Capitolo 31
Si sistema il cappello e si piega sulle ginocchia. Si avvicina con fare curioso, come se avesse appena schiacciato un insetto. I fari dell'auto sono ancora accesi e illuminano le rughe sul suo volto.
La barba incolta, gli occhi scuri. Mi penetrano e terrorizzano.
«William Greys», mi chiama. «Stai bene?».
Lo sceriffo O'Donnell mi porge la sua mano, ma ritraggo le gambe da sotto la macchina e cerco di rimettermi in piedi.
Barcollo.
«Hai bevuto? Dove stai andando?».
Ha un tono di voce greve, imperativo. Immagini annebbiate si accavallano nei miei pensieri. Ombre, grida, ricordi turbati.
«Bill», mi sento chiamare. «Sali in macchina».
Il cuore manca un battito, ma mi pietrifico sul posto. Scuoto leggermente la testa. «Sto bene», riesco a biascicare. «Torno a casa».
Sento i suoi passi strisciare contro l'asfalto, ed è come se mi stesse salendo con i piedi sulla schiena. «Sali in macchina, ho detto».
Osservo l'ombra della mia sagoma allungarsi per effetto dei fari dell'auto. Non dovrei temere, non dovrei esitare. In fondo è un uomo delle forze dell'ordine.
Ma è pur sempre un uomo. Non voglio che si avvicini, che mi tocchi, o che mi costringa. Mi volto leggermente, ma non ho intenzione di cercare il suo sguardo. Mi trascino lentamente verso l'auto e allungo la mano per afferrare la maniglia.
Cazzo. Mi trema e non riesco a fermarla. Sarà il freddo, mi dico, ma l'aria estiva non è mai stata così piatta.
Alla fine, riesco ad aprire lo sportello e a entrare nell'abitacolo. Un intenso odore di sigaro mi colpisce dritto alla gola e per poco non tossisco. I sedili in pelle sono comodi e non c'è niente di strano. A parte la pistola, lasciata incustodita sul cruscotto. Per un attimo, solo per un secondo, il pensiero di prenderla e fuggire via mi fa fremere tutto il braccio. Ma il coraggio muore nello stesso istante in cui lo sceriffo O'Donnell si siede al mio fianco. L'odore di sigaro è soppiantato dall'asprezza della sua colonia, frizzante come una caramella gommosa e allo stesso tempo irritante per il mio naso.
«Non dovresti correre per le strade di notte», dice fissando il parabrezza e mettendo in moto l'auto. «Avrei potuto ucciderti».
Uccidermi. D'un tratto, mi rendo conto dove mi trovo e come sono finito qui. Per la mia stupidaggine, ovvio. La lite con Chris mi sembra ormai acqua passata, nulla in confronto a questo. Adesso vorrei che lui fosse qui con me, che mi abbracciasse e mi portasse via.
Ho sbagliato. La colpa è stata mia. Se non fossi stato così geloso, così impudente e arrogante... Chris aveva ragione. Se mi fossi aperto con lui, tutto questo non sarebbe accaduto. Ma che dico? Sarebbe accaduto comunque. Io mi sono aperto, confessando tutta la verità su Josh. E anche se non ha battuto ciglio, anche se non mi ha rimproverato o urlato... i suoi occhi hanno parlato chiaro. Sono un mostro e nessun mostro merita di essere amato.
«Stai piangendo?». La voce dello sceriffo mi riscuote e solo allora vedo due lacrime bagnarmi il dorso della mano. «Ti porto al sicuro».
Al sicuro? Dove?
Alzo lo sguardo e fisso le case intorno a me. Non è Peach Road, non è il mio quartiere. Non so dove mi trovo. Heaven's Hill è piccola, ma non ho ancora imparato a destreggiarmi tra le sue strade. Qui, le abitazioni sembrano meno signorili, ma tutte dotate di ampie verande e un piccolo giardino.
Lo sceriffo si ferma di fronte a una casa piccola, in legno, dall'aspetto trasandato e poco curato. A differenza dei vicini, gli infissi sono consumati e non sono fiori e fili d'erba a crescere lungo il perimetro, ma arida sterpaglia. Vedo dei tronchi ammassati, un'accetta conficcata nello stipite della porta - la lama accesa della luce della luna. Ci sarebbe il posto per l'auto, all'interno di un piccolo garage malmesso, ma lo sceriffo preferisce posteggiare di fronte al cancelletto.
«Scendi», ordina.
«Dove siamo?», chiedo cercando di nascondere l'agitazione.
«Casa mia. Su avanti, un bicchiere d'acqua ti rimetterà in se stesso».
Obbedisco, e con le stesse mani tremanti, mi accingo a seguire la sua figura all'interno della casa.
Mi ritrovo immediatamente in un ampio ambiente, condiviso dalla cucina e dal salotto. Nulla di ciò che mi aspettavo per la casa di uno sceriffo. C'è puzza e polvere sopra i mobili; vestiti gettati sui divani, camicie sguaiate e sedie fuori posto. Il piano cottura è sporco, sovrastato da un castello di pentole e padelle. Mi viene da vomitare, e per l'ennesima volta mi chiedo che cosa ci faccia qui. Perché sono scappato? Perché non sono rimasto con Chris?
O'Donnell accende una sola luce, una piccola lampada sopra il tavolo della cucina. «Siediti», mi dice con il suo solito tono greve.
Mi riesce difficile pensare che quest'uomo sia uscito con mia madre, che l'abbia resa felice. Non c'è niente che mi attrae di lui, né l'aspetto né l'odore. Mi fa schifo. È rivoltante. E vorrei prendere una di queste sedie e spaccargliela in testa. Sento i muscoli delle gambe fremere, il battito accelerare e un formicolio lungo le braccia, fino alla punta delle dita.
La mia bocca è chiusa, la mascella serrata. I denti stridono tra loro, mentre la lingua preme contro il palato.
O'Donnell cammina a passo lento e dinoccolato, trascinandosi verso il frigo dal quale tira fuori una bottiglia d'acqua. Ne beve un sorso lungo e rumoroso, quindi ne versa un bicchiere per me.
«Bevi», ordina. «Ti farà bene».
Non voglio bere. Non ho sete. E mentre fisso il bicchiere, lui si slaccia la cintura, gettandola di botto davanti a me. «Bevi!».
Afferro il bicchiere e lui si sbottona i pantaloni, lasciando respirare un po' di pancetta. Fa come se non ci fossi, continuando a sistemarsi meglio i vestiti per mettersi a suo agio.
Ma questa scena mi ricorda qualcosa. Una delle tante volte, in cui anche lui faceva in questo modo. All'inizio era solo un atto provocatorio, ma poi era diventato solo un gesto involontario, quando la birra gli gonfiava la pancia. Allora pretendeva sempre lo stesso trattamento, ma a me cominciava a fare ribrezzo. Ricordo quelle ultime volte, in cui ogni tocco sembrava veleno, dove persino quell'odore di maschio mi faceva rivoltare le viscere.
Bevo un solo, minuscolo sorso.
«Le feste a casa dei Wilson sono sempre movimentate», commenta cercando qualcosa nella tasca dei pantaloni. «Ne avevo anch'io abbastanza. Dimmi, perché eri lì, in mezzo alla strada?».
Intuisco che è meglio rispondere. «Ero soprappensiero...».
«Mm», mormora. «E a cosa pensavi?».
Non voglio rispondere. Voglio andare via.
«Alla tua povera madre in prigione?», commenta accendendosi un altro sigaro. «O magari hai litigato con Christian?».
L'intuizione mi coglie in fallo e mi lascio sfuggire un sospiro.
«Christian è un bravo ragazzo, dovresti lasciarlo andare».
Abbasso lo sguardo e fisso il tavolo, il bicchiere ancora pieno davanti a me, le braccia tese e le dita conficcate nelle gambe.
O'Donnell si avvicina, beve un altro sorso d'acqua dalla bottiglia e si ferma a pochi centimetri da me. Ho il suo fiato sul collo, la sua colonia e la sua ombra.
«Sai... tu mi ricordi un bambino a cui volevo tanto bene...».
Un bambino? Quale bambino?
I miei occhi cercano la fuga, volando su ogni oggetto dello scenario. Trovo un cappotto, dei fazzolettini sporchi, una TV via cavo e un vecchio registratore. C'è una telecamera appoggiata su un comò e qualcosa che avvampa nell'oscurità. Non riesco a distinguerlo, ma la luce che entra dalla luna ne illumina un pezzetto. Sembra stoffa, il piede di un peluche.
O'Donnell si sposta e con le dita mi solleva il mento. Mi volge verso la lampada e la mia vista si abbaglia.
«I tuoi occhi sono innocenti come i suoi...», sussurra e il suo capo si abbassa sul mio.
No. Non voglio questo tocco... non voglio che si avvicini...
Mi sembra che voglia ulteriormente ridurre la distanza tra noi, ma all'improvviso si ferma.
«...ma i tuoi occhi, Bill, i tuoi occhi nascondono un piccolo segreto».
Inorridisco, e per tutta risposta scatto in piedi facendo crollare la sedia dietro di me. Mi scosto e mi allontano di un passo mentre la sua figura si fa alta e minacciosa. Che cosa voleva dire con quelle parole? Che avesse scoperto la storia di Josh? Ma non ne ho mai fatto parola con nessuno... nemmeno con mia madre...
«Che sta dicendo?», sospiro.
La sua bocca si storce in una smorfia saccente. «Tua madre insiste con la sua versione, ma io sono sicuro che non è la verità quella che dice...».
Mamma...
«Io capisco quando le persone mentono. Interessante la storia di lei che uccide tuo padre per legittima difesa, ma vedi... la scientifica ha analizzato il cadavere e... i tagli sulla sua schiena non corrispondono con l'altezza di tua madre... almeno non tutti. Io credo...». Si avvicina facendo dondolare un dito davanti a me. «Che sia avvenuto esattamente l'opposto».
«No...». Il mio fiato si fa pesante.
«Che sia stata tua madre a essere picchiata e tu... che le vuoi tanto bene... ti sia buttato a capofitto su tuo padre, su quel mostro di tuo padre, pugnalandolo alle spalle!».
«NO!». Il mio urlo riecheggia nella stanza e mi accingo a correre verso la porta d'ingresso.
O'Donnell mi afferra il braccio e mi costringe a restare inchiodato contro la spalliera del divano. La sua presa è forte, e sono sicuro che mi lascerà il segno sulla pelle.
Non posso oppormi e i suoi occhi sembrano iniettati di puro odio. «Confessa!», mi sputa in faccia. «Sei stato tu a uccidere tuo padre!».
«No, non è vero!», rispondo cercando di divincolarmi.
Mi fa male la testa e la sua voce è così fastidiosa, così irritante.
«Lui abusava di te, ti scopava!».
Il suo pube sfrega contro la mia coscia.
«Confessa!».
La testa mi scoppia, sento un fischio, un urlo. Il sangue nelle mie mani, il riflesso della luce racchiuso nella lama.
«Avevi iniziato a stufarti, tua madre vi ha scoperti... lei si è avventata su di lui, ma lui era più forte...».
I ricordi si sovrappongono. «Mamma!».
La luce della cucina, come questa, le sue spalle, le mie urla.
O'Donnell diventa più forte, una montagna, e io mi rimpicciolisco come un insetto tra i fili d'erba. «Non ci hai visto più e l'hai pugnalato!».
Din don.
La presa si allenta, qualcuno suona alla porta; prima il campanello, poi un forte bussare.
Lo sceriffo lascia completamente il mio braccio e si dirige verso la porta. Quando la apre, Chris è fermo sulla soglia.
«Signorino Wilson, buonasera».
«Buonasera, sceriffo», risponde Chris atono.
Non avrei mai immaginato di vederlo. La sua fronte è imperlata di sudore e gli occhi sono spalancati, stanchi. O preoccupati?
Non importa. Lui è qui e sento già di stare meglio. Mi avvicino alla porta, ma il braccio dello sceriffo mi sbarra la strada. Con la coda dell'occhio, Chris mi osserva, ma non fa alcun cenno.
«Che cosa vuoi?», chiede svogliatamente lo sceriffo.
«Sono venuto a prendere, Bill».
È venuto a prendermi?
«Ho visto che è venuto con lei e ho pensato di portarlo a casa».
Lo sceriffo arriccia le labbra. «Che pensiero premuroso, ma accompagnerò io Bill a casa. È un po' scosso».
«Insisto», replica Chris con voce ferma. «Lo accompagno io».
Il mio cuore esulta e dà la forza alle mie gambe di muoversi.
Contrasto il braccio di O'Donnell e mi spingo fuori verso Chris.
«Come volete...», sospira lo sceriffo, ma prima di lasciarmi andare mi afferra per la spalla e mi sussurra all'orecchio: «Riprenderemo il discorso».
Mi sento un topo in trappola e sono talmente disorientato che neanche mi accorgo di essere già per strada. Chris mi tiene la mano e mi trascina lungo il marciapiede, attraverso vicoli che non conosco.
Improvvisamente il mio corpo teso inizia a sciogliersi, a sputare fuori tutto quello che finora aveva trattenuto. Inizio a sudare, a piangere, a soffiare aria pesante. Si secca la gola, mi gira la testa, e la realtà si fonde con i ricordi nella mia testa.
Prima c'è un uomo, fuori dalla porta, che si allontana e mi lascia solo. Ma quello è un falso ricordo, generato dalle parole di mia madre. Perché quando abbasso lo sguardo, vedo ancora il sangue nelle mie mani e il riflesso del coltello.
«Bill...».
Mi viene da vomitare e l'esofago si restringe fino a diventare sottile come una cannuccia.
«Bill!».
Mia madre mi guarda negli occhi. È spaventata. «Non respiro...».
Sono stato io...
«William!».
Chris mi prende il viso tra le mani e mi costringe a guardarlo. I ricordi sbiadiscono e vedo solo i suoi occhi grigio-azzurri. «Respira...».
Mi accarezza la guancia, incurante dei capelli incollati di sudore.
Inspira ed espira lentamente, invogliandomi a seguire il suo movimento. «Va tutto bene... ci sono io qui con te».
Sento i polmoni riempirsi d'aria e un freddo pungente attraversare la pelle sudata fino alle ossa.
«Adesso andiamo a casa».
Quale casa? Non voglio andare a casa sua... rivedere gli altri. Mike...
Ma poi si volta alla mia destra e mi accorgo che sono di fronte al vialetto di mia nonna.
«Entriamo?». La sua voce è un invito rassicurante, e finalmente sento le paure sciogliersi come lo zucchero nel latte.
Annuisco e lui mi riprende la mano.
Fino a pochi momenti prima, lo avevo odiato e desiderato di starmi il più lontano possibile.
Ma adesso... adesso lo voglio tutta la notte vicino a me.
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