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Non risolvi niente a stare rinchiuso lì dentro.
Selena urla fuori dalla stanza padronale. Quella mattina deve partire per l'università ma lo stato del padre la preoccupa.
Aveva chiamato i suoi fratelli ma tutti erano impegnati e avevano lasciato a lei l'incombenza del loro padre.
È stato sempre così, da quando si erano sposati i fratelli pensavano solo alle loro famiglie, tornavano a casa solo per il capodanno.
Selena era tentata di chiamare i pompieri, per scassinare la porta, quella porta di legno di faggio, da piccola la temeva. Pensava alla stanza dei genitori come un santuario, ogni volta che ci passava davanti le veniva spontaneo farsi il segno della croce, come si fa quando si entra in una chiesa Cattolica, proprio come aveva visto in tanti film. Le sembrò un gesto ideale per quel mausoleo che i suoi genitori chiamavano stanza padronale.
La madre, Lucia, una volta l'aveva scoperta mentre faceva questo suo rituale, la rinchiuse nella soffitta per un paio d'ore e le fece giurare di non farlo mai più.
Selena si ritrova a ridere del ricordo, ma quando aveva dieci anni, sul suo viso si era dipinto il terrore per quell'ingiusta punizione.
Ora non teme più la soffitta, da adolescente divenne il suo rifugio, per stare lontano dai fratelli che la prendevano di mira per i loro scherzetti o per stare in pace con se stessa. Nascondeva la sua vita spirituale, le sue letture... La madre l'avrebbe punita severamente se lo avesse scoperto.
Roberto dal giorno del funerale che non usciva dalla stanza.
Lucia aveva lasciato nel testamento il desiderio di essere cremata e in caso di incidente non voleva assolutamente l'accanimento terapeutico.
Roberto soffriva per questa sua scelta, ma da dottore capiva quanto era sofferente per i pazienti coscienti della loro fase terminale, proseguire l'agonia.
Sdraiato sul letto, desiderava morire come lei, un infarto, dal nulla e stop. La vita finisce.
La morte migliore...
Non ha sofferto...
Erano le frasi di rito che si era dovuto sorbire durante la visita funeraria.
Lei non ha sofferto, che ne sa la gente?
Pensa Roberto, si sente male al solo pensiero di non essersi accorto di nulla.
Lucia, il sabato pomeriggio, soleva fare giardinaggio ma quel fatidico sabato aveva voluto coricarsi.
Roberto si maledice per non aversi soffermato a pensare alla stranezza dell'evento. Lui come ogni sabato doveva seguire i pazienti della sua clinica privata.
La sera uscendo dal suo studio, trovando la cucina vuota, il tavolo non apparecchiato e nemmeno una pentola a bollire, accese la sua furia, corse in camera, la riempì di domande, che ora non hanno più senso avere le risposte.
Lucia ancora distesa, di fianco dormiva, dormiva per sempre.
Roberto non desiderava più uscire da quella camera. Aveva gettato la maschera che si era imposto di indossare durante le strette di mano di parenti e amici al crematorio. Il viso austero, la sua camminata fiera, questo dovevano vedere tutti, un uomo che non teme la morte.
Una volta nella sua stanza, la vestaglia di Lucia adagiata sulla poltrona con il libro aperto tra le poesie di Whitman, e l'odore inconfondibile di menta, riportarono alla mente di Roberto l'immagine di lei intenta a leggere, e quella maschera di austerità che era riuscito a portare durante tutto il giorno, cadde sgretolandosi, lasciando a viso scoperto tutta la sua vulnerabilità.
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