15 luglio 1676 pt. 2
Trestalli, abituata alla quiete della provincia dimenticata, tremò alla vista delle guardie del duca, ma il loro intervento fu tanto repentino quanto lo scoppio del fulmine: Ferraris, in un abito rosso fuoco in sella al suo cavallo bruno, con la parrucca fresca di cipria e la fedele benda sull'occhio, cavalcò lungo la strada centrale con cinque cavalieri fino alla locanda dell'Oca storta. Il suo ghigno beffardo fu la prima cosa che Cecco Stracci vide all'aprirsi dell'uscio principale.
«Ponete quest'uomo agli arresti per ordine di Sua Grazia il duca Antonio II», ingiunse, facendosi di lato per lasciare spazio alle truppe. Non ci fu nessun tipo di resistenza, solo tanto sbigottimento da parte dell'oste e dei pochi clienti presenti. Mentre un paio di militari lo afferrava per le braccia e lo conduceva verso l'esterno, lo Stracci ebbe abbastanza tempo per osservare e riconoscere, nel viso di colui che lo dichiarava in arresto, i lineamenti del signorotto vagabondo incontrato a Vallebruna.
«Voi?!» esclamò a quel punto, con la voce strozzata in fondo alla gola, quasi che il cappio fosse già stretto attorno al suo collo. Ferraris non si degnò di rispondere a un individuo tanto inferiore e uscì in testa al piccolo drappello, poi, montato sul proprio destriero, diede poche e chiare disposizioni: «Il prigioniero sia assicurato a due cavalli mediante corde e si proceda al passo».
Poco prima dell'irruzione nella locanda, un altro uomo, in abito blu, con una parrucca nera ancor più curata e sontuosa, si era affacciato sul confine del centro abitato in compagnia di una decina di fanti. Fermò un passante e gli chiese con tono imperioso: «Indicatemi dove si trova la casa di Marco Raspante, stampatore».
Sul momento il malcapitato, sopraffatto dalla sorpresa e quasi dallo sgomento, balbettò suoni disarticolati che somigliavano più a un guaito che a parole umane.
«Così rispondi a Sua Altezza?» lo riprese il soldato più vicino, tacendo l'identità del cavaliere in blu, ma battendo a terra l'asta della picca per incutere ugualmente timore e reverenza. Il passante, allora, si riscosse e puntò il dito in una direzione precisa, descrivendo a monosillabi la strada da tenere. Ricevuto un cenno di ringraziamento, fu lasciato libero di andare. Meno di un minuto dopo, il cavaliere smontò dal cavallo bianco che aveva fino allora cavalcato e bussò alla porta con colpi piuttosto energici.
Chi avesse potuto vederlo in viso avrebbe detto che le sue guance erano rosse di rabbia e i suoi occhi accesi e focosi: venuta ad essere l'oggetto di quello sguardo e di quell'ira feroce, Rosina Raspante si sentì rimpicciolire. Nulla, né l'espressione dura né la parrucca né i cinque anni trascorsi, le impedì di riconoscere immediatamente colui che aveva di fronte a sé.
«Oh, mio Dio! Mio Dio!» strillò, mettendosi le mani tra i capelli. Prese a tremare così forte da perdere l'equilibrio mentre indietreggiava, cadde e gemette di dolore; poi, all'avanzare del marchese e delle sue guardie, strisciò sul pavimento per allontanarsi il più possibile da loro.
In quel mentre, la porta della camera si socchiuse, poi si aprì; ne uscì un bambino di quattro anni, pallido e spaventato, con le lacrime già sull'orlo delle ciglia. Questi, gettate occhiate allucinate agli uomini in uniforme e al loro truce comandante, rabbrividì e si strinse alla sua mamma ancora accovacciata a terra. Il marchese lo fissò intensamente; quindi passò al volto della donna, trovando che la sua bellezza acerba si era mutata, con il tempo, in una fisionomia piuttosto ordinaria. Le condizioni di vita disagiate, inoltre, si manifestavano nella sua magrezza innaturale e nella consistenza dei suoi capelli spettinati, nelle occhiaie scure e nelle labbra secche. Tornò al bambino, notando su di lui i medesimi accenni di denutrizione e miseria; vide poi, assiepati nello spiraglio lasciato dalla porta aperta, altre due bambine, minori del primo, che lo osservavano con occhi dilatati dal terrore. Deciso a non lasciarsi vincere dalla compassione, Ottavio avanzò ancora, afferrò il polso di Rosina e la aiutò a sollevarsi; benché non volesse far trapelare nessuna forma di premura verso di lei, la sua presa non fu brutale. Rosina ne rimase più stupita che spaventata e assecondò il suo desiderio con il fiato mozzo dalla sorpresa.
«Io, Ottavio Edoardo Malancisi della Stella, dichiaro che voi, Rosina Raspante, siete posta agli arresti per aver osato congiurare contro la salute di mio figlio.»
«No, no, mio signore! Vi prego, no!» singhiozzò, scuotendo la testa. Ottavio, più risoluto che mai, riprese: «I vostri bambini saranno affidati al monastero di Santa Chiara ad Avella, dove saranno al sicuro, ad eccezione del vostro primogenito, che verrà con noi a palazzo. Quanto a vostro marito, conviene che ci confessiate dove si nasconde».
«Pietà, signore, pietà!» ripeté lei per tutto il tempo, aggrappandosi alla sua manica con immensa disperazione. «Abbiate pietà di me, non voglio andare in prigione...»
Ottavio le lasciò il braccio irrigidendo il viso per esprimere, senza dover parlare, tutto il rancore che nutriva contro di lei. Due soldati li raggiunsero, afferrarono con meno delicatezza le braccia di Rosina e si accinsero a portarla via. Il bambino più grande strillò a pugni chiusi, poi si gettò contro il marchese, percuotendolo con furia infantile. Questi, da parte sua, lo scansò con una leggera spinta e ritornò a fissarlo con attenzione; il bambino, lungi dal volersi arrendere, attaccò briga una seconda volta e Ottavio, per farlo desistere, ordinò: «Tenetelo fermo, ma non allontanatelo dalla stanza».
«No! Lasciate stare il mio Andrea! Lasciatelo, vi dico! Lasciatelo!» strillò sua madre; il marchese, sordo alle sue suppliche, tornò a rivolgersi a lei con parole ancora più dure: «Avreste dovuto riflettere sulle conseguenze del vostro spregevole atto, signora», quindi, rivolgendosi ai militari, continuò: «Tre di voi vadano alla stamperia della Palla, dove il criminale, verosimilmente, si troverà. Traetelo fuori e conducetelo qui, al mio cospetto».
Rosina, in balia dei soldati, non si sforzava più nemmeno di tenersi in piedi; ciondolava la testa da una parte all'altra, piangendo a dirotto e lamentandosi sottovoce, le guance rosse di vergogna. Ottavio, deciso a colmare gli ultimi spazi di dubbio rimasti, si fece più vicino alla donna e, scrutandola, la interrogò: «Da quanto eravate al corrente della mia identità?»
Lei esitò a rispondere, intimorita dalla sua vicinanza e dal suo sguardo truce, ma riuscì a mettere insieme una risposta stentata: «Dal vostro ritorno a palazzo, Vostra Altezza. La voce è arrivata in fretta qui e il mio patrigno, l'oste dell'Oca, ha capito subito che dovevate essere voi quello strano personaggio di giugno».
Il marchese, ascoltandola con i propri occhi fissi nei suoi, non trovò cenno di menzogna. Riprese dunque più fiducioso e il suo tono, suo malgrado, non suonò più così inquisitorio come avrebbe voluto: «E quando», domandò, «e perché avete messo in atto una macchinazione tanto folle quanto inutile?»
Rosina, pronta a rispondere con la stessa sincerità di un attimo prima, dovette rendersi improvvisamente conto di un dettaglio essenziale; forse, piuttosto, scopriva di poter trarre vantaggio da ciò che stava per rivelare e i modi un poco condiscendenti del suo nemico le rendevano il cuore più temerario di quanto pensasse. Perciò, anziché fornire le informazioni richieste, abbassò il capo e tacque. Ottavio, che da parte sua aveva notato, con occhio attento, tutte le sfumature della sua indecisione, calcolò in fretta se gli convenisse o meno concedere le tutele che, senza parlare apertamente, la giovane madre di fronte a lui intendeva esigere con il suo silenzio. Non avrebbe potuto, però, dimostrarsi così arrendevole con lei e decise, dunque, di imboccare una strada diversa che portasse entrambi esattamente dove volevano arrivare, solo rispettando i rispettivi ruoli nella vicenda.
«Signora Raspante,» esordì, gonfiando il petto e raffreddando la voce, «siete consapevole che, con una sola parola, io potrei risparmiarvi il processo e la condanna che vi meritereste di ricevere? La confessione sarebbe la migliore soluzione per voi: vi eviterebbe tanti grattacapi e, se vi troverò sincera, potrei impormi affinché vi sia evitata la tortura nel corso dell'interrogatorio formale presso l'ufficiale giudiziario. Conviene che parliate; qualora deciderete di collaborare, vi assicuro che non mancherò di fare la mia parte, mentre in caso contrario il giudice avrà mano libera su di voi.»
Il messaggio arrivò chiaro alle orecchie di lei e un leggero fremito scosse via la baldanza di poco prima, che era del tutto estranea al suo spirito. Tuttavia, Rosina aveva ottenuto le garanzie che cercava e ora la sua paura divenne quella che, non assecondando la volontà del marchese, le medesime garanzie potessero esserle tolte.
«Prima se ne parlava per scherzo: soprattutto a Cecco, l'oste, piaceva fare fantasie su questo, ma non c'era serietà nei nostri modi.»
«Come mai, allora, siete arrivati a parlarne con serietà?» la incalzò, temendo che volesse distrarlo dall'obiettivo principale dell'indagine.
«Davanti a un bicchiere di vino molti scherzi diventano cose serie», osservò, con una saggezza insospettabile per la sua età e la sua condizione; subito dopo, riprese: «Un anno fa, una sera, il mio patrigno ha invitato mio marito a festeggiare la buona piega degli affari della stamperia che gestiscono come soci. Tra un brindisi e l'altro, li ho visti ubriacarsi sempre più, finché non hanno cominciato a discutere della possibilità di rifarsi su di voi per quella notte che avevate passato alla locanda dell'Oca.»
La sua voce, che era andata affievolendosi via via, si spense in un sussurro. I suoi occhi si mossero lentamente, passando dal marchese al bambino di cinque anni, Tommaso, che si era quietato dopo tante rimostranze, rassegnato all'impotenza. Ottavio seguì il corso del suo sguardo, poi, pentito dell'eccessiva durezza che aveva usato, ordinò che i bambini fossero lasciati liberi e così anche la loro madre, dimodoché potessero abbracciarsi e rincuorarsi a vicenda. Rosina gli fu molto grata per tale concessione e vi scorse, probabilmente, un altro indizio della sua innata bontà d'animo. Avrebbe potuto approfittarne, far sì che il suo avversario si impietosisse fino al punto da perdonare lei e i suoi complici, se tali accettava di definirli; eppure, la sua coscienza le rimproverava una furberia crudele, perciò tornò al discorso che aveva cominciato per concluderlo.
«Ne parlarono così a lungo che la mattina dopo se ne ricordavano ancora e, nonostante fossero svegli e sobri, si convinsero di poter osare tanto contro di voi. All'inizio volevano semplicemente spedire una missiva in cui rivelavano la paternità del bambino, ma decisero che sarebbe stato meglio agire con più decisione e perciò decisero che avrebbero rapito vostro figlio. Io dissi che era un'idea da matti, che non si poteva proprio pensare di fare una cosa simile. Mio marito, però, non mi diede ascolto e si mise alla ricerca di un criminale vero che potesse aiutarli. Poi fece sapere al mio patrigno che forse aveva trovato qualcuno. Non ne seppi più nulla, poiché in quei giorni litigai con Marco e lui decise di tenermi fuori dalla questione. Era passato così tanto tempo che a un certo punto pensai che non se ne fosse fatto più niente...»
Mentre raccontava, Rosina si era inginocchiata tra i bambini, affannandosi a rassicurarli: ora sistemava la camicia del primo, ora annodava più stretto il nastro tra i capelli di una femminuccia, ora accarezzava un polso arrossato dalla stretta di un soldato un po' rude. Ottavio non replicò, quando lei smise di parlare, né insistette affinché continuasse. Ben presto, la cura dei figlioletti fu l'unico pensiero della giovane arrestata, quasi che potesse dimenticarsi della minaccia che le pendeva sulla testa. Passarono diversi minuti di stallo, prima che il marchese dicesse: «I dettagli, dunque, li otterremo dai vostri congiunti. C'è altro che ritenete opportuno comunicarmi?»
Sul momento, Rosina scosse la testa senza emettere suono, poi, venendo a trovarsi con gli occhi fissi sul viso del suo primogenito, ristette imbambolata. Ottavio la vide e, istintivamente, ripeté: «C'è altro?»
Rosina si morse il labbro, non per timore, ma per stizza. Era come se volesse tenere la bocca chiusa contro un impulso che, invece, la spingeva a parlare. Ottavio, premuto dalla necessità di sapere tutto il possibile, disposto addirittura a esporsi personalmente, si inginocchiò di fronte a lei e le prese la mano.
«Rosina, ditemi la verità. Solo una madre conosce la verità di cui vado in cerca e solo una madre può immaginare come sia penoso vivere lontano da un figlio. Ditemi: non avete mai desiderato che sapessi di avere avuto un bambino? E non parlo di vantaggi per voi e i vostri parenti, ma per me».
«Molti padri non vogliono sapere nulla dei propri bambini...» lamentò, volgendo gli occhi alle due bambine inconsapevoli.
«Non io, Rosina... Non io. Se solo avessi saputo, non ci sarebbe stato bisogno di congiurare contro di me: avrei fatto spontaneamente tutto ciò che mi fosse parso necessario per voi.»
«Io», disse lei senza guardarlo, «ero contraria a tutto questo! E ora mi trovo in impacci che non avrei mai voluto sbrigare; ma se parlerò, stupida come sono, mio marito mi batterà forte non appena potrà.»
«Perché dovrebbe picchiarvi? Non era il suo scopo quello di vedere il bambino legittimato?»
«A quell'ubriacone importa solo di se stesso; quanto a voi, lui avrebbe voluto ingannarvi e io, come vi ho già detto, ho provato invano a fargli cambiare idea.»
Udendo l'allusione a certi inganni, Ottavio si ritrasse pallido e freddo; le tempie presero a dolergli in modo molto fastidioso e le mani a tremargli impercettibilmente. Rosina tornò a fissarlo con occhi grandi e inquietanti, pallida anche lei di paura per ciò che aveva rivelato.
«Andate fino in fondo, Rosina: dove sta l'inganno?» la interrogò in un soffio, presentendo quale sarebbe stata la sua risposta.
«Quella notte avevate bevuto così tanto da far fatica a stare in piedi; se solo foste stato un po' più sobrio, sareste stato il mio primo uomo, poiché ero illibata. Invece siete caduto di peso sul letto e avete cominciato a dormire della grossa e non vi siete svegliato se non a mattino tardi. Vedete che c'era ben poca speranza che si potesse concepire un bambino quella notte...» rivelò, quindi aggiunse in fretta, notando il rinfocolare della sua ira: «E l'ho detto subito a Cecco, gli ho detto: "Il signore ha dormito tutto il tempo, non si è fatto un bel niente!", e lui lì per lì era stato anche felice che mi fossi conservata senza danno per nessuno; la sera successiva fu pronto a mandarmi nella camera di un altro ricco viaggiatore e lui, probabilmente, è l'artefice del pasticcio.»
I suoi occhi si raddolcirono subito, non appena scivolarono sul viso di Tommaso; lo strinse forte, lo baciò, lo prese in braccio. «Un pasticcio che non mi pentirò mai di aver messo al mondo, nonostante tutto.»
La confusione di Ottavio a quella novità fu superiore alle sue stesse aspettative: da un lato era sollevato a sapere di non essere caduto in tentazione, dall'altro si vergognava del fatto che a salvarlo da un eccesso fosse stato un altro eccesso, non meno grave del primo; a questo si sommava poi l'imbarazzo di fronte ai fanti, che certo, in cuor loro, deridevano il pivello che era stato e, infine, un senso di profonda insofferenza rispetto al tranello in cui era caduto senza porsi il minimo dubbio. E c'era Galatea, con il suo tradimento, verso la quale non era più così facile provare il risentimento genuino che aveva dominato la sua anima in quei due giorni. Se, all'inizio, la sua arroganza aveva montato sulle solide fondamenta della sua presunta fedeltà, in seguito era subentrata la rabbia cieca per un torto da vendicare, il torto, cioè, di essere stato tenuto all'oscuro di un segreto tanto intimo e prezioso come può essere la nascita di un figlio e il tentativo, parallelamente, di essere depredato di un altro bambino. Solo ora, alla conclusione dell'intrigo, si faceva spazio nel suo spirito afflitto qualcosa di molto simile al pentimento; non era, però, un semplice pentimento, quanto un senso di fragilità mai sperimentato prima, una condizione che gli venne naturale paragonare all'umiltà del peccatore comune quando si rende conto che le sue colpe sono state perdonate, solo più netta, più sincera.
Le necessità contingenti, tuttavia, richiedevano la sua attenzione allora più che mai: l'arrivo dei fanti dalla stamperia, con Marco Raspante ammanettato, e il sopraggiungere dalla strada maestra di Ferraris e dei suoi cavalieri imponevano il polso fermo e la mente fredda. Perciò Ottavio, dandosi una sistemata alla parrucca, si affacciò sulla porta e diede disposizione che i prigionieri fossero condotti alle prigioni di San Giulio, da dove poi sarebbero stati traferiti ad Avella per subire il processo. Continuò ordinando che Rosina e i bambini fossero trattenuti in casa loro sotto la custodia di due fanti, mentre le restanti forze si sarebbero dirette a Vallebruna sotto il comando dell'ufficiale Negri per la cattura di Toni Pertica.
Detto questo montò a cavallo, si affiancò a Ferraris e si avviò in testa al piccolo drappello diretto al porto; lungo la strada ebbe il tempo e la discrezione di metterlo a parte delle ultime scoperte, riservandosi comunque lo spazio di una buona e cristiana meditazione.
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