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POV NADIA

Mi allontanai dalle braccia addormentate di Dario con una calma che non aveva niente di razionale. Non dovevo neanche impormi di fare piano: scivolai dal letto e rimisi i piedi a terra con una naturalezza insolita, tanto che a malapena mi era sembrato di spostarmi. Ero diventata leggera. Eterea. Praticamente invisibile. Perché era così che volevo sentirmi.

La mia mente era andata in standby. Ogni altra funzione vitale aveva smesso di funzionare, solo quella parte intuitiva che mi suggeriva di scappare era attiva, e mi impediva di andare in preda al panico: dovevo restare lucida, fare le cose per bene ed eliminare con cura ogni traccia del mio passaggio.

Dario si sarebbe svegliato l'indomani con la convinzione di essere stato davvero con mia madre o, al peggio, di avere soltanto sognato. Non sarebbe stato facile. In nessuno dei miei più fervidi sogni avevo mai provato tanto piacere, e forse neanche lui. Ma dovevo provarci.

Ogni cosa che poteva essere ricondotta a me doveva sparire. I vestiti ammucchiati sulla cassettiera, i fazzoletti che avevo tanto amato, e soprattutto la spazzatura. Era stata una fortuna incredibile che non si fosse accorto di nulla! Ma se avessi saputo come eliminare i germi e le tracce biologiche, avrei fatto anche quello.

Recuperai il pigiama dal lato vuoto del letto, lo ripiegai con cura e lo sistemai nel cassetto da cui lo avevo preso. Puzzava da morire del profumo di mia madre, ma c'era ancora la possibilità che lei non si accorgesse che era stato usato, e ormai non avevo nulla da perdere.

Mi muovevo nel buio come un'automa per recuperare i miei oggetti, controllando il respiro, sentendo Dario respirare nel sonno e soffocando la voglia che avevo di tornare da lui, per ingannarlo ancora un po'. Quando arrivai alla porta, carica della roba che avevo raccattato alla rinfusa, mi voltai a osservare i suoi contorni. Si era addormentato di pancia, con la schiena scoperta e i jeans allentati.

Volevo baciare quelle spalle nude.

Era bellissimo.

Se solo me ne fossi accorta prima... Ma no, certo che me n'ero accorta, e proprio per questo lo avevo odiato. Perché lui non poteva piacermi, era off limits. E lo era ancora.

Se penso a tutto quello che gli ho detto, a quello che gli ho fatto... come potrebbe amarmi?

Ma non era un vero problema, dato che non mi avrebbe mai amata. Come poteva? Dario era più grande me, e io ero solo la figlia insopportabile della donna che aveva sposato. Non poteva guardarmi nel modo in cui volevo. Era semplicemente impossibile.

Una fitta straziante mi colpì all'altezza della gola, e dovetti allontanarmi. Da lui, ma anche da quella confusione che aveva causato e che si mischiava a un lutto insopportabile: la consapevolezza che fosse tutto sbagliato.

Arrivai all'ingresso tremando; le gambe non erano più in grado di reggermi e io crollai a terra, insieme a tutto ciò che trasportavo. Non ci fu un forte tonfo. Afferrai la borsa, gettai all'interno il cellulare spento e la maglietta con la quale ero caduta in piscina.

Questo mi fece ripensare a Gianmarco, quel maledetto sbruffone: era colpa sua se ero rimasta in quella casa! Sentii di odiarlo, volevo prenderlo a pugni; e invece me la presi coi fazzoletti, che non riuscivo a fare entrare in borsa. Afferrai un pacchetto e lo lanciai contro la porta. Ma sentivo ancora la rabbia montare, e ora odiavo anche Stefano. Mi aveva abbandonata da due giorni! Io vivevo una delle peggiori esperienze della mia vita, e lui probabilmente stava fumando con qualche amico!

E mia madre... dove diavolo era? Perché non era ancora tornata? Se le fosse successo qualcosa l'avremmo saputo per forza, quindi doveva essere soltanto in un clamoroso ritardo. Magari mi aveva avvisata, ma io non potevo saperlo perché il mio cellulare era morto. Cos'avrei fatto se fosse tornata a casa mentre ansimavo per suo marito... Li avrei persi entrambi? Era sconvolgente, non potevo pensarci.

E non avevo tempo da perdere. Ero ancora mezza nuda, avevo fatto in tempo a rimettermi le mutandine, ma non avevo pensato a rivestirmi. Cercavo di dimenticare di avere un corpo, perché quasi meno doloroso di ripensare al motivo per cui ero nuda.

Indossai la maglietta pulita, nera, larga abbastanza da coprire un corpo di cui ormai mi vergognavo, e le scarpe di tela. Non dovevo fare rumore. La mia borsa stava scoppiando, ma con un po' di fatica riuscii a chiuderla. Mi rialzai. Avevo fatto tutto, ora ogni cosa era in ordine. Dovevo solo sperare di non incontrare mia madre sul pianerottolo. Nel pensarci, ebbi un altro terribile capogiro.

Afferrai comunque le chiavi, che erano ancora le sue, quelle che Dario mi aveva consegnato quel giorno, presi anche il sacco della spazzatura e mi precipitai ad aprire la porta. Ma poi mi fermai. C'era il gelo sotto la mia pelle. Avevo freddo, e la casa sembrava molto più calda di come immaginavo la temperatura esterna. Di colpo capii di non voler andare via; Dario era lì, a pochi passi da me, e io volevo stare con lui.

Scoppiai a piangere. Le lacrime cadevano lungo le guance come acqua sotto la doccia, e mi coprii la bocca con la mano libera per soffocare i singhiozzi.

Perché è accaduto proprio a me? Perché sono sempre così sfigata? Tutti, ma non lui...

Stavo perdendo il controllo. Alla fine aprii la porta in preda alla disperazione.

Anche il palazzo era buio, tutti gli inquilini erano nelle loro case, ignari di ciò che era appena successo nell'appartamento di quel professore tranquillo e introverso. Nessuno poteva vedermi scendere le scale, stretta nel mio pesante cardigan nero, in preda ai brividi di freddo, trasportando una piccola borsa a tracolla che era piena fino al limite. Eppure mi sentivo osservata e giudicata, come se anche i muri sapessero che mi ero goduta qualcosa di terribile.

Avevo ancora le guance bagnate quando arrivai davanti al portone del palazzo. Le luci di una macchina parcheggiata sulla strada mi accecarono, distraendomi, mentre scendevo l'ultimo gradino.

Misi una mano davanti agli occhi, e guardai da quella parte strizzando le palpebre: le portiere della macchina erano aperte. Tre figure si muovevano lì accanto, una delle quali estrasse un trolley dal bagagliaio e lo poggiò per terra.

Controllai meglio: cazzo, io li conoscevo! Erano Amelia e suo marito che avevano accompagnato mia madre fino a casa!

Si erano fermati tutti e tre davanti al lato passeggero, probabilmente per scambiare gli ultimi convenevoli, e il mio cuore iniziò a battere a mille. Dovevo pensare in fretta! Mia madre stava per entrare e io non sapevo ancora cosa fare!

Non avevo più tempo per salire le scale. Erano proprio di fronte al portone, e se solo si fosse voltata mi avrebbe vista. Accanto a me c'era però la porta che conduceva al cortile interno. Mia madre si era appena mossa quando l'aprii e l'attraversai.

Era una sottile porta di compensato, e la richiusi in tempo. Avevo il cuore in gola mentre ascoltavo il portone che cigolava, seguendo il rumore dei passi stanchi di mia madre come se ne andasse della mia vita. Il suo percorso fino all'ascensore, tirando il trolley, mi sembrò infinito. Mi rilassai soltanto quando i rumori cessarono e l'ascensore iniziò la sua ascesa.

Eppure, rimasi immobile. Il cortile attorno a me era vuoto, sentivo soltanto il rumore dei carrubbi oscillati dal vento e l'odore dei gelsomini attaccati al muro di cinta. Qualcuno ai piani superiori era ancora sveglio. La luce della loro cucina schiariva le fronde degli alberi e si rifletteva sull'acciaio consunto dell'altalena. L'appartamento di Dario era ancora immerso nel buio, ma sollevai lo sguardo e continuai a fissare la finestra della camera da letto, aspettando di vedere o udire qualcosa.

Era l'attesa più straziante della mia vita. Seppi che mia madre era entrata quando la luce dell'ingresso attraversò la cucina. Un'altra luce si accese in bagno.

In che condizioni lo avevo lasciato? Era tutto in ordine? Non lo ricordavo, ma lei sapeva che ero entrata in casa quando me lo aveva chiesto, quindi sì, avrei trovato una scusa plausibile.

Il rumore dello scaldabagno mi riscosse dai pensieri. Mia madre fece una lunga doccia che io seguii con lo stesso inquietante interesse di un pervertito. Vedere le sue ombre attraverso la finestra ovattata mi era di conforto, mi illudeva di avere il controllo della situazione.

Quando al termine della doccia aprì la finestra, mi appiattii contro il muro temendo che si affacciasse. Sentii il rumore del phon e mi domandai se si fosse già accorta che Dario era in casa. Con tutto quel baccano, si sarebbe svegliato per forza! A meno che non si trovasse nella fase REM. Avevo sentito dire che la prima parte del sonno era la più profonda. Se era lì, neanche le bombe lo avrebbero svegliato.

Poi mia madre spense il phon, lo mise da parte e uscì dal bagno. La prossima luce che accese fu proprio quella della camera. La finestra del bagno era ancora aperta e io aspettai di sentire le loro voci. Ma non accadde nulla. Lei aveva già spento l'interruttore, come se finalmente avesse notato la presenza di suo marito e avesse deciso di non svegliarlo. Da lì in poi ci fu soltanto silenzio. Potevo solo immaginare che si fosse semplicemente coricata al suo fianco, senza farsi domande. Ne avrebbero avuto il tempo il giorno dopo, ma io a quel punto sarei stata lontana.

Poco dopo, mi ero liberata della spazzatura e stavo vagando per le strade senza una vera meta. Ero così moralmente esausta, che non riuscivo neanche a piangere. Ero soltanto sovrappensiero, ma non avevo più il controllo dei miei pensieri. Avevo allontanato per istinto tutto ciò che riguardava la mia serata, e mi concentravo su memorie e sensazioni legati alle strade che percorrevo.

Stavo passando vicino casa di Erica; per un periodo eravamo state molto amiche, ci piaceva sparlare di chiunque, e le nostre cattiverie erano diventate proverbiali; finché un giorno non mi accorsi che lei faceva la stessa cosa con me. In fondo alla strada c'era il garage di quel suo ex fidanzato che tante volte ci aveva invitato a fare festa. Dall'altra parte c'era anche la mia parrucchiera, che si era appena sposata ed era in luna di miele. Aveva fatto tutto in fretta perché era incinta. Cavolo, certa gente era già avanti di cento vite.

Camminare per le strade buie da sola non era l'attività più sicura del mondo, ma io mi sentivo invincibile. Avevo già avuto la mia dose di orrore, per quella notte, cos'altro poteva capitarmi? Così, continuai a vagare tra i vicoli e le strade più buie, passando al di sotto dei balconi e beandomi di quegli odori confortevoli di bucato appena steso, carne arrostita e salsedine. Infatti mi stavo avvicinando al mare, e anche l'aria si era fatta più umida e frizzante. Mi resi conto che il mio inconscio mi stava portando proprio lì. Non volevo tornare da Stefano. Volevo stare sola.

Dopo aver camminato a lungo arrivai a San Giovanni Li Cuti, una piccola spiaggia nera in mezzo alla città. Sarei inciampata tra la roccia lavica se avessi provato ad attraversarla al buio, così mi avvicinai al piccolo molo e procedetti a piedi fino in fondo. Laggiù tra gli scogli c'era un muretto, sul quale mi ero seduta tante volte con Stefano, ai tempi della scuola, quando eravamo ancora due giovani, piccoli innamorati. A quel tempo, Dario era appena entrato nella mia vita; non avrei mai immaginato che sarebbe finita così.

Poggiai la borsa pesante sul muretto, mi arrampicai e sedetti a gambe incrociate. La mia testa si liberò ancora una volta dei suoi pensieri più funesti e si concentrò sul paesaggio. In quella quiete notturna, il porto si stagliava come un rifugio di pace sotto al manto stellato. Il luccichio delle onde infrante sulla riva e il sussurro della risacca componeva una sinfonia rassicurante che mi avvolgeva nella sua serenità, accompagnata dal sibilo delle corde che si intrecciano tra i pali del molo, mentre le navi pescherecce oscillavano leggermente al ritmo delle maree e l'aria era densa di odori salmastri e penetranti, mescolati al profumo intenso di pesci e alghe.

Era come perdersi in un sogno in cui tutto era bene. Uno di quelli in cui tutto alla fine si sistema, come nei film, anche se il viaggio è stato un inferno. Ma per me non c'era un lieto fine in vista. Che mia madre scoprisse tutto o che rimanesse solo un segreto tra me e la mia coscienza, sapevo di essere destinata a un dolore senza fine.

E così, sola con i miei pensieri, mi lasciai andare alle lacrime. Mi coprii il viso con le mani, temendo che qualcuno potesse sentirmi, e lasciai che tutto il dolore esplodesse come un fiume in piena.

"Ehi, chi c'è lì? Ti sento piangere!"

Una voce maschile mi aveva raggiunta dalla strada. Mi ricomposi e mi asciugai le guance. Sembrava amichevole, ma mi spaventai lo stesso. Credevo di avere controllato che non ci fosse nessuno! Forse si era nascosto al buio, e se l'aveva fatto doveva significare che fosse una persona distrutta quanto me.

"Vattene, sono armata!" Urlai. Ma l'arma più letale che avevo era la mia borsa pesante quanto un masso.

"E io sono uno dei One Direction." Mi rispose la voce dall'altra parte del molo. "Dai, mi posso avvicinare? Guarda che non sono pericoloso."

"È quello che hanno detto tutti i migliori assassini della storia!" Ribattei.

"Sul serio?" Disse ancora. "Che strano, questo non c'era sul mio Manuale del Serial Killer."

Sorrisi senza rendermene conto. Quella conversazione aveva un che di familiare. Mi sembrò di avere già sentito quella voce, ed ebbi l'impressione che fosse un po' scemo.

"Davvero, vattene. Sono venuta qui per stare da sola. Non voglio parlare con te, chiunque tu sia." Gli dissi, e sperai seriamente che se ne andasse. Io non potevo farlo. Non avevo un altro posto in cui andare.

Ci fu silenzio. Guardai il porto, controllando con attenzione che quella persona di cui vedevo soltanto l'ombra non si stesse avvicinando. Ma lui stava fermo, a braccia incrociate. Mi accorsi che non si era neanche spostato e che se ne stava seduto su una moto di grossa cilindrata.

"Ti chiami Nadia, vero?" Mi domandò. E in me si accese una luce.

"Gianmarco?"

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