentre parcheggiavo, ma sto bene, non è niente."
Salvo, che sembrava davvero contrariato, sbatté le mani con fare incoraggiante: "Va bene, va bene, così testeremo anche l'abilità del ragazzo di sopportare le piccole contusioni."
Evitai lo sguardo di mia madre. Davide, però, scosse la testa e mi lanciò uno sguardo complice, come a dire: Hai fatto un bel casino.
Sentivo già le ginocchia molli. Non avevo mangiato, non avevo fatto il riscaldamento, ero appena entrato e già dovevo prepararmi a giocare. Mi infilai in campo, concentrandomi, ma capii subito che la mia prestazione non sarebbe stata la stessa di sempre. Qualcosa non andava.
La gamba bruciava, la fame mi rallentava nei movimenti, i muscoli erano ancora troppo tesi. Inoltre, una parte di me era ancora presa dall'eccitazione di avere stretto Nadia tra le braccia. Mi ero convinto di avere visto un cambiamento in lei. Davide mi aveva ripetuto tante volte che non dovevo pensare alle donne sul campo da calcio, ma questo non m'impediva di fantasticare su sua figlia e di morire dalla voglia di portarmela a letto.
Tutto andava storto: ogni volta che cercavo di dare il massimo, un piccolo errore si infilava tra i miei pensieri e le mie azioni. Mancavo di vigore, la gamba cedeva, la vista si appannava perché ero ancora fatto e stanco dal giorno prima. Più tentavo di dare il meglio, più sbagliavo.
La partita finì tra mormorii e sguardi frustrati; mi allontanai dal campo, esausto e svuotato, consapevole di non aver mostrato neanche una briciola di ciò che sapevo fare davvero.
Salvo si allontanò dal campo per un breve, acceso confronto con l'allenatore. Quando tornò, ci fece cenno di seguirlo in ufficio. Le sue parole ci caddero addosso come pietre.
"Parliamoci chiaro, Gianmarco. Avevamo grandi aspettative su di te. Non mi sei piaciuto affatto."
Andai nel panico e cercai lo sguardo di mia madre. Non avevo mai voluto il suo aiuto, ma ora speravo che lei e Davide potessero fare in modo che Salvo cambiasse idea.
Tesa come una corda di violino, mia madre si fece avanti, con gli occhi che impauriti esprimevano la mia stessa speranza. "Mio figlio si è allenato duramente. Tu lo sai, hai visto il suo impegno. Oggi è stato sfortunato, non è riuscito a dare il meglio di sé, ma prova a capirlo: ha avuto un incidente, era nervoso. Sembra grande, lo so, ma in fondo è solo un ragazzo."
Salvo la interruppe con calma, ma fermo. "Anna, tesoro, io stesso ho giocato il campionato quando avevo vent'anni. So cosa significa dare tutto per una partita, e ti assicuro che lui non l'ha fatto."
Davide provò a spezzare la tensione, avanzando con un sorriso forzato. "Salvo, ascolta. Diamogli un'altra possibilità. Facciamo che si ripresenta il trenta, e ti prometto che stavolta sarà puntuale e in forma."
Ma quel sessantenne barbuto, che sembrava più infastidito dalle suppliche che dal mio risultato, alzò una mano per interromperlo. "Non ne ho bisogno, Davide. Ho visto quanto basta per farmi un'idea chiara della situazione. Io ho bisogno di giocatori che possano dare il massimo ogni volta che scendono in campo, o non avremo alcuna speranza di risalire in classifica quest'anno." Si girò verso di me, fissandomi con un'espressione tanto distaccata quanto definitiva. "Gianmarco, se ancora non sei capace di giocare al meglio quando conta, forse hai bisogno di altro allenamento o, chissà, di rivedere le tue scelte. Per quanto mi riguarda, questo è tutto."
Mi era caduto un macigno addosso, e ora non sapevo se fossi vivo o morto. Avevo fallito, avevo deluso tutti. Più di chiunque altro, me stesso.
*
Lo sconforto mi stava annebbiando la vista, insieme al sudore che mi scivolava dalla fronte. La sconfitta mi schiacciava col suo peso. Non riuscivo a respirare sapendo che tutti i miei sogni, i miei progetti, erano andati in fumo. Non potevo accettarlo; era come trovarsi in uno di quegli incubi molto vividi, aspettando di svegliarsi. Soltanto la disperazione di mia madre continuava a confermarmi che fosse tutto vero.
Eravamo già a casa. La mia moto era ancora in buone condizioni, solo qualche graffio, tuttavia non me ne importava un accidente. Riuniti attorno al tavolo, eravamo tutti pietrificati. Mia madre era pallida nonostante il caldo, gli occhi umidi; la disperazione silenziosa di tutti noi si rifletteva sul suo viso. Neanche io riuscivo parlare. Ero allibito. Davide si appoggiò al bancone della cucina e provò a dire qualcosa di costruttivo. Ma mia madre lo anticipò.
"È tutta colpa di tua figlia."
Davide sollevò lo sguardo, sorpreso, mentre il volto di mia madre diventava cupo, dipingendosi di un rancore inquietante.
"Mamma, no..." Mormorai, la voce incrinata, intuendo che stesse per rovinare tutto.
Davide era visibilmente confuso. "Cosa c'entra Nadia?"
"Giamma ha una cotta per lei." Replicò, fredda e tagliente. "E lei ne approfitta, lo usa quando le fa comodo. Ha fatto così anche ieri, per farsi portare al mare. E lui, come un idiota, le è andato dietro."
Davide si girò verso di me, gli occhi pieni di delusione. Tentai di rimediare: "Nadia non sapeva della partita. Non gliel'ho detto. L'ho portata al mare perché l'ho voluto io."
"Ti piace mia figlia?" Era l'unica cosa che gli importava sapere.
"Dormono insieme, Davide." S'intromise mia madre, facendomi preoccupare. "Non sai quante volte l'ho vista uscire dalla sua stanza, la mattina presto, per non farsi vedere da te. Hanno una storia."
Davide restò a bocca aperta. Guardò verso la porta della mia stanza, come aspettandosi che Nadia uscisse proprio in quel momento.
"Che cazzo, mamma!" Scattai in piedi, urlando su di lei tutta la mia frustrazione. "Sei fuori di testa, è come quando litigavi con papà. Ti inventi le cose solo per andargli contro! Davide, io non ho mai fatto sesso con tua figlia. Se non mi credi, chiedilo a lei!"
Ma era come se nessuno dei due volesse davvero ascoltare. Lui non era lucido, piuttosto stordito da ciò che stava sentendo. Lei, invece, si era aggrappata a una sua versione della realtà, decisa a trovare un colpevole.
"L'ha sedotto." Ribadì con una rabbia fredda, le parole cariche di amarezza. "E adesso gli ha rovinato la vita. Quella partita era la sua unica opportunità, e l'ha sprecata per lei. E tu, stronzo, non hai fatto niente per impedirglielo!"
Davide esplose, il viso segnato dalla frustrazione: "Ah, ora è colpa mia? Dopo tutto il tempo che ho passato ad allenare tuo figlio, incoraggiandolo e guidandolo... Mi ringraziate così? Tu andando a letto con mia figlia, e tu rinfacciandomi il fatto che ha fallito?" Si era proprio offeso. "Andate affanculo, tutti e due."
Rimasi agghiacciato, guardando Davide avvicinarsi alla porta, prendere le chiavi dell'auto che aveva appena appeso al chiodo e uscire di casa sbattendo la porta. Rimasi lì, assordato da quel rumore, e mi girai verso mia madre, le mani strette in pugni, il fiato spezzato da un tremendo senso di vuoto che risaliva all'infanzia. Quella scena era stata un maledetto déjà-vu.
"Che cazzo hai fatto, mamma? Hai rovinato tutto."
Non sembrava nemmeno la mia voce, ma quella di un uomo stanco che aveva già vissuto troppi drammi. Lei mi guardò straziata, e io mi sentii uno schifo: voleva che sapessi di averla delusa in ogni modo possibile.
"Tu hai rovinato tutto, Gianmarco. Eri quasi riuscito a cambiare la tua vita. E ora hai perso ogni cosa."
Con un filo di voce, risposi, accennando alla porta di cui sentivo ancora risuonare il tonfo: "L'hai appena fatto anche tu. Sarà che ho preso da te."
Provavo il bisogno infantile di rimanere a casa ad aspettare che Davide tornasse, come se la mia presenza potesse darmi il controllo sulla loro relazione per impedirgli di litigare ancora.
L'avevo già fatto in passato. Stavolta, però, capivo che avrei fatto meglio ad andarmene. Se qualcosa avrebbe mai potuto rendermi di nuovo felice, quel qualcosa era solo Nadia.
Mi è dispiaciuto un sacco dover distruggere i sogni di Giamma, ma doveva andare così...
La reazione di Anna è comprensibile: è una donna tranquilla, ma è anche capace di diventare una iena quando c'è di mezzo suo figlio e il suo futuro.
Voleva il meglio per lui, e lui ha mandato tutto a monte per Nadia. Ci sta che sia arrabbiata con lei :')
Ma come andrà a finire tra Davide e Anna?
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