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capitolo 1.3

Inizia a piovere. Me ne accorgo dal cielo che si fa più grigio e dalla luce naturale che sembra scomparire dentro la stanza. Guardo l'orologio impaziente in attesa che Tommy mi chiami di ritorno dal turno di lavoro. Il letto sembra il rifugio più piacevole in questo giorno interminabile e accendo la radio che passa "Non avere paura" di Tommaso Paradiso, una delle mie preferite e di sicuro la più adatta allo stato d'animo del momento. Mi perdo tra le note e tra le parole della canzone che di colpo è già finita per lasciare spazio alle notizie. Porto al minimo il volume della radio. Sono le 17.00 in punto, a quest'ora probabilmente il pranzo di nozze sarebbe terminato per lasciare spazio alla festa. Mi immagino a ballare un lento al centro della sala stretta a Tommy, circondati dai nostri amici e parenti, tutti abbracciati tra loro, euforici di felicità e di champagne bevuti tutti d'un sorso, con il sudore che gronda sulle schiene di chi ha ballato incessantemente sulla pista e i baci degli innamorati nascosti nella penombra, con le mani che appiccicano di zucchero a velo e le bocche spalancate in canti e sorrisi. Senza che tutto questo sia pericoloso. O vietato.

Nell'armadio all'angolo ho appeso il mio vestito da sposa. È lì da quindici giorni, al buio, mischiato alle giacche dismesse, proprio lui, che per me è stato così importante, desiderato, atteso, amato. Ma è solo in stand by, come tutte le nostre vite del resto, in perenne attesa. In attesa del bollettino medico del giorno dopo, in attesa di altre restrizioni, in attesa di notizie, in attesa di poter finalmente scongelare le nostre vite che si sono fermate in quel giorno in cui il Covid-19 ha fatto capolino nel nostro mondo dalla porta di servizio, silenziosamente.

Era una minaccia lontana, come la guerra, una di quelle cose che capitano dall'altra parte del mondo ma che qui no, non arriverà mai. È stato un motivo per cui dispiacersi per un intero popolo; è stato un motivo per sentirci fortunati perché non eravamo lì; è stato una tragedia che ci ha tenuti incollati al televisore sputando giudizi ma tutto sommato tranquilli perché, oltre che invisibile, era anche lontano migliaia di chilometri. Poi tutto è cambiato. Non ci sono confini nazionali, non ci sono ricchi e nemmeno poveri, non ci sono Nord e Sud, non ci sono forti o deboli, non ci sono personaggi famosi e inarrivabili né sconosciuti da ignorare: pur nella distanza, pur nella restrizione, siamo tutti passeggeri della stessa barca che cerca incessantemente di scorgere terra. Continua a essere una minaccia invisibile, è vero, ma possiamo chiaramente avvertirla vagare per le strade, tra le corsie degli ospedali, la temiamo annidata in mani amiche, la vediamo riflessa negli occhi di chi ci guarda, la sentiamo respirare alle nostre spalle e cerchiamo di sfuggirle in un countdown senza una scadenza precisa, sicura. Ma comunque non da soli.

Ora che sento la sua voce dall'altra parte della cornetta scoppio in un pianto sommesso: non sarebbe dovuta andare così, tra noi, per noi. Non riesco proprio ad accettarlo, l'ho aspettato trepidante per un anno intero questo giorno.

«Perché proprio a noi?», chiedo senza aspettarmi una risposta ragionevole, perché risposta a questa domanda non c'è.

Sento le sirene che sfrecciano da sottofondo alla voce di Tommy: è impegnato nei posti di blocco che precludono gli spostamenti in alcune zone meno obbedienti e mi rendo conto che dopo una dura giornata di lavoro ascoltare i miei pianti è l'ultimo dei suoi desideri. Mi scuso.

«Mi sono domandato tutto il giorno la stessa cosa» mi rincuora, sollevandomi dai sensi di colpa.

«Davvero?», chiedo sentendomi improvvisamente meno sola.

Come avevo potuto dimenticarlo anche solo per un secondo? Noi due siamo una squadra, uno la forza dell'altra e anche se siamo lontani, restiamo comunque sempre vicini, sempre.

Inoltra una foto scattata questa mattina mentre era in servizio: inserisco il vivavoce al telefono per poter accedere all'immagine e vedo due giovani, un ragazzo castano con le mani infilate nelle tasche dei jeans e una ragazza con i capelli biondi sciolti sulle spalle. Non capisco cosa significhi la fotografia e allora Tommy mi spiega. Se ne stavano fermi, uno di fronte all'altra, a parlare a qualche metro di distanza, sotto l'occhio vigile dei militari. Si raccontavano delle loro giornate confinati in due paesi limitrofi ma "chiusi" e per questo, con i piedi fermi sull'ultimo centimetro permesso prima del confine, si sorridevano parlando di giorni migliori: quelli passati e quelli che arriveranno. Non sembravano essersi accorti del tempo che scorreva, continuavano a parlare nel silenzio della pianura intorno, nel silenzio dei militari, nel silenzio della strada deserta. E non sembravano nemmeno accorgersi di chi li stava guardando o, semplicemente, non se ne curavano. Si scambiavano frammenti di notizie e timori per i giorni futuri, nella paura che domani il virus avrebbe potuto colpirli e quindi avrebbe tolto loro anche la possibilità di guardarsi, seppur a distanza. Gli occhi di lei erano velati di lacrime a questo pensiero, le gambe di lui fremevano perché avrebbero senz'altro voluto disobbedire al divieto di stare fermo sul posto per poterla abbracciare, toccare, baciare, proprio come aveva potuto fare ogni giorno in precedenza; ma la testa invece diceva che no, avrebbe potuto contagiarla o viceversa e allora avrebbero dovuto fare a meno uno dell'altra chissà per quanto tempo. Gli occhi di lei continuavano a essere velati di lacrime, proprio come lo erano anche quelli di lui adesso, ma la ragione aveva prevalso sull'istinto e continuavano a parlarsi così, a qualche metro di distanza, obbedendo alla restrizione.

«Questo è ciò che stanno vivendo tutti, non sentirti la sola», commenta saggiamente Tommy, con voce affranta.

«L'amore ai tempi del corona virus», aggiungo.

Vorrei poterlo vedere, toccare, abbracciare o anche non fare niente seppur insieme a lui. Sono solo diciotto chilometri quelli che ci dividono eppure sembrano essere diventati una distanza insormontabile. Ormai non c'è programma televisivo o radiofonico che non ripeta costantemente le regole igieniche per il contrasto del virus o i dettami del decreto del governo: non si può uscire se non per comprovate esigenze di lavoro, per la spesa o altre necessità impellenti ma solo nei dintorni del proprio domicilio. Non di certo a diciotto chilometri. E guardando una nostra fotografia appesa al muro della camera ripercorro con gli occhi il suo profilo, gli occhi neri, la bocca rossa come disegnata, la barba leggermente incolta sulla carnagione scura e gli occhiali da sole sulla testa.

«Ci sei ancora?», preoccupato da mio silenzio.

Annuisco e riesco a sibilare un impercettibile "si": forse non sono convinta nemmeno io di esserci ancora, di essere ancora qui.

«Cosa farai questa sera?» chiede tentando di farmi sorridere con una battuta, sapendo benissimo che resterò in casa proprio come ieri, proprio come tutti;

«Fai attenzione in strada», rispondo seria e preoccupata mentre un'altra lagnosissima sirena gli sfugge alle spalle fino a scomparire;

«Stai tranquilla!».

Anche con il volume al minimo la radio mi avverte che stanno per trasmettere il bollettino giornaliero che riguarda la malattia. Aumento, ma non troppo, giusto al punto per sentire ciò che non sono sicura di voler più sentire. I contagi si espandono così come i decessi e dopo la sfilza di numeri propinati, per nulla rincuoranti, ci sono anche delle timide cifre che riguardano i guariti. I numeri di chi ce l'ha fatta passano alla fine del servizio per lasciarli bene impressi nelle menti di chi ascolta, come un brandello di speranza al quale potersi aggrappare per le proprie considerazioni. Prendo il pacchetto delle sigarette dal comodino, mi procuro l'accendino perché ho voglia di tirare qualche boccata ma lo sguardo cade sulla foto impressa nel lato anteriore che ritrae un uomo di mezza età, intubato e sofferente. È una persecuzione: non credo fumerò.

Esco dalla mia stanza sconsolata, aggirandomi nel silenzio della casa. La Tv accesa della nonna risuona nel corridoio mentre mia madre occupa la poltrona di papà intenta a leggere un libro. Mi scorge passare e smette, abbassa gli occhiali sul naso e mi invita ad avvicinarmi, non troppo ovviamente. Ripone il libro e ce ne stiamo per qualche secondo in silenzio a fissare tutto intorno la sala.

«E pensare che oggi avrebbe dovuto esserci un gran caos in questa casa. Te lo immagini? Parrucchiere, fotografo, truccatrice e poi il rinfresco, i vestiti, le scarpe e le bomboniere», sogna sorridendo, con lo sguardo fisso e perso nel vuoto.

Annuisco abbassando lo sguardo, non vorrei proprio che scoprisse le lacrime sui miei occhi.

«Ti ha telefonato Tommy?», chiede preoccupata. Lo adora, come fosse suo figlio. Mio fratello Alex vive all'estero per lavoro, in Francia. Laggiù la situazione non è grave come qui in Italia, ancora. Sono tutti molto ottimisti sul fatto che riusciranno a fare meglio del nostro Paese, mio fratello compreso, sono tutti convinti che riusciranno a tenere a bada il virus. Io non ne sarei così certa, fossi in loro. Le telefonate tra Alex e mia madre sono una la copia dell'altra: lei gli chiede costantemente di rientrare in Italia mentre lui si oppone, si sente più sicuro lì.

«Oggi per la prima volta l'ho sentito preoccupato», continuando a guardare un punto lontano, tesa, «Tuo fratello», spiega, «Mi è sembrato preoccupato sul serio».

Ci si sente forti di fronte a un virus minuscolo, pressoché invisibile. Per di più ci sente forti quando ancora non ha bussato alla nostra porta. Ma quello che ho imparato da questa situazione è che tutto può cambiare in un attimo e un Paese libero, connesso, globalizzato, si può trovare in un secondo confinato in un'altra epoca, in una di quelle in cui esiste il coprifuoco, esistono restrizioni, esiste la paura di un male per il quale non si può correre in farmacia per curarsi. Ed è triste: in un attimo è guerra. Perché di questo si tratta. Solo che il nemico non arriva con rumorosi carro armati, non lo si vede arrivare con navi o aerei, non lancia bombe o spara proiettili, si tratta di un nemico più subdolo e insidioso, un parassita che ci usa gli uni contro gli altri per diffondersi, silenziosamente.

Coco abbaia implorandomi con sguardo languido e il guinzaglio stretto tra i denti. Beato te Coco, che non ti puoi accorgere di quanto tutto sia cambiato! Mi alzo a fatica: il riposo forzato impigrisce ma so che devo almeno portarlo a fare la sua impellente passeggiata.

Trotterella scendendo le scale, scodinzolando e tirando per arrivare più in fretta ed eccoci qui, in strada. Ci fermiamo contemporaneamente appena fuori dal portone: credo che questo silenzio appaia strano persino a lui. Non una persona, non un passante, negozi chiusi, mi stupisco che siano rimaste accese le luci dei lampioni. Ci incamminiamo passando accanto alla fontana di Trevi, ci soffermiamo nei pressi per guardare quelle statue immobili che questa sera sembrano così sole e così sprecate senza turisti e senza fotografie. Credo sia una situazione nuova anche per le statue che difficilmente avranno mai assistito a questa desolazione. Proseguiamo senza incontrare anima viva per un bel pezzo. Ci spingiamo fino a via del Corso: deserta. Guardo a destra e riesco a scorgere fino a piazza Venezia, poi a sinistra fino a piazza del Popolo. Non un'automobile, nessuna calca, nessun artista di strada a esibirsi, nessun negozio aperto, nessuna voce, neppure in lontananza. Sembra un sogno o giù di lì, sembra il set di un film, sembra un dipinto, ma non la mia Roma caotica e chiassosa. Siedo sul marciapiede e Coco mi raggiunge scodinzolante ma confuso: non lo avevo mai fatto prima, sedermi nel bel mezzo di questa via solitamente affollatissima a ogni ora del giorno e della notte. Il silenzio avvolge ogni cosa, i palazzi, i monumenti; le finestre delle case sono chiuse, tanto non c'è nulla da vedere di sotto, è sparito anche quel continuo frastuono del traffico che scorre o che, spesso, non scorre per le strade; sembriamo gli unici sopravvissuti a una catastrofe globale, soli in una città ormai deserta. Scatto qualche fotografia con il cellulare e più passano i minuti più mi terrorizza continuare ad assistere ancora a questa desolazione: non passa davvero nessun altro. Mi aspetto, da un momento all'altro, di sentir suonare una sirena che preannunci un attacco aereo e imponga la ritirata nelle cantine o nei nascondigli, un po' come doveva essere stata Roma ai tempi della seconda guerra mondiale. Leggere tutto questo su un libro di storia o viverlo è di gran lunga differente: ammetto che mi è sempre sembrata un'assurda favola quella delle città desertificate dalla guerra, ora ho cambiato opinione. Coco si infila sotto il mio braccio per attirare l'attenzione che si è persa lontana da qui, da ora.

La Tv sta proponendo le immagini che ho visto poco fa con i miei occhi ma il servizio, sapientemente montato con una melodia strappalacrime, rende il panorama ancora più triste e desolato. E come Roma anche Milano, Napoli, Bari, Firenze, tutte le grandi città sembrano piombate in un sonno profondo. Potresti giurare che sono solo fotografie e non filmati, tanta l'immobilità a cui si assiste, se non fosse per le fontane che continuano a sgorgare acqua o gli uccelli ad attraversare gli squarci di cielo inquadrato. Poi le telecamere si spingono ancora più in là, all'estero, e vedo che le grandi metropoli si stanno mano a mano svuotando, lentamente.

La notte faccio fatica a prendere sonno senza il brusio della gente che si ferma a bisbocciare proprio sotto le nostre finestre: la notte è diventata troppo silenziosa per i miei gusti! Ho rispolverato i vecchi libri di scuola dallo scaffale in camera: per conciliare il sonno ho deciso di leggere un saggio che racconta dell'Alto Medioevo, prima dell'anno mille, quando l'umanità era stata decimata da guerre, carestie, epidemie e tutti temevano che quella fosse la punizione divina per i peccati commessi dagli uomini; tutti vivevano nascosti nelle loro case sicuri che si avvicinasse la fine del mondo. Chiudo il libro per nulla consolata, avrei dovuto scegliere un'altra lettura, magari un romanzo.

L'unico lato positivo è che finalmente questa straziante giornata è giunta al termine e domani non sarò più costretta a pensare che questo sarebbe dovuto essere un giorno di festa e invece è stato solo un altro giorno di solitudine.

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