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Capitolo tre

"Non essere triste." Una voce cercò di rassicurarmi, quella di Cameron. Mi venne spontaneo un sorriso, piccolo ma non invisibile. Avrei preferito restare sola per un po' a schiarirmi le idee su tutto ciò che stava avvenendo troppo in fretta, non avevo neanche più la cognizione del tempo.

"Ti avevo chiesto un po' di solitudine se non sbaglio." Ridacchiai e vidi spuntare sul sul volto un sorriso.
Come facevo a ridere se mi ero cacciata in questa situazione?

"Mmh." Mugolò lui.

"Non credo proprio che tu voglia restare sola." Volevo o no? Avrei preferito solamente risposte ai miei quesiti niente di più.

"Ti fai troppe domande." Disse lui avvicinandosi a me. Non era sulla sedia a rotelle, camminava perfettamente in piedi.

"Siamo nella stessa merda è ovvio farsi delle domande ma non troverai mai risposte." Si sedette sul mio letto a gambe incrociate.

"Che intendi siamo nella stessa merda? Io non sono malata." Risposi acida. Lo vidi incupirsi, gli occhi annebbiarsi e lo sguardo spostato in un punto indefinito.

"Stronza." Affermò a denti stretti. Non mi guardava. Si alzò, si voltò e se ne andò.

Perché mi veniva così spontaneo essere acida?
Perché questa freddezza che pareva scomparsa, era riapparsa? Non ero stata io a parlare. Cioè sì ma non ragionavo a mente lucida, era come se il mondo mi fosse crollato addosso in quel momento con quella insulsa frase.

Ma perché aveva detto siamo nella stessa merda? Non sono mica malata? Impossibile ho avuto un incidente, niente di grave tranne questa enorme cicatrice che mi crea dolore ad ogni sforzo.

"Signorina Evans è arrivata la cena. " Buone notizie si mangia. Mi porse due di quei piatti di plastica sigillati con un foglio trasparente, anch'esso di plastica, che si doveva tirare per aprire.

"Sta arrivando la dottoressa appena avrà finito potrà iniziare a mangiare." Annuii e l'infermiere uscì, dando spazio alla dottoressa la quale aveva in mano la mia cartella clinica.

"Quando potrò ritornare a casa?" Chiesi appena finì la visita.

"La ferita si dovrà prima sanare del tutto e dovrà riprendere a camminare il prima possibile. A quel punto potrà tornare a casa." Mi sorrise calorosamente.

"I risultati delle analisi di stamani?"

"I risultati arriveranno tra non molto abbia pazienza." Si era creata un'aria tesa e non capivo neanche il perché.

"Ah, mi stavo quasi per scordarmelo. Sta arrivando le tue nuove compagne di stanza."

"Cosa hanno?" Chiesi cercando di tirarmi, anche di pochi millimetri, su col busto.

"Sono due gemelle che hanno avuto un brutto incidente sul motorino. Kristal ha una delle lesioni alle braccia e si è scoperto che ha un cancro al seno. Ariel è finita in coma." Abbassò il capo e mi salutò con la mano, uscendo dal la stanza.

"Dottoressa Hersen." La richiamai e lei rientrò in stanza con fare confuso.

"Si?"

"Potrebbe far venire Cameron qui. Vorrei sia presentarle le ragazze e poi gli dovrei parlare." Le feci gli occhi dolci e lei sospirò.

"Può restare un paio d'ore al massimo perché le ragazze hanno bisogno di riposo. Arriveranno tra una mezz'oretta circa inizio a farlo venire?" Annuii.

Se ne andò e poco dopo sentii nella camera a fianco, con il muro coincidente al lato dov'ero posizionata io, delle persone parlare.

"Dai ti deve parlare un attimo, poco e te ne vai." Era la dottoressa Hersen.

"No, le ho, già ripetuto che con quella lì non ci parlo. È una stronza." Questa voce, invece apparteneva a Cameron.

"Mi ha supplicato quasi quindi od ora vai di là e risolvete o ti costringo e sai come." La dottoressa sembra averla vinta poiché dopo sentii dei passi avvicinarsi sempre più.

"Che vuoi?" Domandò appoggiandosi al margine della porta. Si sentiva dal tono della sua voce che era arrabbiato e ferito, ma soprattutto incazzato.

"Siediti." Cercai di alzarmi ma la ferita mi provocò un atroce dolore e fui costretta a rimettermi nella posizione di prima.

"Sei cretina, tu hanno operato poco fa non devi muoverti." Guardai in un altro punto. Erano giorni che ero lì ed era quello il dilemma, cioè che più brutalmente mi tormentava.

Si sedette sul mio letto e mi spinse a parlare. Non sapevo, però, cosa dire. Volevo farmi perdonare ma non sapevo come.

"Se non hai intenzione di parlare me ne vado." Afferrai un suo braccio e sospirai.

"Scusa." Misi da parte l'orgoglio per una volta e chiesi perdono.

"Non volevo offenderti ma sta succedendo troppo in fretta. Tutto sembra rivolgermi contro mancasse solo che mi ammalassi di tumore, allora potrei sventolare bandiera bianca e darla vinta alla sfortuna. Non era mia intenzione, non stavo ragionando in quel momento era fuori di senno. Scusa." Era una voce sofferente e che pian piano andava a diminuire per il troppo rimpianto.

"Non ho capito l'ultima parola." Mise una mani dietro l'orecchio e chiese di ripetere le parole, tutto accompagnato da un sorriso.

"Cretino." Gli diedi un leggero pugno sul braccio e mise il broncio supponendo il fatto che gli avevo fatto male. Scoppiammo in una risata fragorosa, quello che ci voleva.

"Perdonata?" Chiesi, infine, dopo aver ripreso fiato da quelle risa.

"Perdonata." Mi abbracciò spostandosi un po' di lato per non appoggiarsi sua ferita.

"Alla fine sei tu la cretina." Bisbigliò nel mio orecchio. Scossi la testa e ridacchiai.

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