16
Troppe stranezze in poche ore; era questo il mio unico pensiero. Dopo avere ingurgitato una brioche, Giamma era tornato nella sua stanza ed era sparito. Anna era andata a lavoro, e mio padre si era buttato sul divano dopo avere mimato il gesto di sbattere il telefono contro il muro.
Dovevo ancora realizzare che quel posto e quelle persone fossero reali; che papà fosse proprio davanti a me, e che potessi parlargli in un posto tranquillo, dove non c'era muffa sul tetto e una reception al piano terra, dove non servivano alcol e non c'era musica. Stavolta eravamo soltanto noi due. Peccato che non eravamo mai stati così apparentemente a pezzi.
Mi sedetti al suo fianco e lo guardai sospirare e toccarsi la testa, pensieroso. Si voltò, come se si fosse appena ricordato di me, e mi accarezzò grezzamente la schiena.
"Stai bene, papà?" Gli domandai, ma era evidente che avesse avuto dei giorni migliori.
"Sì, dai." Rispose, quasi sorpreso dalla domanda. "Non è niente di grave, è solo che certe persone non si possono battere ai calci di rigore. Tu come stai? Hai detto di avere litigato con... come si chiamava?"
Compresi che non volesse più parlare del suo lavoro, così mi limitai a rispondere alla domanda.
"Stefano. Sì, è diventato tutto molto strano, con lui, nell'ultimo periodo. Non so cosa fare."
Abbassai lo sguardo, sapendo che non avrei trovato il coraggio di guardarlo negli occhi e ammettere, anche solo nella mia testa, che preferivo un altro uomo... uno che lui conosceva e che aveva sempre trattato come un moscerino insignificante. Uno che, secondo lui, non era buono neanche per stare con la sua ex.
"Detto da uno che è stato mollato da un sacco di ragazze: mollalo. Se non ti piace, vuol dire che è un buon a nulla. È quello che dicevano a me, comunque."
Non era giusto. Mi avvicinai a lui e lo abbracciai, poggiando la testa alla sua spalla. Mio padre non si era mai lasciato andare a delle manifestazioni d'affetto sdolcinate, ma stavolta si sciolse dopo un primo momento in cui era rimasto sulle sue. Si rilassò e mi abbracciò in silenzio. Quando inspirai l'odore della sua tuta, realizzai che finalmente ero a casa.
"Sono tanto felice di rivederti." Gli dissi, chiudendo gli occhi. "Mi sei mancato tanto."
"Anche tu, piccola. Ora che ho una casa, mi aspetto di vederti qui più spesso. Ti è piaciuta la nuova stanza?"
"C'è troppo rosa, per i miei gusti..." Risposi, con un sorriso incerto. "Ma apprezzo il gesto. Grazie."
I suoi occhi si rallegrano. Quando sciolse l'abbraccio, mi sentivo già meglio. Il divano si trovava proprio sotto l'unica finestra della stanza, di fronte alla parete più lunga, e il dolce tepore della primavera ci accarezzava portando con sé l'odore dei cornetti appena sfornati. C'era il bar sotto casa. Pensai che se mi fossi trasferita qui sarei svenuta ogni mattina dalla voglia di mangiarli tutti.
"Vuoi restare?" Mi domandò, timidamente. La sua gamba tremolava. "Convivi con quel ragazzo, giusto? Se lo molli, puoi venire a vivere con me. Non vuoi mica stare da tua madre e quello sfigato, vero?"
Una forza invisibile mi stritolò lo stomaco.
"No, non voglio." Affermai, con un filo di voce. Non potevo dire nient'altro. Emotivamente mi sentivo come un funambolo in cima a un burrone. Un pensiero di troppo, e sarei crollata.
"A proposito, lei come sta?" Lo chiese facendo il vago, ma notavo che era teso, e che forse teneva a lei più di quanto volesse ammettere.
Io però non potevo parlare di mia madre senza rivivere il terrore di quella notte, quando attraversavo il palazzo per scappare da lei, spiando i suoi passi nascosta in cortile. Era stato un incubo.
"Credo stia bene. È stata in gita, è tornata ieri." Risposi, velocemente. E mi domandai con orrore se avesse già scoperto qualcosa.
"Ah." Mio padre aggrottò le sopracciglia goffamente, per riflettere. "Non avevi detto che tua madre non c'era?"
"Non la sento da ieri mattina, non so quando è tornata." Avevo il cuore in gola, e sapevo che ero così agitata da essere sospetta.
"Ah." Ripeté mio padre, che continuò a pensare senza notare nulla. "Allora la chiamo io. Bisogna dirle che sei qua, suppongo. E così controlliamo se è ancora viva."
Mi paralizzai come un gatto in tangenziale, ma soppressi l'improvvisa voglia di sparire e lasciai che vincesse la curiosità di capire se ero nei guai o meno. Non sapevo ancora come avrei reagito. Osservai soltanto mio padre che prendeva il telefono, ancora concentrato, per cercare il nome di Eliana nella sua immensa rubrica. Sbirciando, mi accorsi che l'aveva rinominata La Stronza.
Portò il telefono all'orecchio. Squillava. Il mio respiro si era fermato. Mi sembrò che anche il cuore stesse per scoppiare quando sentii la sua voce:
"Che vuoi, Davide?"
Mio padre accavallò le gambe distese. La sua espressione era cambiata, ora aveva di nuovo quella che mia madre amava definire "faccia da schiaffi". Si stava preparando a litigare.
"Davvero eri in gita scolastica?" Le domandò, sarcastico. "Quella che al liceo fumava nei bagni, ora dice ai ragazzi cosa devono fare?"
"La gente cresce, a differenza tua!" Strepitò mia madre. "E poi, cosa ne sai? Te l'ha detto Nadia?"
"Sì, è qua con me."
Silenzio.
"E tu dove sei?" Urlò lei, chiaramente in ansia.
La normalità di quella discussione pacificò i miei nervi. Stava solo giocando a botta e risposta col suo ex, l'eterno scapestrato, e niente del suo nervosismo lasciava trapelare qualcosa di diverso.
"A casa mia." Rispose mio padre, ma anche quelle parole suonavano come una sfida. Voleva che gli chiedesse di più.
"Tu hai una casa?!"
E così trascorse i successivi dieci minuti a vantarsi di avere effettivamente una vera casa, e non una scatola di cartone nei pressi della stazione come lei insinuava.
"... e se ancora non ci credi, chiedilo alla mia compagna se sono un immaturo." Sembrava che volesse vantarsi anche di lei. "Te la ricordi Anna, quella bella ragazza che fa la segretaria da noi?"
"Quella a cui facevi prendere i messaggi per te, e che si innervosiva ogni volta che ero costretta a chiamare lei, perché tu non rispondevi al cellulare?" Commentò mia madre.
"Sì, esatto." Rispose mio padre, allegramente. "Alla fine l'ho conquistata! Suo figlio mi adora."
Mi fece l'occhiolino, e io scoppiai a ridere. Non solo ripensavo alla scenata di Gianmarco di poco prima, ma anche assistevo ai loro battibecchi fatti di ripicca e gelosia da una vita intera, e avevo imparato a riderci su. Erano la mia serie tv preferita.
"Quella povera donna ingenua e suo figlio hanno tutta la mia compassione!" Ribatté mia madre, senza lasciarsi distrarre. "Ora mi passi Nadia? È lì, l'ho appena sentita ridere di te."
I miei muscoli si pietrificarono, gli occhi divennero grandi come noci. Mi dicevo di stare calma, che lei non avrebbe perso del tempo a fare sarcasmo se la sua priorità fosse stata scoprire cos'era successo tra me e suo marito; eppure ero nervosa.
"Ora non ho voglia di parlare. Dille che la richiamo più tardi, ho caricato il telefono." Sussurrai a mio padre, frettolosamente. Non avevo ancora pensato a cosa dirle.
Davide tentennò al telefono, ma infine riferì le mie parole. Mia madre se ne lamentò; voleva sapere cos'era successo e voleva saperlo subito. Mio padre allora accennò qualcosa a proposito del mio presunto litigio con Stefano, e del mio arrivo inaspettato con Gianmarco.
"Senti, non ne so niente, fattelo raccontare da lei più tardi!" Ribatté nervoso, dopo alcune domande pressanti su entrambi i ragazzi.
"Tu non sai mai niente! E va bene, le do un paio d'ore e poi la richiamo!" Anche lei si era innervosita, e chiuse la chiamata con un freddo saluto.
Mio padre non domandò come mai non volessi parlarle. Forse non ci trovava nulla di strano. Per quanto ne sapevo, anche lui evitava sempre di parlare con mia nonna. Il tempo però passava e io sentivo di dover sistemare le cose con Stefano. Dovevo farlo subito, via il dente, via il dolore.
"Beh, ora devo uscire, vado al campo." Disse mio padre, schiaffeggiando le mani sulle gambe, come a mettere un punto a quella parte della mattinata. "Vuoi un passaggio da qualche parte?"
Annuii.
"Devo andare a casa mia. Voglio prendere le mie cose."
L'avevo detto senza riflettere, e scoprii che era proprio ciò che volevo fare. La sola idea di coricarmi accanto a Stefano mi disgustava. Avevo ancora sulla pelle i baci di Dario, e non volevo nemmeno lavarli via.
Mio padre sobbalzò, stupito:
"Vuoi... vuoi portarle qui, vero? Ti accompagno subito!" Esclamò entusiasta, dopo il mio cenno d'assenso. "Ti passo a prendere quando ho finito e ti aiuto a sistemarle!"
Ero molto provata dagli eventi, mi sentivo come in balia delle onde, ma sorrisi teneramente. Le premure di mio padre sembravano un miraggio, e pure stavano ricucendo certe ferite che non ricordavo di avere.
Un quarto d'ora dopo, eravamo pronti ad andare. Lui cercò disperatamente le chiavi della macchina in giro per casa, lamentandosi come un ossesso per non avere ancora attaccato al muro i ganci in cui appendere le chiavi. Quando finalmente le trovò, imprecò e le rimproverò per essere sparite.
"Giamma, idiota, se non sei indaffarato a grattarti le mutande, vuoi venire anche tu a parlare con Salvo?" Gridò mio padre.
Mi ero quasi dimenticata che Gianmarco era ancora chiuso nella sua stanza. Se fosse stato un altro, avrei creduto che ci stesse evitando.
"Non rompere i coglioni!" Gridò lui a sua volta, attraverso la porta. "Ci andrò quando non rischierò di fare una figura di merda per colpa tua!"
Mio padre continuò a imprecare sottovoce. Il nome di Gianmarco venne accostato alle più turpi parolacce che avessi mai sentito anche durante il tragitto in macchina; io provai una strana sensazione quando mi resi conto che qualunque cosa stesse succedendo con quel ragazzo, era appena iniziata.
Conosceva il mio segreto più terribile, che gli avevo rivelato credendolo un estraneo; e ora che faceva parte della famiglia ero costretta a legare con lui per mantenere un buon rapporto. Dovevo tenermelo buono, perché era stato evidente fin dalla notte della festa in piscina che non fosse il tipo da farsi degli scrupoli se voleva rovinare qualcuno.
Che situazione di merda! Pensai amaramente, mentre scendevo dall'auto ferma in mezzo allo stretto viale in cui abitavo con Stefano. E mi ci sono messa da sola.
*
Stefano era lì. Gettato a gambe aperte al centro del letto, i boxer dall'elastico consumato erano scivolate da un lato, mettendo in mostra una chiappa bianca. Stava russando sonoramente.
Sul tavolo c'erano ancora i nostri libri, ma non si erano mossi di un millimetro ed erano persino impolverati. Mi confortava vedere che neanche lui aveva studiato un solo rigo, in quei giorni. Mi sentivo meno negligente, anche se Stefano non era mai stato un modello di istruzione.
Come sempre, la sua allergia alle scope aveva avuto la meglio: per terra c'era il solito posacenere, e la cenere dispersa faceva compagnia alle briciole. Iniziava anche a fare caldo. Ora che il sole era alto, la stanza si stava trasformando in un forno che puzzava di fumo.
Aprii l'anta del balcone, dove la serranda era per metà abbassata, e permisi all'aria di entrare. Il naso di Stefano produsse dei rumori strani quando qualcuno per strada suonò il clacson.
Mi guardai intorno in quello spazio ridotto per capire quante cose avessi da portare via. C'erano ancora un paio delle mie giacche ripiegate sulla sedia, le mie tazze della colazione, ma anche le borse e i libri. Nel piccolo armadio che dividevo con Stefano c'era ancora meno roba. Il mio intero guardaroba era infatti a casa di mia madre.
"Bene, sarà facile." Mormorai, incoraggiandomi. E tirai giù la mia valigia dal tetto dell'armadio. "Basterà un solo carico."
Afferrai le prime magliette e le sistemai con ordine in valigia. Il rumore stridente e inevitabile delle grucce diede però fastidio a Stefano, che si svegliò. Sobbalzò come per un rumore improvviso e si voltò, con gli occhi impastati dal sonno.
"Ah, sei tu?" Domandò, poi gettò la faccia sul cuscino. La tirò su e chiese ancora. "Che stai facendo?"
Non riuscivo a guardarlo in faccia; provavo nei suoi confronti un misto tra fastidio e senso di colpa. Era come se tutto il disagio che avevo accumulato in tanti anni di rapporto, stesse saltando fuori solo adesso.
Se da una parte ritenevo la sua strafottenza la vera causa di quello che mi era appena successo, dall'altra ero ormai consapevole che essere rimasta con lui, sopportando per anni di avere un ragazzo pigro e sporco, era stato un modo per distrarmi, per non restare sola coi miei pensieri. In poche parole, lo avevo usato.
Ora però non potevo più farlo. Come potevo baciare Stefano dopo aver baciato Dario? Perché avrei dovuto accontentarmi di un sesso mediocre e forzato, se con Dario mi ero sentita così viva e completa?
Se non potevo avere lui, volevo almeno qualcuno che mi facesse provare le stesse emozioni. E malgrado tutto, mi accorgevo che dire addio a quei cinque anni della mia vita era difficile.
Stefano si mise su, frastornato, le lenzuola incastrate tra i piedi. Il mio livello di sensibilità era maturato, e ora vedevo in lui un bambinone innocuo, che avevo ferito ingiustamente e che ora sarebbe rimasto da solo. Che avrebbe fatto senza di me? Aveva i suoi amici, ma nessuno di loro lo avrebbe accudito come avevo fatto io.
Se la sarebbe cavata? Non lo avevo ancora lasciato, ma volevo già piangere. In fondo, mi sarebbero mancate quelle serate spensierate in cui mangiavamo seduti a letto, parlando di stupidaggini e ridendo come matti davanti a un video di youtube. Mi sarebbero mancate le nostre sezioni di studio forzate, quando mangiavamo patatine e ci tiravamo addosso le matite e i pezzi di carta per scaricare lo stress.
Stefano era il mio migliore amico ed era stato presente in ogni momento della mia vita, fin dai quattordici anni. Chi ero io senza di lui? Cosa ne sarebbe stato di me, d'ora in poi?
"Dovrei fare anch'io il cambio stagione." Commentò Stefano, alzandosi come se pesasse una tonnellata e zampettando scalzo verso il bagno. "Sto morendo di caldo."
Si tolse la maglietta e la lanciò a terra. La porta era aperta, e lo vidi spostare le mutande e pisciare sbadigliando, com'era di suo solito. E improvvisamente non ero più dispiaciuta per lui.
"Stefano, lavati le mani e siediti." Gli dissi poco dopo, dimenticandomi dei vestiti. Respirai profondamente. Lui non si sedette, ma si lavò le mani e in un lampo tornò da me, con un'espressione carica di sospetto. "Tu vuoi stare davvero con me?"
La domanda non lo aveva sorpreso. Percepii che se l'era posta anche lui, e che si fosse dato una spiegazione di comodo. Si grattò la tempia, prese tempo per pensare, e alla fine disse:
"Ne parlavo proprio ieri con Tony. Dice che Asia è una testa persa e che non si fida di lei, perché, dopo avere scopato per tutto il giorno, ci ha provato con quel coglione con la moto, alla festa. Si è comportata da stronza. Tu almeno non sei così."
"Quindi è tutto qui?" Domandai, incrociando le braccia. Mi ero messa per istinto sulla difensiva. "Stai con me perché fuori c'è di peggio, non perché mi ami."
"Ma sì, certo che c'è anche... quella roba, nel mezzo." Si giustificò Stefano, un po' a disagio. "L'amore è razionale. Scegliamo una persona per quello che è, altrimenti pur di non stare soli ci metteremmo anche coi cani."
Quel concetto volgare mi illuminò inaspettatamente. Capivo cosa intendesse dire: amare è scegliere una persona per le sue qualità; fuori da questo principio è solo convenienza. Un errore, in sostanza. Quello che avevo commesso anch'io.
"Ecco perché dobbiamo lasciarci, Stefano." Gli dissi. La mia voce era bassa, profondamente triste, eppure sicura. "Tu ti stai accontentando di un cane. Magari è fedele e ti fa le feste quando ti vede, ma tu non lo vuoi davvero. Tu non mi vuoi. E io non voglio te."
Era più facile dare la colpa a lui, che ammettere ciò che provavo e sentirmi cattiva per questo. Vidi infatti i suoi occhi vibrare e dipingersi di tristezza. Era inevitabile ferirlo, ma non credevo che sarebbe stato così.
"Me n'ero accorto, lo sai?" Mi disse, teso, la mascella serrata. "Non fai altro che lamentarti da giorni. Non ti sta bene mai niente!"
"Sì, è vero!" Ribattei. Mi stavo innervosendo anch'io. Diedi un calcio al posacenere, che slittò in avanti disperdendo altra cenere. "Sono stufa di tutto questo! Mi sta facendo impazzire. Non riesco più a concentrarmi, non studio mai. Non va bene. Forse a te piace perdere tempo, ma così fai perdere tempo anche a me."
Tornai alla mia valigia e strappai altre magliette alla gruccia, stavolta con più rabbia.
"Allora è finita? Te ne stai andando davvero?" Stefano era alle mie spalle. Era incredulo.
Mi girai, stringendo tra le mani il mio ultimo maglioncino.
"Devo farlo, Stefano." Gli dissi.
"Perché?" Domandò ancora. "Non è la prima volta che litighiamo, abbiamo sempre risolto. Cos'è cambiato?"
Ripensai ancora a quella notte. Pelle contro pelle, sudore, calore. Quando avevo capito che c'era Dario sopra di me, avevo anche capito di volerlo e, istintivamente, mi ero lasciata andare. Mi ero abbandonata a dei sentimenti che erano emersi all'improvviso, ma che erano forti e chiari come nient'altro era mai stato: volevo Dario. Volevo fare l'amore con lui. Lui, lui, soltanto lui. Da sempre.
L'unico posto giusto per me era al suo fianco. Forse non ero pronta a tagliare i ponti con Stefano, a non vederlo o sentirlo mai più; ma sicuramente non volevo più essere la sua ragazza.
"Ho passato troppo tempo da sola, e mi sono accorta che sto meglio così." Gli dissi, ed ero triste davvero. Non volevo lasciarlo con una bugia, ma era sempre meglio della verità. "Io ti voglio bene, ma sono stanca di stare male."
Stefano si indurì. Era il suo tipico modo di reagire alle crisi.
"Tu neanche lo sai cosa significa stare male. Con me avevi tutto! Ora non troverai altro che dei figli di puttana che vorranno scoparti e basta."
Non sapevo ancora che quel figlio di puttana l'avevo già incontrato.
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