Capitolo sei
I dottori si congedarono con capo abbassato. Mi buttai all'indietro, facendo penzolare la testa dall'altra parte del letto. Cacciai un urlo di disperazione e misi le mani sulla faccia cercando di fermare le lacrime che fuoriuscivano dai miei occhi.
Vidi la figura di Cameron alzarsi dal letto e di conseguenza mi rimisi a sedere.
"Dove vai?" Gli chiese ma non ottenni risposta. Se ne andò anche lui.
Mi sdraiai sul letto a pancia in giù, con la faccia schiacciata nel cuscino, e cominciai ad urlare di nuovo. Singhiozzavo, piangevo e gridavo. Volevo morire.
Sentii delle braccia che mi avvolgevano da dietro e speravo fosse lui.
"Mi dispiace." Kristal.
"Devo fare un giro." Mi misi a sedere di scatto asciugandomi le ultime lacrime.
"Ti accompagno." Scossi il capo.
"Voglio stare sola ti prego." La supplicai e lei annuii, sospirando sonoramente.
"Mi chiami Ethan." Uscii dalla stanza e, dopo una manciata di secondi, rientrò seguito dall'infermiere.
"Mi dispiace." Gli sorrisi debolmente. Mi mise delicatamente sulla sedia a rotelle e cominciai a dirigermi verso la porta.
"Vengo con te." Disse Ethan ma scossi il capo e mi diressi fuori dalla camera 237.
Mi ritrovai davanti alla stanza di Cameron ma non entrai. Sospirai e mi diressi all'ascensore. Premetti un piano a caso, ritrovandomi nel corridoio che portava alla sala d'attesa. Mi affacciai in quella 'camera', si fa per dire perchè era un corridoio abbastanza lungo con attaccate delle sedie rosse alle pareti bianche.
Bianche come il latte, come i visi pallidi dei bambini, ma anche degli adulti, che aspettavano risposte dai dottori; bianche come il volto di Ariel e come quello di Cameron alla scoperta del mio tumore.
Una bimba mi indicò e mi sorrise. Accennai anche io un riso. Era piccola, poteva avere sui cinque anni e correva come una pazza per la stanza, facendo librare in aria i capelli rossi. Sorrideva. Aveva un sorriso bellissimo come quei suoi occhi azzurri.
La salutai con la mani e lei fece lo stesso. Salii al quinto piano.
Il piano terra era quello diciamo dove facevano le prime visite i chirurghi, i pediatri e i vari dottori; il primo dove le persone che venivano ricoverate avevano dai 15 anni in sù; il secondo erano dove si facevano le Tac, le ecografie, le radiografie ecc; il terzo era il piano di ginecologia e quarto era la pediatria; il sesto, invece, c'eravamo noi, quelli affetti da tumore o da problemi con il sistema immunitario. Mi era stato tutto spiegato da Cameron, ma al quinto piano?
Me ne resi conto vagando per quei corridoi: era per chi aveva problemi con l'alimentazione.
Sostai davanti alla camera 178. Vi era dentro una ragazza, rannicchiata su sè stessa, che piangeva.
Entrai senza bussare. Mi ricordai del momento in cui incontrai Cameron per la prima volta, di tutte le volte che era entrato e basta, non aveva osato avvertire della sua entrata, si era imbucato e basta.
"Chi sei?" Chiese la ragazza. Era magra, fin troppo, i capelli mogano e gli occhi spenti.
"Sono Abigail." Le sorrisi.
"Non ti conosco." Rispose lei.
"Lo so e, neanche io, ti conosco."
"E quindi che ci fai in camera mia." Ribattè lei.
"Volevo vedere come stavi." Dissi di rimando.
"Perchè? Che ti importa di me? Nessuno se ne fotte un emerito cavolo di come sto." Rispose un po' alzando la voce.
"Quindi per una volta che qualcuno te lo chiede, rispondile." Alzai gli occhi al cielo.
"Bene." Scossi il capo.
"A chi vuoi darla a bere? Forse alle persone comuni, ai dottori ma non a me." Le dissi sospirando. Le leggevo negli occhi che non stava bene, che aveva bisogno d'aiuto, che qualche assurdo male la stava divorando.
"Niente." Mi sorrise. Uno di quei risi che facevo anche io quando non sopportavo più nessuno, lo facevo falsamente e lei cercava di farmi credere che stesse bene.
"Niente e sorridi falsamente. Niente e i tuoi occhi chiedono aiuto. Niente e ti stai rovinando. Niente e non mangi. Niente e i tuoi occhi sono spenti e gonfi. Niente e ti tagli. Niente e stai morendo. Niente e ti stai ammazzando." Sbarrò gli occhi, voltando la sua faccia dall'altro.
"Ora dimmi il perchè." Incrociai le braccia al petto, sospirando.
"Perchè dovrei confessarti tutto se sei solo un'estranea. Mi hanno insegnato a non parlare agli estranei."
"So più io che i tuoi genitori sicuramente, non sono tanto un'estranea alla fine. Ti hanno anche insegnato a dover vivere la vita e non a togliertela perchè il mondo ti sta crollando addosso, perchè per gli altri e per te stessa non sei abbastanza. Sì, infatti, non sei abbastanza per loro. Hanno troppa poca intelligenza. La società fa schifo ma tu devi essere sempre più forte di lei. Devi abbatterla e solo così potrai cominciare a vivere." Me ne andai.
"Come posso farlo." Urlò mentre ero sulla soglia della porta. Mi volta verso di lei e le sorrisi.
"Questo devi saperlo tu." Le risposi.
"Tu come hai fatto?" Mi domandò d'improvviso.
"La verità è che ho 16 anni e ancora non sono riuscita a metterla a tacere però so di essere più forte di lei. Io mi sono convinta che sono più forte di lei e tu sei anche più tenace e forte di me. Tu puoi sopravvivere a tutto questo chè è solo un momento della tua vita che poi pian piano diventerà un ricordo. Uno di quelli a cui sorriderai e dirai 'io sono stata più forte di loro, io ho tenuto la forza di andare avanti nonostante tutto, lei ha vinto una battaglia ma io ho vinto la guerra'. Adesso a me non importa della società, si fotta pure, a me non me ne frega un cazzo. Ora sono impegnata a cercare di non morire per un male che è qui e non nella gente." Indicai il mio capo e me ne andai.
Salii al sesto piano dove incontrai altri infermieri che si dispiacevano per me. Aprii la porta della camera 237 e notai che, come al solito, c'era solo Ariel. Sbattei la porta dietro di me e, con una forza che non so dove trovai, riuscii a sdraiarmi sul un lato, quello che volgeva verso la finestra dando le spalle alla porta.
Delle forti braccia mi avvolsero d'improvviso la vita da dietro e scoppiai in un pianto liberatorio. Percepivo quell'ombra che quasi non conoscevo ma sentivo che non sarebbe stato il nostro ultimo abbraccio.
"Mi spiace." Ne avevo sentiti di milioni solo in quella giornata ma erano tutti per compassione, il suo no. Solo lui poteva capirmi, eravamo simili. Uno lo specchio dell'altro, due anime uguali, con gli stessi problemi e che forse non avrebbero superato.
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