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3

Il suono insistente di un clacson era stato la nostra sveglia. Dopo avere fumato tutta la notte, io e Stefano eravamo svenuti a letto, devastati, e avevamo dimenticato l'anta del balcone aperta; dato che vivevamo al primo piano di una strada stretta del centro storico, al di sopra di alcuni negozi, il nostro risveglio si rivelò umido e impietoso, coi rumori del traffico e l'odore dello smog.

Avevo le palpebre pesanti, e per alcuni minuti non riuscii ad aprirle. Intravedevo la luce del sole attraverso la cartilagine sottile, e sentivo già gli occhi bruciare.

"Porca puttana..." Si lamentò Stefano, da qualche parte in mezzo alle coperte, accanto a me. Lo sentivo muoversi confusamente, cercando forse di togliersele di dosso. "Che cazzo di ore sono... Le undici?? Nadia, ma non avevi puntato la sveglia alle nove?"

Gli diedi le spalle, nascosi la testa sotto al cuscino e risposi:

"L'avrò dimenticato... Peggio per te che non ci pensi mai! Chiudi il balcone, prima che entrano i piccioni..."

Stefano continuò a imprecare; lo sentii alzarsi e strisciare le ciabatte sul pavimento sporco col suo passo pesante.

"Dovevo essere a lezione alle dieci e mezza, che cazzo!"

Batté le ante così forte che i vetri tremarono; era una vecchia casa, con vecchie mura e vecchie finestre che sembravano doversi rompere facilmente. Ma stavolta resistettero, e l'insopportabile rumore dei clacson e gli insulti tra gli automobilisti si attutirono.

Stefano andò poi in bagno e iniziò a pisciare senza prima chiudere la porta. Cazzo, lo odiavo quando lo faceva! Lo avevo rimproverato mille volte, e lui se ne fregava!

Al momento, però, non avevo abbastanza energie per litigare; mi coprivo ancora la testa col cuscino, e allungai soltanto la mano per cercare il cellulare sul comodino.

Volevo controllare i messaggi, soprattutto quelli di mia madre, che era già partita da un giorno. Lo afferrai e lo trascinai con me sotto al piumone, dove provai finalmente ad aprire gli occhi. Erano secchi, facevano male, e fui costretta ad abbassare anche la luminosità del telefono.

Capitava spesso; era una delle conseguenze di quella nuova erba insieme alla perdita di memoria. Imprecai e mi diedi della stupida, perché sapevo che niente mi avrebbe impedito di continuare a fumare.

Controllando il cellulare, scoprii che avevo già ricevuto un sacco di messaggi, sia da mia madre che dai miei amici. La notifica di due chiamate senza risposta mi sorprese, perché non avevo sentito il telefono vibrare. Aprii la notifica e lessi:

Due chiamate perse da: Quasimodo

Rimasi a bocca aperta. Davvero Quasimodo aveva provato a chiamarmi?! Non l'autore, naturalmente, e nemmeno il personaggio di Notre Dame de Paris. Dall'opera di Victor Hugo avevo soltanto preso spunto per il soprannome, vista la somiglianza tra il gobbo e il marito di mia madre.

L'ultima volta che avevo letto il suo insopportabile nome sul mio telefono, lui e la mamma erano usciti di casa e avevano dimenticato le chiavi dentro.

"Il gobbo mi ha chiamato! Due volte! E il secondo tentativo è di pochi minuti fa." Urlai a Stefano. "Doveva partire oggi, ma a quanto pare spera ancora di poterci invitare a casa sua. È un pazzo! Come può credere che accetteremo?"

Mi ero seduta di scatto, gettando via le coperte e costringendo gli occhi ad adattarsi alla luce del giorno. Stefano, intanto, aveva tirato lo scarico ed era andato a lavarsi le mani.

"Mandalo a cagare." Commentò. "Io sono pieno di esami per giugno e non ho ancora fatto un cazzo, sabato c'è pure il compleanno di Tony, mia madre mi vuole a pranzo domenica... Quasimodo può andarsene affanculo."

Aprii i messaggi di WhatsApp. Mia madre mi aveva mandato il buongiorno insieme a una foto del Tempio della Concordia, invece i miei amici avevano scritto nella chat di gruppo a proposito del regalo da fare a Tony.

Loro stavano pensando a una tuta della Nike o a un Powerbank, ma io e Stefano sapevamo che a lui sarebbe invece piaciuto sballarsi con noi per tutta la sera. Decisi che avrei risposto più tardi e mi alzai dal letto.

Riuscivo a malapena a tenere gli occhi aperti, ma a conti fatti avrei preferito non farlo: il nostro monolocale era un disastro.

Il vento aveva disperso la cenere per terra, mischiandola a piccole pietre laviche e ad altra polvere arrivata dalla strada. Di fronte al letto, alla distanza di tre passi esatti, c'era il tavolo quadrato che per noi era soprattutto la scrivania su cui studiare, ed era infatti pieno di libri e quaderni; alcuni fogli di appunti, però, erano volati per terra durante la notte.

Sul nostro letto sembrava invece che fosse esplosa una bomba, ma a quello eravamo abituati. Non avevamo un divano, per cui era lì che mangiavamo e fumavamo.

Stefano uscì dal bagno. Sbadigliò e si grattò le parti basse con aria stanca. Non si era accorto di avere indossato la felpa al contrario, ma in ogni caso non faceva differenza, perché l'aveva incastrata sotto le ascelle per lasciare respirare i suoi abbondanti e pelosi addominali al contrario.

C'eravamo conosciuti in prima superiore, e a me era piaciuto perché non era un coglione. Anche se non eccelleva negli studi e aveva troppi vizi, era coerente nelle cose importanti, e non si tirava indietro agli impegni presi. A me bastava questo.

Col tempo aveva perso peso ed era diventato più carino. I suoi capelli scuri, il naso diritto e gli occhi leggermente incavati gli conferivano un'aria attenta. In generale lo trovavo attraente, tuttavia mi ero così abituata alla sua presenza che non riuscivo più a distinguere i suoi pregi e i suoi difetti; vedevo solo Stefano.

Quella mattina notai però che c'era una pericolosa ombra scura intorno ai suoi occhi e che le sue guance rubiconde erano diventate grigie.

"Ti sei guardato allo specchio?" Esclamai. "Non potevi andare a lezione conciato così, hai un aspetto di merda!"

"Non rompere..." Borbottò lui, girandosi dall'altra parte.

"Ti avevo detto di smetterla di mischiare l'erba al sigaro." Insistetti. "Oltre al fatto che puzza da morire, ti sta uccidendo lentamente."

Stefano sbadigliò. Era come se la cosa non lo riguardasse: "In questi giorni ci siamo andati giù pesante, ma ora la smetto. Non voglio toccare più niente fino a sabato."

Aprì uno degli sportelli della nostra piccola cucina, prese una brioche e fece scoppiare il pacchetto. Oltre a non sembrare molto interessato a se stesso, non aveva nemmeno notato che la casa fosse una discarica.

"Fino a sabato?" Esclamai, alzando un sopracciglio. "Cioè domani? Senti, fai come vuoi! Ti renderai conto di quello che ti stai facendo quando mi costringerai a chiamare l'ambulanza!"

Ero troppo arrabbiata con lui per guardarlo masticare la brioche con la pacatezza di chi non ha neanche ascoltato. Mi infilai nel minuscolo bagno e aprii il lavandino con l'intenzione di sciacquarmi la faccia, ma quando mi guardai allo specchio mi resi conto che il mio aspetto non era migliore del suo. Ero pallida, e avevo le vene degli occhi in evidenza.

Ormai da tempo non mi sentivo più in forma, e anche nello studio ero rimasta indietro. Non mi importava molto di studiare Lettere. Avevo scelto quella facoltà solo perché mi era sembrata la più facile, dopo la ridicola Scienze delle Merendine.

Fumare mi aiutava a non pensare al presente, al passato e al futuro, ma a differenza di Stefano non ne ero ossessionata; mi sentivo libera di uscirne quando volevo.

Mi stavo ancora insaponando gli occhi, massaggiandoli per alleviare il fastidio, quando sentii suonare alla porta.

"No, fanculo! Sarà la signora Agata." Disse Stefano, a bassa voce. "Chissà che cazzo vuole oggi."

La signora Agata era la nostra padrona di casa, un'esile settantenne che viveva nel nostro stesso pianerottolo. Neanche i problemi di circolazione alle gambe le impedivano di ficcare il naso, e io e il mio ragazzo eravamo la sua telenovela preferita ormai da un anno e mezzo.

"Ciao, gioia. Cosa fai mezzo nudo? Non hai freddo? Ma che succede, vi siete svegliati solo adesso? E l'università?" Sentii chiedere poco dopo dalla voce cigolante della signora.

Scossi la testa. Stefano non si curava molto, ma Agata era proprio una vecchia rompipalle.

Rimasi nascosta in bagno, e l'ascoltai chiedere al mio ragazzo di potergli rubare pochi minuti: la TV ultramoderna che le aveva regalato suo figlio aveva smesso di funzionare e lei non aveva idea del perché.

"Va bene, signora, ora vengo a vedere." Rispose Stefano, condiscendente, anche se sapevo che avrebbe preferito sbattere il mignolo contro uno spigolo, ripetutamente, piuttosto che entrare in quella casa che odorava di aglio. "Nadia, sto andando."

Si richiuse la porta alle spalle e io ridacchiai della sua sfortuna. Con la scusa del piccolo aiuto, Agata lo avrebbe sequestrato per almeno mezz'ora.

Aveva lasciato mezza brioche sul lavandino, e la mangiai io. Stavo ancora masticando quando il campanello suonò ancora una volta. Pensai che Stefano fosse tornato indietro a prendere qualcosa, e andai ad aprire.

Dall'altra parte, però, non c'era Stefano. Con mio sommo stupore era arrivato Quasimodo, e la sua espressione da cane bastonato non preannunciava nulla di buono.

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