20 aprile 1677
La porta della camera si era chiusa e lì, nel salotto privato, la luce dell'aurora proiettava ombre fini e diritte. L'unica ombra irrequieta era quella del marchese; vagava per la stanza percorrendola a larghe falcate, le braccia conserte e il viso corrucciato. Era solo, ma lo sarebbe stato per poco.
Un urlo infranse la pace della mattina primaverile. Ottavio scattò verso la camera, ma si fermò a una spanna dall'uscio, ad ascoltare. Una voce femminile raccomandava pazienza e forza; l'avrebbe ascoltata, nonostante la paura lo opprimesse. Quegli ultimi mesi erano trascorsi in una sorta di magica sospensione: Galatea era stata bene, i medici erano stati ottimisti. Nulla faceva temere una brutta conclusione.
Ferraris non bussò per ricevere il permesso di entrare; semplicemente si introdusse nel salotto di slancio, smaniando per l'agitazione. I loro sguardi tesi si incontrarono, i loro respiri si arrestarono nello stesso momento. Un altro urlo lancinante, qualche singhiozzo e un nome gridato: «Ottavio!»
«Vostra Altezza, calmatevi; andrà tutto bene, andrà tutto bene!» la rincuorava la prima levatrice, probabilmente accompagnando le parole con una dolce carezza sulla fronte.
«Lo voglio qui! Voglio che sia qui!» ribatteva Galatea, per poi lasciarsi andare a un nuovo, acuto strillo.
Il marchese, estremamente provato, sospirò e sedette su una poltroncina; chiuse gli occhi.
«Da quando...?» domandò Ferraris, avvicinandosi.
«Sarà mezz'ora, tre quarti d'ora al massimo», rispose, ciondolando la testa da una spalla all'altra.
«E quanto ci vorrà?» insistette, mentre slacciava il nodo alla cravatta. Ottavio gli dedicò una rapida occhiata e disse: «Stiamo ai tempi del bambino. Tu, piuttosto, perché ti sei imbellettato in quel modo?»
Ferraris si passò le mani sul farsetto. «Mi piace essere presentabile.»
«Io ho avuto appena il tempo di infilarmi un paio di calzoni, le calze e la camicia...»
Galatea urlò chiamando forte suo marito. Più di una levatrice intervenne, ma lei si ribellava alle loro cure. Ferraris, intanto, trepidava e chiedeva perché non potesse andare di là; Ottavio, celando la tensione sotto un'apparenza rilassata, gli spiegò che le donne sono gelose del parto ed escludono categoricamente gli uomini dal loro regno. Aspettare, avere pazienza e pregare: non gli restava che questo.
L'attesa si rivelò più lunga del previsto; forse non tanto nella realtà, quanto nelle aspettative di entrambi gli uomini. Il pallore dei loro volti e il silenzio, che si opponeva in un contrasto evidente con le urla di Galatea, manifestavano quanto i loro animi fossero coinvolti nella delicatezza della situazione. Stentavano a guardarsi; ognuno pensava ai propri crucci e cercava di scacciare i fantasmi che lo assillavano. Ottavio si mordeva il dito indice, Ferraris si sistemava i polsini. Ad un tratto, però, la spinta delle emozioni divenne eccessiva da tollerare e il marchese, cui il discorso stava particolarmente a cuore, esordì: «Sono passati già cinque mesi; è parso un battito di ciglia...»
«Già», convenne Ferraris. «Ma il tempo non è servito a farmi digerire la questione.»
«Il suo pancione non ti ha impressionato?»
«Certo, mi ha impressionato molto. Pure, non è bastato.»
Ottavio sospirò e riprese: «Per quanto mi riguarda, ribadisco quanto ho affermato lo scorso ottobre: il bambino sarà mio figlio a tutti gli effetti, anche qualora non mi somigliasse».
«Presto lo vedremo...»
Tacquero di nuovo, immersi entrambi nel ricordo di una giornata soleggiata e insolitamente tiepida. Galatea aveva invitato Ferraris a festeggiare il compleanno di suo marito con l'intento di celebrare, nella medesima occasione, il fidanzamento del caro amico con la sorella minore. Teodora si trovava lì: quale circostanza migliore? Questo, in realtà, si era rivelato un pretesto ben orchestrato. Tratti in disparte i due uomini per una passeggiata, Galatea li aveva condotti in una radura lontano da occhi indiscreti, quindi, mani sul grembo, aveva balbettato: "Forse, Ottavio, te ne sei già accorto; Alessandro, ho voluto che ci fossi anche tu. Sono gravida di tre mesi."
L'intontimento di Ferraris sarebbe apparso veramente buffo; e l'aria attonita di Ottavio non sarebbe stata da meno. Il volto di Galatea, invece, era abbattuto, privo di quella spensieratezza che aveva abilmente finto fino a un attimo prima.
"Tre mesi? Quindi..." aveva cominciato Ottavio.
"Credo di averlo concepito a Vallebruna..." lo aveva anticipato lei, la voce rotta e lo sguardo desolato. "Che cosa devo fare? Io..."
Ferraris, a capo chino, avrebbe voluto sparire. Deglutì e parlò sotto l'impulso della vergogna: "Se non lo riconoscerete per vostro figlio legittimo, me ne farò carico personalmente".
"Non se ne parla proprio: è figlio di Galatea; Galatea è mia moglie; il bambino è figlio mio", aveva concluso Ottavio, con un puro sillogismo. Lei l'aveva guardato in estasi, poi aveva girato lo sguardo sull'altro uomo e gli aveva teso la mano. Lui l'aveva afferrata, baciata. "Voglio che tu sia suo padrino, Alessandro."
Ed eccoli, ora, in quel salotto alle sei del mattino. Faccia a faccia, il marito e l'amante, entrambi in qualche modo genitori del bambino che stava venendo al mondo. Quando diede il primo vagito, essi sobbalzarono sulle poltroncine, si alzarono in piedi e si affrettarono a raggiungere la porta. Il marchese la spalancò: la prima levatrice reggeva un involto di panni bianchi bagnati, lo cullava amorevolmente, ma il pianto capriccioso non si placava. Galatea, sdraiata sul letto con i lembi del lenzuolo ancora stretti nelle mani, aveva il capo reclinato su una spalla, le guance arrossate contro il colorito pallido della fronte e delle labbra, gli occhi gonfi di stanchezza e i capelli spettinati sul cuscino. Il suo petto si sollevava e si abbassava con movimenti ampi e distesi, ora che la fatica era cessata; le gambe, ancora divaricate, ma distese, si intravedevano sotto la camicia da notte insozzata di sangue.
Il primo pensiero di Ottavio fu raggiungere la moglie e rinfrancarla dello sforzo con i baci che le dispensò su tutto il viso. Lei, stordita, sussurrò parole incomprensibili. Ferraris si accodò per porgere i propri omaggi alla novella madre e, nel farlo, le baciò devotamente la mano. Lei gli sorrise, poi, ripresasi dallo strapazzo, chiese del bambino.
«Un bel maschietto, signora, forte e in salute», le rispose la levatrice, tendendo l'involto di panni al marchese affinché lo prendesse in braccio. Ottavio esitò. La donna, dunque, gli si fece dappresso, gli scaricò il dolce fardello e gli fece animo perché, così disse, avevano ora un gran daffare a rimettere in sesto la puerpera e a ripulire il letto. Galatea gli fece coraggio con un cenno prima di farsi ricadere tra i cuscini, lasciando intendere dallo sguardo anelante un gran desiderio di stringere a sé la creatura.
Ottavio, con il piccolo tra le braccia, rabbrividì e scostò un poco i panni per scoprire bene il faccino del neonato. Ferraris lo affiancò e lo imitò con la stessa premura. Si scambiarono uno sguardo significativo, quindi il marchese annunciò che si sarebbero recati con il bambino nel salotto, per permettere il migliore svolgimento delle restanti operazioni. La levatrice annuì e Galatea gli accordò la segretezza, nonostante volesse dire separazione.
I due si ritirarono, chiusero la porta a chiave e si portarono accanto a una finestra. La luce era ormai piuttosto intensa, sufficiente a illuminare la stanza e quanto conteneva. Tenendo saldamente il bambino in fasce con l'esperienza dei tre figlioletti più grandi, Ottavio sciolse i panni, mostrando l'esile corpicino ancora paonazzo, le piccole membra guizzanti. Rimasero zitti a osservarlo, a studiarne la fisionomia nel minimo dettaglio.
«Mi pare che abbia ereditato da te la forma del viso», osò commentare Ferraris dopo un'attenta valutazione. Ottavio, reggendo il bambino davanti a sé, obiettò: «I miei bambini hanno i capelli neri, lui invece è biondo».
L'altro negò: «Ha troppo pochi capelli per dire che è biondo; e tuo figlio Ippolito non è forse chiaro?»
«Francamente,» ammise, «noto solo una forte somiglianza con Galatea.»
«Questo è fuori discussione... Magari quando crescerà...»
Ottavio assentì, ma distrattamente. Si volse alla poltroncina, vi si diresse e poi si accomodò, sistemando il neonato sulle cosce con i panni ben distesi attorno. Era nudo ed era infastidito, tuttavia non si lamentò, limitandosi a tendere le manine e a ritrarle poi sul viso. Il marchese, scostandogliele con tocco amorevole, gli sfiorò la pelle delle braccia, del petto e della pancia.
«È perfetto, un bellissimo bambino sano. Una vera benedizione...» constatò, percependo la tensione diminuire rapidamente.
«Come si chiamerà il pargolo?»
A quel punto, Ottavio si volse a Ferraris, che stava in piedi accanto a lui; abbassò di nuovo lo sguardo sul bambino, lo prese tra le mani delicatamente e lo sollevò, nonostante l'altro si schermisse. Quando glielo ebbe affidato, passandosi una mano tra i capelli rispose: «Edoardo Alessandro Malancisi».
«E il battesimo?» domandò ancora, esercitandosi nell'arte della culla.
«Dato che tutto sembra essere andato per il meglio, non c'è motivo di affrettarsi. Il signor Vincenzo e sua moglie arriveranno tra due giorni, come da programma, e da quel momento la data sarà a nostra discrezione. Dopotutto,» continuò, solleticando per gioco il piede del bimbo, «questo signorino ha scelto di nascere oggi; per fortuna, tu sei qui come lei desiderava...»
In quel frangente, le levatrici lasciarono la camera da letto; portavano fuori i panni sporchi, i secchi d'acqua e gli strumenti di cui erano solite servirsi. Il tempo di una riverenza e se ne andarono attraverso il lungo corridoio, fendendo la folla di servitori, paggi e dame che attendevano di conoscere l'esito del trambusto notturno. Solo la prima levatrice, la più anziana ed esperta, si trattenne più a lungo nel salotto per ribadire le raccomandazioni già fatte alla puerpera: riposo, dieta corposa e movimento il più presto possibile; consigliò di nutrire spesso il neonato e di tenerlo al caldo e all'asciutto, dato che le temperature solevano scendere nel corso della notte. Si congedò dicendo: «Immagino vorrete l'assistenza della balia, provvedo a farla entrare subito», ma Ottavio la smentì: «Per il momento preferiremmo restare tranquilli; quanto al latte, mia moglie intende allattare».
«Con permesso, Altezza, ma non è consuetudine che...»
«Cara Marietta, vi siamo tanto debitori, ma saprete, ormai, che mia moglie vuole così.»
«Rovinerà il suo bel seno, la signora marchesa!»
«Non ve ne fate un cruccio, Marietta. Arrivederci!»
Chiusa la questione, si avviarono in camera da letto dove una Galatea più rosea e riposata li aspettava con ansia. Non appena li vide sulla soglia, sgranò gli occhi e aprì le braccia. «A chi assomiglia?» domandò, incapace di nascondere oltre il suo timore più segreto. Ottavio fece spallucce lasciando che Ferraris lo precedesse con il bambino. La marchesa si inclinò come poté per ricevere in grembo il fagottino che le veniva porto, quindi, usando molta più confidenza dei due uomini, liberò il neonato e lo adagiò sul petto senza preoccuparsi di guardarlo troppo attentamente.
«Oh, Edoardo... Mio piccolo Edoardo...» sussurrò, intonando subito la melodia di una ninna nanna. «Vediamo un po', ora... Ma che bel nasino, tesoro... E la boccuccia, un bocciolo di rosa. Guardate, guardate come cerca! Hai fame, sì che hai fame. Adesso la mamma ti dà il latte, fa' il bravo...»
Approfittando della posizione tutto sommato comoda, Galatea slegò il laccio della camicia e scoprì un seno, avvicinando il bambino al capezzolo. Ferraris, per rispetto, volse le spalle, mentre Ottavio rimase a sorvegliare la buona riuscita di quel primo tentativo.
«Si attacca?» bisbigliò, cercando una prospettiva migliore.
«No, ma può succedere. Anche Costanza ha fatto fatica a poppare all'inizio. Aspetta, forse... No, nulla, aspettiamo: ha bisogno di tranquillità.»
Ferraris se ne stava in disparte, accontentandosi di pochi stralci di conversazione appena appena carpiti. Si sentiva di troppo, si sentiva estraneo, eppure intendeva restare. Galatea parlava a ruota libera dicendo tutto ciò che le passava per la testa; Ottavio annuiva di tanto in tanto con un mugolio stentato e il bambino arrancava sul petto della madre con la bocca socchiusa, alla ricerca del capezzolo.
«Guarda!» esclamò, svariati minuti dopo, Galatea. «Ha cominciato a poppare.»
La curiosità vinse la buona educazione. Ferraris, voltandosi a un tratto, tornò al fianco del marchese e contemplò una scena che avrebbe potuto facilmente assimilare a una Natività: un'espressione così beata Galatea non l'aveva mai avuta. Era quasi sul punto di piangere dalla gioia e così, di punto in bianco, la questione della paternità tornò a essere di primaria importanza.
«Dunque, a chi somiglia secondo voi?» chiese con un tono schiettamente allegro. Ottavio rispose per entrambi: «Non ne abbiamo idea; pensiamo somigli molto a te, Tea...»
Galatea, da parte sua, fece una smorfia ironica con le labbra: dall'istante in cui aveva posato gli occhi su di lui, non aveva avuto dubbi. Decise comunque di tacere, di tenere per sé le proprie supposizioni. Le piaceva l'idea di lasciarli in sospeso, tanto più che una certezza maggiore non avrebbe guastato l'atmosfera né allora né mai.
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