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capitolo 1.1


La ghiaia scricchiola sotto la pressione del tacco a spillo mentre Tommy chiude la portiera della macchina. Con il naso all'insù ammiro l'eleganza della villa per cerimonie: il direttore ci accoglie sorridente porgendoci la mano, mentre la nebbia fredda che si alza dal lago antistante ci stringe in un brivido. Ma non posso ancora entrare, sembra un sogno qui fuori: un giardino curato nei minimi dettagli, colorato da una grande varietà di fiori, ombreggiato da alti alberi e delimitato da una ringhiera bianca e dorata che lascia intravedere il versante opposto del lago, reso scuro dalla notte ma costellato da una miriade di luci. Entriamo. Adoro i lampadari, i tendaggi, la mobilia, i tovagliati, le porcellane. Per me va già bene tutto così com'è e leggo negli occhi di Tommy lo stesso pensiero, lo stesso entusiasmo. Sarà che questo posto sembra essere stato scelto per noi dal destino: siamo finiti qui per un caso fortuito una mattina di qualche mese fa, percorrendo la strada che costeggia il lago. Cercavamo un locale in cui avremmo dovuto suonare con la nostra band e ci siamo trovati davanti al cancello chiuso di questa meravigliosa e imponente villa. Per sbaglio. Lo sbaglio migliore che potessimo fare. La mano di Tommy che stringe più forte la mia, adesso che siamo all'interno, suggerisce che i miei pensieri siano anche i suoi: il cuore accelera e gli occhi si inumidiscono di emozione. Mi accosto stringendolo forte per condividere l'immensa felicità del momento e per fargli sapere che non sono mai stata più sicura di qualcosa in tutta la mia vita. Ma è tempo di discutere i dettagli: ci accomodiamo in un angolo della sala ristorante in attesa di stabilire il menù che serviranno il giorno del matrimonio, noi da un lato della scrivania, il direttore qui di fronte.

9 marzo 2020

Ogni cosa successa in quel giorno, ora sembra essere lontana anni luce da ciò che ci è ancora permesso fare.

E' come aver vissuto una vita su un altro pianeta, uno senza distanze fisiche, senza troppe regole, senza paure. In quel giorno di un anno fa abbiamo violato praticamente tutte le regole che oggi scandiscono le nostre giornate.

Guardo la Tv allibita mentre spot istituzionali ripetono di restare in casa, di evitare assembramenti, di lavare e disinfettare tutto, continuamente. Quella sera avevamo stretto calorosamente la mano del direttore della villa, avevamo sfogliato un menu mentre assaggiavamo tartine senza lavare le mani, eravamo entrati in un locale pubblico ancora aperto, ci eravamo trovati a ispezionare una sala da pranzo gremita di commensali chiassosi: tutto senza aver dovuto indossare una mascherina chirurgica. Non sembra nemmeno più una circostanza reale, come fosse solo un sogno.

Eppure proprio quella sera, abbiamo assistito a qualcosa che ora sembra quasi un segno premonitore, qualcosa che in quel momento ci aveva solo fatto sorridere e a cui non avevamo dato importanza. Sfogliavamo il menù commentando a bassa voce le portate sotto lo sguardo attento del direttore della villa, dibattendo di crostacei e vini, di antipasti e dessert. Poi un tonfo potente e sordo scoccato nell'aria e propagato rapidamente al vibrante terreno instabile sotto i nostri piedi: fu solo qualche secondo, abbastanza perché tutti smettessero di parlare e il locale piombasse in un silenzio inquietante. Gli occhi di Tommy puntavano i miei, disorientati, mentre il direttore aveva immediatamente raggiunto la sala per tranquillizzare gli ospiti: «Non è stata che una leggera scossa di terremoto. Nulla di cui temere!», composto e rassicurante.

Quando finalmente era tornato a sedersi al suo posto e i miei occhi erano rivolti di nuovo da quella parte, non ricordavo di aver visto prima quella crepa aperta nell'intonaco alle sue spalle e fissarla, era diventato improvvisamente più importante del menù di nozze. Giusto il tempo di decidere di riprendere a respirare.

Era stato esattamente un anno fa anche se sembra essere passato un secolo. Proprio oggi avrei dovuto camminare incontro a Tommy percorrendo una lunga navata addobbata di fiori bianchi, con lo strascico del velo allungato sul pavimento e cento occhi fissi sulla sposa radiosa, decine di abbracci calorosi, centinaia di strette di mano e risate e balli. E invece mi trovo qui, sola, isolata, sdraiata sul letto a guardare un soffitto che conosco a memoria.

Sono una persona istintiva, impulsiva, passionale e francamente mi sembra assurdo che il rifugio in un abbraccio possa essere diventato letale, come un bacio o una carezza, qualsiasi tipo di contatto, qualsiasi vicinanza. Eppure l'incubo del contagio si è insinuato persino nella mia vita, nel mio modo di pensare, di essere: la distanza e le precauzioni igieniche sono diventate l'unica regola che scandisce le giornate.

Vivo in un antico palazzo nel centro storico di Roma e Fontana di Trevi è il mio giardino personale: dalla finestra della camera riesco a intravedere il dio Oceano che mi fissa incredulo, immerso nella grande vasca a forma di conchiglia. Nessun turista a contemplare lui e i suoi tesori sommersi. L'aria intorno è inverosimilmente silenziosa, riempita solo dallo scroscio dell'acqua che sgorga nella fontana e che si propaga nei vicoli intorno. Sulla piazza sotto la finestra, il grande portone della chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio a Trevi è serrato, tristemente. Nessuna calca, nessuno schiamazzo, nessun mormorio: persino le campane hanno smesso di suonare da qualche giorno. Non è mai corso buon sangue tra me e il campanile qui accanto, non ho mai amato quei rintocchi a tutte le ore del giorno e della notte e no, non mi sono mai abituata a sentirlo, non è affatto vero che dopo un po' non ci si fa più caso. Eppure non so cosa darei per poter ascoltare di nuovo il chiassoso martellare delle campane o gli schiamazzi dei turisti senza orario, che scorrono impetuosi sotto le finestre come un incontrollato fiume umano.

Mi concentro sul silenzio forzato per cercare di apprezzarlo e invece finisco per odiarlo di più, con tutta me stessa.

Due tocchi alla porta: è mia madre che avverte dell'ora di pranzo. ­­­­­­­­

Siamo le uniche commensali di questo silenzioso pasto: mia madre a un capo del tavolo e io all'altro, a un paio di metri di distanza. Anche il cibo sembra aver perso il gusto di un tempo o forse sono io che sto perdendo l'appetito. Evitiamo di sforzarci a dire qualcosa, tanto si finisce per ripetere sempre le stesse cose: i contagi che aumentano, i decessi, le restrizioni e tutto diventa ancora una volta più complicato. Meglio tacere.

Ingoio a fatica il boccone mentre una lacrima si ribella e riga il viso, pensando che oggi sarebbe dovuto essere il nostro giorno, il nostro matrimonio: la scaccio in fretta con il dorso della mano per evitare di aprire l'argomento. Ma la mamma, si sa, ha il potere di vedere anche se non sta guardando e come se leggesse esattamente le mie emozioni dice: «Passerà angelo mio, passerà e tornerà tutto come era. E faremo una festa magnifica quel giorno», tenendo a fatica lo sguardo nel piatto.

Ora le lacrime scorrono disordinatamente sulle mie guance e questa volta non faccio nulla per nasconderle, le lascio scendere fin sulla tovaglia e ognuna di esse, nel cadere, sembra un macigno di cui riesco finalmente a liberarmi. Mi guarda, mia madre: da dietro gli occhiali spuntano i suoi occhi dolci e rassicuranti che mi fissano amorevoli, quasi come un abbraccio e tutto ciò che posso fare è ricordare che le sue braccia sono sempre state il mio nascondiglio preferito, un tempo. E di sicuro torneranno a esserlo un giorno, quando sarà di nuovo permesso.

Skype squilla dal pc che ho lasciato in un angolo sulla credenza: è mio padre che telefona. Lavora in ospedale, incessantemente, e in questi giorni riusciamo a vederci solo attraverso il monitor del computer. È un brillante cardiochirurgo e a volte mi chiedo come sia possibile che io sia davvero sua figlia dato che rabbrividisco anche per un ginocchio sbucciato. Mi manca molto vederlo in giro per casa a scrutarmi sforzandosi di non mostrarsi mai pienamente soddisfatto di me, senza riuscirci in effetti. Avrei voglia di vederlo varcare la soglia per poterlo incontrare fisicamente anche se questa parola sembra aver perso il suo significato originario in questo periodo: quel metro che deve separarci dagli altri per colpa del pericolo di contagio sembra diventare chilometri quando hai di fronte chi ami.

Dorme nella medicheria del reparto, in ospedale: lo trovo molto triste. Anche i suoi colleghi, come lui, evitano di uscire da lì per non diffondere un'eventuale virus.

Mi sorride appena appare sullo schermo, come per rassicurarci, ma mi accorgo lo stesso che è un sorriso forzato, stanco; credo anche mia madre pensi la stessa cosa perché per un attimo distoglie lo sguardo da lui per lanciarmi un'occhiata interrogativa, poi torna a guardarlo per investirlo di domande preoccupate e io lascio loro lo spazio per parlarsi. Ma lo guardo, seppur in silenzio e noto le occhiaie marcate, la carnagione spenta, le guance e la fronte segnate dalla mascherina protettiva in plastica che è costretto a indossare praticamente sempre lì dentro. Si sta prendendo un momento di riposo, sorseggia l'irrinunciabile caffè e, come sempre, nasconde dietro la tazzina le emozioni che oggi però, trapelano prepotentemente dagli occhi lucidi.

«Va tutto bene, papà?», chiedo con un filo di voce sperando in una risposta tranquillizzante, accetterei volentieri anche una bugia, per non saperlo afflitto.

Semplicemente annuisce, forse lo fa per non mentire spudoratamente e perché sa benissimo che qua fuori abbiamo bisogno di sapere, ma non troppo.

Passo la mano sullo schermo del pc come fosse una vera carezza, per dargli forza, per dirgli che presto tornerà a casa senza più paura di farci del male e nello stesso momento papà porta la mano all'altezza dell'obiettivo della videocamera perché io possa vederla ben inquadrata al centro dello schermo: anche io faccio lo stesso e sovrappongo virtualmente la mia piccola mano tremate alla sua, così grande e forte.

Alle sue spalle scorre frenetica la vita nel reparto, inquadrata dall'obiettivo del pc: medici frettolosi intenti a calzare guanti in lattice, infermieri che trascinano gambe stanche, macchinari di ogni sorta spostati da una parte all'altra e poi, la chiamata per lui, costretto a salutarci, abbozzando un ultimo faticoso sorriso.

Chiudo il pc. Restiamo a guardarci in silenzio mia madre e io, indecise se commentare o meno la conversazione: forse sarebbe troppo doloroso parlare dell'aria afflitta e preoccupata che abbiamo visto su quel viso stanco ma così nobile, che ha tentato di nascondercelo per tutto il tempo. Senza successo.

Ho bisogno di non pensare in questo momento e prendo il vassoio da portare alla nonna, confinata nella sua stanzetta. Sono giorni che non esce, terrorizzata dal virus e debilitata dall'influenza che la costringe a letto. La televisione costantemente sintonizzata su Tg e dichiarazioni del governo, a ogni ora: nel corridoio rimbomba senza sosta l'audio concitato degli opinionisti, dei giornalisti, della gente comune che si racconta in Tv. Le porto il vassoio: l'accordo è che io bussi per avvisarla lasciandolo a terra per evitare di incontrarla. Quindi busso ma puntualmente disobbedisco aspettando pazientemente che raggiunga la porta, che azioni la maniglia, che lentamente apra per sentirle dire ogni volta: «Via di qui principessa, via di qui».

Sorrido rassicurante e alla fine sorride anche lei ma non è facile corromperla e in un attimo mi chiude la porta dritta in faccia. Non riesco a immaginarla mangiare tutta sola e quindi mi siedo a terra con la schiena addosso alla porta chiusa e solo in questo momento riesco a sentire l'audio della Tv che quasi scompare perché, in questo modo, riusciamo a scambiare qualche parola. È il mio servizio informazioni personale: se solo avessi perso qualche notizia dell'ultimo minuto, questo sarebbe senz'altro il momento per mettermi in pari perché, invece di mangiare, preferisce di gran lunga aggiornarmi con tutto ciò che c'è da sapere e anche con tutto ciò che so già, a dire il vero.

Trovo davvero ingiusto che si sia spontaneamente relegata nella sua stanza, non posso accettare che sia sola tutto il giorno. Ma ho paura per lei, so che difficilmente riuscirebbe a sopravvivere a questo virus nelle sue condizioni, quindi rispetto la sua volontà e me ne sto qui seduta a chiacchierare, il più vicino che sia permesso, tagliata fuori da una porta di legno.

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