Incertezze
Cecilia aveva ascoltato tutti i miei sfoghi mentre camminavo su e giù per la sala. Mi diceva di stare tranquilla e ovviamente non credevo di farcela.
"Hai fatto la cosa giusta, non potevi prenderti cura di lui per sempre."
"Louis ha sofferto senza motivo. Veramente soffriva per me?"– stavo impazzendo.
Lei mi abbracciò facendomi sedere sul divano.
"Quando smetterai di commiserarti? Gli piaci e basta."
Aveva ragione e non potevo continuarmi a dare delle colpe per qualcosa che non provavo.
Louis avrebbe trovato qualcuna ed io sarei stata molto più felice. Eppure sentivo non fosse la migliore prospettiva.
La cosa che mi faceva soffrire di più era il fatto che non riuscissi a definire me stessa. Il modello che vedevo negli altri era una pressione costante su di me. Mi sentivo priva di personalità, estremamente flessibile a seconda dei contesti in cui mi trovavo. Era come mi avevano fatto sentire quella dannata storia. Vulnerabile come mai prima, incapace.
Un pomeriggio mentre tornavo a casa ricevetti una chiamata di Louis.
"Ivo ti prego vieni." queste furono le uniche parole che sentii.
La porta di casa era aperta.
"Louis? Dove sei?" ero abbastanza ansiosa.
"Qua."
Mi voltai e lo vedi, pallido.
"Che hai, come stai?" non riuscii neanche a respirare fra le due frasi.
Mi abbracciò, piangendo.
"Mia madre è morta. Non ce l'ha fatta. E' così veramente." piangeva come un bambino.
Mi trasmise tutta la disperazione possibile.
"Mi dispiace, stai calmo." ripetei sottovoce e tremavo con lui.
Dopo un tempo infinito in cui rimanemmo seduti e distanti, lo sentii smettere. Si asciugò le lacrime con le maniche del pigiama e mi prese in cucina del the.
Stare faccia a faccia con lui era più difficile di quello che pensavo. Soprattutto quando il suo volto era pallido, i capelli non più sistemati come tutti i giorni e gli occhi arrossati. Io mi sentivo in parte responsabile per il suo stato. Il the era troppo dolce ma mi aiutò a schiarirmi la gola, perché ero lì per parlare.
"Perdonami. Non ci sono più stata." dissi guardando i suoi occhi vitrei.
"Lo so, non ci sei stata." mi diede un'occhiata. "Per nessuno."
"Non so cosa dirti... sono confusa. Parliamo di te." volevo subito evitare il discorso. Era difficile ammettere quanto ero stata infantile.
"Non credevo che averti detto cosa provavo potesse incasinarti così tanto." lasciò la tazza sul tavolo di fronte, con disprezzo. "Dire no non è così difficile, sai."
"Louis, lo sai che non è solo questo. Io non ho un briciolo di autostima, ho paura per qualsiasi cosa perché non potrò mai cambiare il fatto che non mi amo." Era uno dei discorsi più sinceri che avessi mai intrapreso con lui o con chiunque. Tenevo il mio cuore fra le mani.
"E forse per questo motivo non posso amare nessun'altro. Ci metto tutte le mie forze per aiutare chi mi circonda e rendermi utile. Eppure non mi sembra di ricavarne una grande felicità e anzi avrei paura di ferire una persona che volesse starmi così vicina."
"Non hai amato Stefan? Eri persa di lui." mi sembrava sorpreso.
"L'ho lasciato. Non mi rendeva veramente felice. Era apparenza, una mia illusione direi. Non so se ti sei reso conto di quello che è successo, perché entrambi mi avete ferito." mi voltai per riprendere fiato.
"Cosa ti rende felice?" sembrava stupito dalla mia risposta e io ero altrettanto colpita dalla sua domanda. Si guardava intorno, soffermandosi specialmente sul quadro azzurro sopra il camino.
"Tante cose che malapena ricordo. I cavalli, la danza, mia nonna. Queste cose mi rendevano felice. Aiutare gli altri prima di tutto." mi voltai verso di lui. – "Louis, devi capire che io ho perso un'amica che consideravo parte totale della mia adolescenza. Il fatto che lei mi abbia allontanato per un mio errore, mi ha distrutto. La consideravo parte di me e credevo che avrei continuato a fare il meglio per lei."
"Lo so, Riker me ne aveva parlato." ora mi stava guardando.
"Sono stanca di stare così. Mi sento il cuore piccolo, minuscolo e non mi sento mai abbastanza."
"Te pensi che nel tuo cuore non ci sia posto." e vidi riemergere la sua vecchia espressione beffarda.
"Vorrei metterci me stessa, per una buona volta." mi misi il volto fra le mani.
Louis mi toccò i capelli.
"Hai dei bellissimi capelli, lo sai?" feci fatica a sentirlo.
"Non dire certe stronzate ora." e quasi risi della sua dolcezza nonostante l'amarezza della situazione.
"Quanto sei acida. Ivo, ascoltami. So quanto possa essere nocivo non amare se stessi. Sono l'ultima persona che hai conosciuto qua che possa veramente dirti qualcosa di sensato. Però non puoi farti frenare dalle tue paure, ma riconoscerle e affrontarle. Se ne hai occasione cerca la tua felicità ora. Vaffanculo il resto. Non è così difficile, soprattutto con una persona vicino a te che accetti tutto questo." – mi tirò su il viso. "Per esempio, guardami, sono tremila volte meglio di lei, chiunque fosse, non trovi?"
Il suo sorriso mi sciolse.
"Forse lo eri qualche tempo fa. Guarda come sei ridotto e guarda la tua casa." – cercai di ridere, sperando subito di non offenderlo.
"Ah giusto, questa ossessione italiana per le pulizie. Come farei senza." si era giustamente vendicato.
Passammo il resto del tempo sistemando le varie camere, nonostante mi tirasse i cuscini e facesse di tutto per distrarmi. Mi mostrò molte cose: la sua collezione di cd, i poster e altre fissazioni di cui non capivo moltissimo. Una volta giunti in camera sua, il disordine era purtroppo anche peggiore ma mi colpì l'ampia cabina armadio.
Non credevo che fosse abituato a tanto lusso e lo invidiai.
"Vuoi provare qualcosa, madame?" chiese aprendo la porta e le luci soffuse si accesero.
Notai subito una felpa verde, brillante, con una stampa particolare.
"E'.. proprio bella questa." gli dissi avvicinandomi con esitazione. Mi sentivo invadente.
"Hai ragione. Me l'ha portata mio padre dagli Stati Uniti. Non capisco bene il significato della bandiera bruciata e delle lettere disordinate, eppure l'ho messa qualche volta."
"Non ti ci ho mai visto."
"Sì, da tempo ho abbandonato i colori. E anche mio padre." evitava di guardami.
Provai compassione, stava soffrendo in maniera incredibile eppure era riuscito a farmi sentire così bene.
"Ah mi dispiace. Credevo che.." mi bloccai a metà frase.
"Che abitasse qui? Viene qualche volta. Sicuramente tornerà per il funerale. Non può perdersi un'occasione così importante per mettersi in mostra."
"Io... posso venire?" gli chiesi, osservando il reparto scarpe.
"Non so se voglio dirlo agli altri. Fra poco ci saranno gli esami, hanno i loro problemi." ci rimasi un po' male. Ma non potevo credere fosse tutto già sistemato.
"Devi decidere te. Io vorrei tanto... grazie per oggi." era il minimo che potessi dire e lo sentivo sul serio.
"Va bene, ma solo se verrai con questa." e prese dalla stampella la felpa evidenziatore, ridendo mentre me la scuoteva davanti.
"Non posso umiliarmi così tanto." risposi ironica mentre cercavo di prenderla. Era troppo in alto per me.
Squillò il telefono e Louis si mise a parlare nell'ampio corridoio. Sembrava preoccupato mentre camminava su e giù e mi mise tenerezza il fatto che avessimo la stessa nevrotica abitudine.
Quando attaccò era tornato pallido come il ragazzo che mi aveva aperto poche ore prima.
"La mia famiglia verrà. Devo decidere tutto io, così c'è scritto nel testamento." si guardò intorno per una sigaretta.
"Vado sul balcone, prendi quello che ti piace." uscì di corsa dalla cabina facendomi l'occhiolino. Era straordinario come riuscisse a farmi ridere nonostante la sua sofferenza.
Decisi di rispettare il suo umore ma non potevo resistere nel seguirlo poco dopo.
Lo trovai fuori dalla cucina, al secondo piano.
Aveva bevuto un'odiosa birra.
"Ancora non ti piace eh?" mi chiese mentre la fissavo con lo stomaco sottosopra.
"No, sai com'è.. sono italiana." – risposi imitando l'accento con cui mi sfottevano sempre.
Accennò un sorriso e voltò lo sguardo verso una cornice poco distante.
"E' lei. Era straordinaria."
Nella foto c'era un bambino paffuto su un'altalena arancione e nel posto accanto era seduta una bella signora. Mi ricordò molto mia madre da giovane per i capelli ricci e corti.
"E' una bella foto." ero veramente commossa.
"E' di quando vivevamo in Austria. L'altalena l'aveva fatta mio nonno. Mia madre non era molto felice in quel periodo. Aveva soltanto me." notai una punta di rancore nella sua frase. Percepivo l'amore per lei dal suo sguardo e non trovai le parole giuste. Ci abbracciammo.
"Voglio che tu venga con me per scegliere i fiori e il resto." lo strinsi con affetto, accennando un sì.
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